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Fu l'entourage di Mussolini a spingerlo verso una politica antisemita?

di Francesco Lamendola - 02/11/2008


Alcuni storici hanno affermato che le leggi razziali del 1938 costituirono un vero e proprio divorzio del fascismo dal popolo italiano e dalla sua storia, dalla sua mentalità, dai suoi costumi. Quella data, quindi, rappresenterebbe la vera cerniera fra gli anni del consenso al regime, culminati poco prima nella entusiastica accoglienza alla guerra d'Etiopia e alla proclamazione dell'Impero, e gli anni della crescente disaffezione verso di esso, segnati da un crescente isolamento internazionale (accentuato dalla partecipazione alla guerra civile spagnola) e, poi, dall'ingresso nella seconda guerra mondiale, dalle sconfitte, dalla disperata penuria economica, dai duri bombardamenti aerei angloamericani, dall'invasione del suolo nazionale.
Ed è certo che le leggi razziali ruppero una secolare tradizione di tolleranza del popolo italiano (che, infatti, non le capì e non vi si identificò), oltre che di pacifica e proficua integrazione dei circa 50.000 ebrei residenti in Italia, compresi gli ultimi arrivi dai paesi dell'Europa centrale e danubiana, in fuga davanti alle persecuzioni antisemite.
È doveroso ricordare, d'altra parte, che, almeno fino al 1937, Mussolini era stato lontanissimo dal prendere in considerazione una politica di discriminazione razziale e che, anzi, subito dopo la conquista del potere in Germania da parte dei nazisti, egli si era adoperato personalmente, allo scopo di far recedere Hitler dalla sua politica antisemita, assumendo una posizione più netta e più coraggiosa di tanti altri leaders delle nazioni democratiche, i quali levarono bensì alte grida d'indignazione alle notizie dei primi pogrom e delle prime violenze antiebraiche, ma nulla fecero di concreto né per esercitare una pressione su Hitler in senso moderatore, né per offrire accoglienza ed aiuto concreto alle migliaia di ebrei in fuga dalla Germania.
Tanto andava precisato per onore di verità storica e anche per ribattere alle accuse di quegli storici secondo i quali né il Vaticano né, tanto meno, il governo italiano, avrebbero fatto alcunché per reagire all'ondata antisemita scatenata dai nazisti dopo il 1933.

Poi, nel 1938, nello spazio di pochi mesi, Mussolini cambiò politica e si decise a varare le famigerate leggi razziali; le quali, peraltro, a paragone di quelle tedesche e di altri Paesi d'Europa, non erano particolarmente crudeli, anche se indubbiamente furono vessatorie e segnarono una svolta in senso negativo nella civiltà giuridica e morale della nazione italiana.
È noto che Mussolini si adattò all'idea di questo mutamento politico non perché avesse cambiato opinione, ma semplicemente perché le vicende internazionali, dalle sanzioni della Società delle Nazioni in poi, lo stavano sospingendo irresistibilmente verso la Germania; e, più ancora, ve lo stava sospingendo la miope ed egoistica politica inglese; la quale, nel perseguire il disegno di un accordo navale anglo-tedesco, ruppe di fatto il fronte di Stresa e gettò praticamente l'Italia nelle braccia di Hitler, a dispetto dell'intimo desiderio di Mussolini di continuare a tenersi in bilico, possibilmente in posizione moderatrice, tra l'amicizia anglo-francese e quella tedesca.
Bisogna anche tener conto, nel valutare obiettivamente le ragioni della scelta di Mussolini del 1938, dell'atteggiamento violentemente anti-italiano tenuto dalla comunità ebraica mondiale durante la guerra d'Etiopia e le sanzioni, quando l'Italia si trovò isolata sul piano internazionale come mai le era accaduto fino ad allora: atteggiamento che stupì dolorosamente il Duce, che si era aspettato un minimo di gratitudine per quanto aveva fatto, o lasciato fare ai suoi prefetti nella Venezia Giulia e ai suoi organi di polizia, in favore degli ebrei tedeschi, austriaci e ungheresi perseguitati nei rispettivi Paesi da quei governi.
