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Generale inglese: «in Afghanistan, non vinceremo»

di Guido Santevecchi - 06/10/2008

 

 

«Non vinceremo questa guerra»: sono quattro parole esplosive come altrettante bombe quelle pronunciate dal generale Mark Carleton-Smith, il comandante del contingente britannico in Afghanistan.

 

Parlando dalla sua base nella provincia meridionale di Helmand, dove ha a disposizione ottomila soldati, il generale avverte l’opinione pubblica in patria che «non si deve aspettare una vittoria militare decisiva».

 

Bisogna abbassare il livello delle speranze occidentali, dice l’ufficiale, che a 44 anni, con una carriera tutta nelle forze speciali oggi comanda la 16ma Air Assault Brigade dell’esercito e quindi non è sospettabile di essere un animo tenero e pacifista.

 

La sua analisi, tracciata apertamente per il Sunday Times, è che «si tratta di portare questa guerra che non possiamo vincere a un livello di ribellione gestibile, che non rappresenti una minaccia strategica e possa essere tenuta sotto controllo in futuro dall’esercito afghano». Perché non c’è da prevedere che quando le forze della Nato lasceranno il teatro d’operazioni, tra qualche anno, «non ci siano sul terreno delle bande armate in questa parte del mondo: sarebbe irrealistico», conclude il generale.

 

Il ragionamento di Carleton-Smith non è disfattista: rivendica per i suoi uomini il successo di aver «tolto il pungiglione ai talebani per il 2008» (si calcola che quest’anno siano stati uccisi 7 mila guerriglieri), ma guarda anche al numero di perdite che la sua brigata ha dovuto subire in questi mesi: 32 soldati caduti in azione e 170 feriti, che hanno portato il totale delle vittime britanniche dall’inizio della campagna afghana nel 2001 a 120.

 

II generale chiede di lavorare sul fronte politico: i talebani hanno un seguito tra la popolazione, quindi serve un negoziato: «Se i talebani fossero disposti a parlare di un regolamento politico... ebbene, questo sarebbe esattamente il tipo di progresso che conclude le insurrezioni di questo tipo e la gente non dovrebbe trovarlo sgradevole».

 

Da Kabul arrivano molti segnali. Gli americani stanno preparando un aumento temporaneo delle forze, un surge sul tipo di quello che ha migliorato la situazione in Iraq (il termine surge è stato studiato per evitare di usare escalation, che fu sinonimo di disfatta in Vietnam). II comandante Usa McKiernan ha chiesto 14 mila uomini, tre brigate per rafforzare il suo contingente di 34 mila uomini.

 

«Pompare sempre più forze non servirà a battere i talebani militarmente: i sovietici avevano il triplo degli uomini della Nato e non ce l’hanno fatta. Il punto è usare in modo più efficace il contingente», ha detto al Corriere Paul Burton, direttore del Senlis Council, un gruppo di analisti che ha molti contatti tra la gente afghana.

Ha fatto scandalo anche un commento dell’ambasciatore britannico a Kabul, Sir Sherard Cowper-Coles, secondo il quale la strategia «è destinata al fallimento», perché «la presenza militare occidentale è parte del problema, non della sua soluzione».

 

Secondo Sir Sherard alla fine, entro cinque o dieci anni, l’unico modo «realistico» di riunificare l’Afghanistan sarebbe di trovare «un dittatore accettabile». Le frasi dell’ambasciatore sono state riferite in un dispaccio confidenziale inviato a Parigi da un diplomatico francese e fatte filtra- re alla stampa. Il Foreign Office ha reagito sostenendo che il pensiero di Cowper-Coles è stato distorto. Però ora il pensiero del generale Carleton-Smith non si presta a interpretazioni equivoche.

 

La realtà è che politici e militari a Londra sono convinti che non si possa vincere la guerra e serva un negoziato. E siccome gli inglesi di guerre afghane ne sanno qualcosa, dai tempi dell’Impero, forse sarebbe il caso di ascoltarli.

 

Il presidente Hamid Karzai la- settimana scorsa ha chiesto al re saudita di mediare con gli insorti e ha proposto al leader storico dei talebani, il Mullah Omar, di farsi vivo.