Né, per comprendere la genesi delle leggi razziali, si può sottovalutare il fatto che, dopo la conquista dell'Impero, l'Italia si trovò a dover fronteggiare, per la prima volta nella sua storia, il problema di regolamentare i rapporti fra i propri cittadini, civili e militari delle forze d'occupazione, e la numerosa  popolazioni indigena: problema già postosi alle nazioni europee che l'avevano preceduta nella politica di espansione coloniale, particolarmente agli Inglesi in India, ai Francesi in Africa e agli Olandesi in Indonesia; e che ciascuna di esse aveva affrontato secondo le sue tradizioni, la sua cultura giuridica, ma anche secondo le sue convenienze politiche ed i suoi obiettivi strategici.
Ma veniamo all'ultimo fattore che svolse un ruolo importante nello spingere Mussolini ad imboccare la strada di una aperta politica antiebraica: quello che lo storico Renzo De Felice ha individuato nella influenza su di lui esercitata dal proprio entourage.
De Felice fa notare che nessuno, fra i suoi più stretti collaboratori - con le sole eccezioni di De Bono e soprattutto di Balbo - si oppose in alcun modo alla svolta politica rappresentata dalle leggi razziali: alcuni (la maggioranza) per servilismo e opportunismo; altri (la minoranza) perché convinti della assoluta necessità di stringere un più saldo legame di amicizia con la Germania e, pertanto, di dover eliminare l'ultimo grosso ostacolo che a ciò si frapponeva: cioè, appunto, l'adozione di una linea politica antisemita da parte del fascismo.
Nemmeno questi ultimi, quindi - tra i quali spicca il nome del ras di Cremona, Roberto Farinacci - erano spinti da ragioni di razzismo biologico, bensì da motivi di politica internazionale: gli ebrei italiani, secondo loro, andavano sacrificati sull'altare della indispensabile politica di alleanza con la Germani hitleriana.
Il solo Giovanni Preziosi, e pochissimi altri (tra i quali il filosofo Julius Evola) erano favorevoli per motivi razziali in senso stretto alla persecuzione scatenata nel 1938; ma, anche loro - a nostro avviso - e con diverse motivazioni e prospettive - non tanto per convinzioni di tipo razziale, come avveniva nel Terzo Reich, quanto perché vedevano negli ebrei una potenza economica e finanziaria fondamentalmente ostile e, quindi, pericolosa sul piano della sicurezza interna, specie nella prospettiva di un conflitto con le democrazie occidentali.
In altre parole, si può dire che, quando Mussolini pose sul tavolo l'esigenza di varare le leggi razziali, si verificò la stessa cosa che sarebbe accaduta due anni dopo, allorché pose affrettatamente la questione dell'entrata in guerra a fianco della Germania. Essendosi circondato, per un ventennio, di ministri e collaboratori scelti sulla base della piaggeria e del nepotismo (come nel caso di Ciano) e non della competenza e della indipendenza di giudizio, il Duce non trovò nessuno disposto a dargli il consiglio franco e spassionato - a rischio di compromettere la propria posizione all'interno del regime - che la sua decisione era errata e che il Paese, moralmente, non lo avrebbe seguito.

Vale la pena di riportare il quadro tracciato dallo storico italiano a proposito della influenza esercitata su Mussolini, in senso antiebraico, dalla cerchia dei suoi maggiori consiglieri e collaboratori
Ha scritto Renzo De Felice nella sua «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo», Torino, Einaudi, 1961 e 1972; Milano, Mondadori, 1977, vol. 1, pp. 291-96):

«…Molti fascisti, specie della nuova generazione, non furono esenti da forme più o meno marcate di antisemitismo. Abbiamo già accennato alla nuova generazione dei diplomatici, gli esempi si potrebbero però moltiplicare anche per i funzionari degli altri ministeri, specie per quello dell'Interno. Ma senza dilungarci troppo,  pochi casi più significativi saranno sufficienti a mostrare che Mussolini era circondato da individui che erano in buona parte antisemiti o che, almeno, nutrivano pregiudizi e scarse simpatie per gli ebrei.
Un cenno particolare merita innanzitutto Vittorio Emanuele III. Di lui non si può certo dire che fosse un antisemita, non si può però neppure dire che fosse esente da qualche pregiudizio e, in particolare, che nutrisse simpatie per gli ebrei. Vedremo a suo luogo come egli non si oppose sostanzialmente ai primi provvedimenti antisemiti; qui ci basterà ricordare la frase con la quale nel 1938 eluse l'interrogativo che - già lo abbiamo visto - gli aveva posto Balbo a proposito delle prime voci di possibili provvedimenti antiebraici anche in Italia.. Alla domanda del maresciallo e quadrumviro se l'Italia si accingeva a fare anche in questo campo l'imitazione dei tedeschi, il re rispose:
"Senta Balbo, io ho la consuetudine di non metter mai carne al fuoco prima del tempo, ma per questa storia ho prevenuto Mussolini e gli ho detto un paio di volte: Presidente, gli ebrei sono un vespaio, non mettiamoci le mani dentro. Lui mi ha dato ragione ed è andato anche più in là: li ha fatti entrare in Italia a frotte. Non dico le lagnanze dei professionisti e dei commercianti nostri nel vedere arrivare questi ebrei tedeschi, austriaci… anche un po' arroganti e invadenti, mi dicono. E Mussolini zitto e tollerante. Ora lo so, li vuole fuori, perché durante la guerra d'Africa - e qui non gli si può dar torto - si sono schierati in America, in Inghilterra, in Francia, contro di noi con un'acredine da non dire. Lei lo conosce quanto me e meglio; Mussolini se l'è legato al dito questo atteggiamento ostile… e poi è geloso - credo - che l'antisemitismo tedesco sia tanto piaciuto alle nazioni arabe del levante mediterraneo."
E alle repliche di Balbo lasciò cadere il discorso.
In questa fase, se vogliamo, non vi è nulla di antisemita, non vi è però nessuna simpatia per gli ebrei. E questo atteggiamento del re non muterà sostanzialmente neppure dopo l'approvazione delle leggi razziali. Quando il papa protestò presso di lui per esse,  pare dicesse che "non amava i preti" e che era dalla parte degli ebrei solo per umana pietà. Un po' poco in verità.
Simpatie per gli ebrei non avevano neppure molti altri intimi di Mussolini. Emilio De Bono, che pure in sede di Gran Consiglio si oppose ai provvedimenti, appare chiaramente dal suo diario inedito che non lo fece né per motivi umani né per motivi morali, ma solo perché li riteneva politicamente sbagliati e - ironia della sorte - sottolineando che lui era antisemita:
"Pare che facciano di tutto per crearsi dei nemici. Quella degli ebrei, scoppiata come una bomba! Ma se dite che da un pezzo vi eravate accorti della influenza deleteria ebraica, perché non avete parlato prima? Perché avete atteso l'esempio tedesco?  Così ragiona il pubblico . come poi scuseranno tante incongruenze?  Io sono un fesso che mi accoro. Colpa di Mussolini, ma sono quelli che lo circondano che, invece di moderarne gli impulsi, lo spingono. Pare che se ne debba parlare al Gran Consiglio; prenderò la parola anche io che sono sempre stato antisemita.  Manca la misura, manca l'equilibrio sempre. L'uomo deleterio è Starace."
E se dai 'vecchi' come De Bono si passa ai 'giovani' come Galeazzo Ciano il quadro non cambia. Il suo diario parla per lui. "No amo gli ebrei, ma non mi sembra il caso di fare un'azione in tal senso in Italia", e il diario stesso e il diario stesso è pieno di piccoli spunti antisemiti: l'incaricato d'affari sovietico a Roma è "un ebreolo", il comportamento di Hore Belisha si spiega per lui con la "vanitas judaica", ecc. Con l'aggiunta che l'"antisemita" De Bono in sede di Gran Consiglio si oppose ai provvedimenti contro gli ebrei, mentre il "moderato" Ciano si guardò bene dal farlo, anche se in privato, così come nel suo diario, confidava di non ritenerlki opportuni, e, anzi, afferma esplicitamente:
"Né io credo che a noi convenga scatenare in Italia una campagna antisemita. Il problema da noi non esiste.. Sono pochi e salvo eccezioni buoni. E poi gli ebrei non bisogna mai perseguitarelki come 'tali'. Ciò provoca la solidarietà di tutti gli ebrei del mondo. Si possono colpire con tanti altri pretesti. E forse in piccole dosi gli ebrei sono necessari alla società come il lievito è necessario alla pasta del pane."
Pressoché nessuno dell'entourage seppe dire una parola ferma per dissuadere Mussolini. Balbo rimase un'eccezione e - ironia della sorte - se di qualcuno di coloro che gli furono intorno nella tragica faccenda ebraica Mussolini avrà occasione di parlare con rispetto sarà proprio di Balbo. Parlando con De Begnac nel 1941 dirà che "Balbo li ha difesi con estremo coraggio civile…". I più, servilmente, si adeguarono alle 'direttive' del 'duce', gettandosi ciecamente alla loro realizzazione e spesso fondando su di esse le loro personali fortune.
Per Starace abbiamo visto il duro giudizio di De Bono: lo stesso De Bono lo annovera tra quelli che in sede di Gran Consiglio furono più accesi. Grazie a lui il PNF fu preparato per tempo ai futuri provvedimenti. Sotto la sua ala nacque il famigerato manifesto degli scienziati razzisti. Lo stesso si dica per Bottai, per il 'moderato' e 'frondista' Bottai: in sede di Gran Consiglio meraviglierà persino Ciano per la violenza dei suoi attacchi antisemiti e per "la sua intransigenza" e subito dopo sarà tra i ministri quello che con più zelo si getterà nella crociata, teorizzandola in una serie di circolari ai suoi dipendenti.
A confronto di questi Machiavelli da strapazzo, di questi vili strumenti della politica mussoliniana, di questi profittatori di essa, si è quasi tentati di guardare con rispetto a un Farinacci o a un Preziosi; essi almeno agivano, dal loro punto di vista, coerentemente e, a modo loro, credevano alla necessità di una politica antisemita anche in Italia e se agirono in questo senso su Mussolini lo fecero per convinzione e non per piaggeria o per viltà e sin da quando Mussolini non era certo ancora orientato in quel senso.
Preziosi, lo abbiamo visto, era un antisemita di vecchia data, aveva teorizzato l'antisemitismo e lo aveva propagandato per anni sulla sua rivista e poi su "Il regime fascista"; sin dal primissimo dopoguerra aveva avuto rapporti con i nazisti e sin dal 1933 si era fatto assertore della loro politica. Pur sapendo di non godere le simpatie di Mussolini, per anni perseverò in questa sua azione parallela, conquistando ad essa prima Farinacci ("Preziosi - dirà Mussolini - ha preso la mano a Farinacci"), cercando poi di conquistare ad essa tutti quelli che poteva. Farinacci non aveva mai avuto simpatie per gli ebrei, non si può neppure dire però che egli fosse veramente un antisemita;  nel 1924 tra i principali redattori di "Cremona nuova" vi era un rabbino; nel 1932 intervenne presso il ministro Solmi per far divenire preside di una facoltà universitaria un ebreo; iniziata la campagna razziale tenne a lungo presso di sé come segretaria un'ebrea e si prestò anche a fare 'arianizzare'  degli ebrei. Per lui l'antisemitismo era necessario per rendere totalitaria l'alleanza con la Germania, era un fatto essenzialmente politico ed egli si adoperò in tutti i modi  perché l'ultima grossa divergenza tra i due regimi fosse eliminata. Di questa sua convinzione che la campagna razziale fosse solo un fatto politico egli non fece mai mistero con Mussolini, che pure sapeva non averlo punto in simpatia e di cui fu per anni la 'bestia nera' nell'ambito del fascismo; mai, per quanto ci consta, assecondò le elucubrazioni e le ideologizzazioni che del razzismo fecero tanti altri. Veramente tipica è una sua lettera a Mussolini da Cremona del 5 agosto 1938 che è, al tempo stesso, la prova più convincente del carattere politico del suo antisemitismo e la migliore pietra tombale che si può mettere sul famoso manifesto degli 'scienziati' razzisti del luglio precedente.. In tale lettera Farinacci scriveva infatti a Mussolini:
"A dirti francamente il mio pensiero, il problema razziale, visto da un punto di vista antropologico, non mi ha mai persuaso. Il problema è squisitamente politico; mi convinco ancora una volta che quando gli scienziati vogliono rendere un servizio alla politica, compromettono qualsiasi problema. Sul terreno filosofico e scientifico si può sempre discutere, sul terreno politico, dove ci sono delle ragioni di Stato, si agisce e si vince."
Il ruolo di un simile entourage fu indubbiamente esiziale.
Coloro che erano attorno a Mussolini o erano dei fautori ad oltranza di una totale intesa italo-tedesca (ancora il 29 settembre 1937 Ciano scriverà nel suo diario: "Nessuno può accusarmi di ostilità alla politica filotedesca"), o erano dei pavidi che non avevano neppure il coraggio di contraddirlo: gli uni e gli altri non fecero ovviamente nulla per evitare la persecuzione antisemita. I pochi che si opposero furono travolti dal numero dei loro avversari e dalla fama di antitedeschi ad oltranza che avevano.»

D'altra parte, questa pagina di De Felice ci sembra quanto mai istruttiva per evidenziare alcune particolarità della storiografia italiana (e non solo italiana) allorché si tratta di valutare in maniera obiettiva e spassionata fatti riguardanti le tragiche vicende degli ebrei nell'Europa del Novecento, e particolarmente negli anni della persecuzione nazista.
De Felice riporta alcuni documenti - un colloquio di Vittorio Emanuele III con Balbo; alcune espressioni del "Diario" di Galeazzo Ciano; un passaggio del diario inedito di Emilio De Bono - dai quali, egli ammette, non emerge un atteggiamento apertamente antisemita, ma neppure di simpatia nei confronti degli ebrei; e sostiene che ciò delinea un quadro complessivo di ostilità  verso gli ebrei da parte delle persone che circondavano il Duce in quegli anni, compreso il sovrano.
Francamente, non ci sembra un metodo corretto. Se il non avere una particolare simpatia verso una determinata minoranza interna dovesse essere equiparato a un atteggiamento razzista e tale da favorire, oggettivamente, lo scatenamento di una politica persecutoria, allora questo criterio di giudizio si dovrebbe applicare a numerosissimi governi, anche di tipo democratico, a cominciare da quello degli Stati Uniti d'America nei confronti dei neri, o degli stessi ebrei, almeno fino alla seconda metà del Novecento: il che non avviene.
Più in generale, ci sembra che nessuno storico italiano - nemmeno De Felice, che pure ha avuto grandi meriti nel rompere il muro di una Vulgata storiografica dominata da un esplicito preconcetto ideologico - abbia avuto il coraggio di spingere più a fondo la propria indagine sul perché gli ebrei, non solo in Italia, né solo in Europa, godessero di così scarse simpatie entro i Paesi in cui erano insediati da secoli e secoli; e meno ancora sulle radici dell'antiebraismo degli Arabi palestinesi culminato, nel 1929, nelle gravi violenze che attirarono la preoccupata attenzione della stampa e delle diplomazie internazionali.
Su tutto, crediamo, continua a pesare il terribile fantasma di Auschwitz e della sorte inumana toccata agli ebrei d'Europa nel corso della seconda guerra mondiale. Pure, il fatto che siano passati più di sei decenni da quella tragedia, dovrebbe consentire un maggiore sforzo di obiettività storiografica, tale da non passare del tutto sotto silenzio la ragioni di antipatia che, in tanti Paesi del vecchio continente - dalla Germania all'Ungheria, dalla Romania alla Polonia - , e anche fuori di esso, circondavano le minoranze ebraiche, e che sarebbe semplicistico vedere come un puro e semplice prolungamento dell'atteggiamento persecutorio medioevale a base religiosa contro i membri del popolo "deicida" e miscredente.
In particolare, nulla si è fatto per documentare lo strapotere della finanza ebraica nell'economia dell'Europa e del mondo, nonché le sue responsabilità nella grande crisi del 1929: è sembrato che anche solo accennare a questi temi potesse recare con sé la taccia di antisemitismo o di criptofascismo, per lo storico che avesse osato farlo. Il ricatto morale conseguente a questa situazione ha contributo a quel manicheismo storiografico per cui il mondo, negli anni tra le due guerre mondiali e, in parte, anche dopo,  è stato sbrigativamente diviso in buoni e cattivi, senza sfumature e senza distinguo: buoni, in questo caso, quanti hanno difeso incondizionatamente gli ebrei (pochissimi, in verità); cattivi tutti gli altri.
Non solo.
Ogni qual volta lo storico si imbatte nella convinzione di Hitler e, in minor misura, di Mussolini, che esistesse una internazionale ebraica mirante al controllo finanziario e culturale di vaste aree del pianeta, la questione viene sbrigata frettolosamente come una pura e semplice allucinazione dei due dittatori o, peggio, come un esempio palese di malafede politica. Ci si dimentica di dire che una tale convinzione non era affatto limitata alla mente dei due dittatori, né allignava solo nei due Paesi dell'Asse; e neppure si poteva considerare un patrimonio ideologico esclusivo degli ambienti politici di estrema destra.
La vicenda dei falsi Protocolli dei savi anziani di Sion, fabbricati dai servizi segreti zaristi nei primi anni del Novecento, dimostra che quella idea esisteva molto prima che nascessero sia il fascismo che il nazismo; e che non era limitata a pochi individui particolarmente eccitabili, ma era largamente diffusa nell'opinione pubblica mondiale, anche moderata.
A ciò si aggiunga la folta presenza ebraica fra i quadri dirigenti bolscevichi prima, durante e dopo la Rivoluzione d'Ottobre, nonché nell'Unione Sovietica durante la dittatura staliniana, e si avrà un quadro più completo e realistico della percezione negativa dell'ebraismo internazionale da parte di ampi strati dell'opinione pubblica; percezione negativa che il continuo afflusso di ebrei in Palestina dopo la Dichiarazione Balfour e l'assegnazione di quel Paese alla potenza mandataria inglese, nonché la diffusione delle idee sioniste, non contribuiva certo a mitigare.
Non si vuole, con ciò, sostenere che l'idea di un coerente ed organico disegno di dominio mondiale da parte dell'ebraismo internazionale trovasse riscontro in fatti accertati e incontrovertibili. Si trattava di una sensazione diffusa, e non solo dei nazisti o di alcuni settori del fascismo, ma di gran parte dell'opinione pubblica internazionale: e, quando si studiano i fatti storici, le sensazioni hanno il loro peso, a volte non minore dei fatti certi e documentati.
Come potrebbe, lo storico della Rivoluzione francese, sottovalutare il ruolo che le voci incontrollate degli assalti di briganti e di non meglio precisati eserciti stranieri ebbero nel fenomeno della Grande Paura, prodromo dell'insurrezione antifeudale nelle campagne?
Come potrebbe, il futuro storico della seconda guerra del Golfo, sottovalutare il ruolo che ebbe nella politica americana la psicosi delle armi di distruzione di massa di cui l'Irak di Saddam Hussein sarebbe stato in possesso?
Oggi noi sappiamo che quelle armi non esistevano, così come sappiamo - ad esempio - che l'incidente navale nel Golfo del Tonchino fu organizzato a bella posta dal governo statunitense per legittimare moralmente il proprio massiccio intervento militare nel Vietnam e i bombardamenti indiscriminati sul Nord di quel Paese; ma non così la pensava l'opinione pubblica internazionale all'epoca dei fatti.
Perciò, per tornare alla questione degli ebrei italiani e delle leggi razziali del 1938, bisognerebbe tener presente che non solo Bottai, Farinacci e Ciano avevano poca o nessuna simpatia per la comunità ebraica esistente in Italia; ma che un atteggiamento analogo, o anche assai più virulento, era ampiamente diffuso in molti Paesi d'Europa e fuori di essa. Tuttavia, su questo aspetto della questione, gli storici contemporanei hanno tirato un rigo, passandolo completamente sotto silenzio. Senza dubbio perché la storia la scrivono i vincitori, e lo sconfitto - specialmente in una guerra totale - si vede presentare il conto di tutte le nefandezze possibili, anche di quelle che non ha commesso o che ha commesso in misura analoga a quella del vincitore.

Del resto, siamo perfettamente consapevoli di quanto sia difficile, anche moralmente, parlare di queste cose (cfr. il nostro precedente articolo «Alcune brevi riflessioni sui concetti di  sionismo e antisemitismo», consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).
È difficile perché, quando ci si trova davanti a una tragedia storica delle proporzioni di quella subita dagli ebrei negli anni della seconda guerra mondiale, qualunque essere umano dotato di un minimo di senso morale prova un sentimento di viva indignazione; il che lo porta a pensare che sia cosa ingiusta e odiosa, oltre che non necessaria, condurre una ricerca spassionata delle condizioni che resero possibile il maturare di quegli eventi.
L'indignazione cancella ogni distanza critica dagli eventi e fa apparire superflua o inopportuna qualunque indagine preliminare sulle origini del fenomeno: dato che solo delle belve potrebbero  fare quello che fecero i nazisti, a che scopo perdere del tempo per esaminare i fatti anche dal loro punto di vista? Le belve umane, vien fatto di pensare, non hanno punti di vista, ma solo istinti sanguinari e criminali. 
Ciò è molto comprensibile dal punto di vista umano; lo storico, però, dovrebbe porsi in una prospettiva più libera dai condizionamenti emotivi. Per quanto aberranti possano essere state le ragioni dei carnefici, egli deve soffocare il naturale ribrezzo e sporcarsi le mani, studiandole e cercando di capirle.
Lo storico non deve condannare o assolvere, deve solo cercare di comprendere. E non si può comprendere un evento se ci si limita a demonizzare una delle due parti (anche se essa, realmente, giunse ad agire in modo efferato ed inumano); e se si esclude a priori, come se fosse una operazione immorale ed ignobile, la necessità indagare su quei comportamenti e quegli stati di fatto della parte che fu vittima, i quali possono aver suscitato diffidenza e ostilità in ampi settori dell'opinione pubblica mondiale.
Altri popoli, purtroppo, hanno subito tragedie paragonabili a quella degli ebrei nella seconda guerra mondiale: ad esempio gli Armeni, nel corso della prima, ad opera dei Turchi; per non parlare di numerosi popoli amerindi all'arrivo dei conquistadores spagnoli (cfr. il nostro precedente articolo «Quello degli ebrei è stato l'unico genocidio della storia?», sempre sul sito di Arianna).
Gli insorti della Vandea, nel 1793, ebbero mezzo milione di morti da parte delle armate repubblicane francesi che marciavano al grido di  «liberté, fraternité, egalité». Quello non fu un genocidio deliberato?
In nessuno di quei casi, però, qualche storico ha preteso essersi trattato di tragedie storiche incommensurabili; e in nessuno di essi è stata operata una totale rimozione del dovere numero uno dello storico: quello di tentare di comprendere e di spiegare, non di accusare o di giustificare.
Il giudizio morale è un atto della coscienza a cui ciascun essere umano è chiamato, specie quando  ci si trova in presenza di orribili tragedie storiche. Ma non appartiene alla natura e agli scopi della ricerca storica.
Pensare diversamente, significa sottrarre l'indagine dei fatti alla storiografia e trasformarli in qualcosa di mitologico.
Ma le mitologie non si costruiscono sui sensi di colpa.
L'Europa e il mondo si sono sentiti (e si sentono tuttora) in colpa, davanti all'enormità del genocidio ebraico; e hanno cercato di tacitare i propri sensi di colpa posando una lastra tombale su qualunque tentativo di indagine storica spassionata.  Hanno abdicato alle ragioni della storia: che non sono quelle di dare ragione a questo o a quello, ma di comprendere come e perché le cose siano andate in un determinato modo.
Certo, non è facile il mestiere di storico, quando si rivolge a eventi dolorosi e recenti, che hanno ferito profondamente la coscienza morale dell'umanità.
Pure, è un mestiere necessario: è il tentativo di stabilire un minimo di verità non solo sui fatti immediatamente visibili, ma anche sulle loro origini più o meno nascoste.
Un mestiere in cui si rischia di farsi tanti, troppi nemici e nessun amico: perché le ragioni non stanno mai tutte, al cento per cento, da una parte sola.
Un mestiere solitario, che richiede una spina dorsale ben dritta e un certo grado di stoicismo verso le inevitabili incomprensioni, gli attacchi e le calunnie le quali, prima o poi, giungeranno senza risparmio: segno che qualche tabù è stato infranto, che qualche bene intenzionata ipocrisia è stata messa a nudo.
Ma ce ne sono ancora, di storici con la schiena dritta, quando il rischio è quello di passare per razzisti, solo perché la ricerca della verità non guarda in faccia a nessuno?