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Una pagina al giorno: la notte degli spiriti maligni, di Maurizio Leigheb

di Francesco Lamendola - 11/11/2008


Maurizio Leigheb aveva poco più di trent'anni quando scrisse il suo primo libro importante, «Caccia all'uomo»,.
Si tratta della cronaca di un viaggio etnologico avventuroso fra gli Indiani Ayoréos del Gran Chaco nell'America Meridionale; fra alcune remote popolazioni del Medio Oriente, tra le quali gli Yezidi, ossia gli ultimi seguaci di una religione basata sul culto del Diavolo; e, soprattutto, fra alcune delle meno conosciute tribù dell'arcipelago indonesiano, fra Sumatra, Celebes e l'interno della Nuova Guinea occidentale.
In quest'ultima isola, Leigheb si spinse fin nelle regioni più inesplorate e incontrò una tribù di cannibali, che solo pochi mesi prima avevano ucciso e divorato due missionari protestanti.
L'Autore, dunque, si è avvicinato a popolazioni che - quarantacinque anni fa - vivevano ancora ai margini del mondo conosciuto e avevano avuto, in genere, pochissimi contatti con l'uomo bianco; e ovunque lo ha fatto con profonda consapevolezza dei danni che quei popoli hanno ricevuto dalla cosiddetta "civiltà" e che anche egli stesso, probabilmente, avrebbe causato loro, sia pure senza volerlo.
La narrazione, pertanto, si discosta in larga misura dalla saggistica etnologica «tradizionale», perché Leigheb non si limita a documentare la vita e le usanze di popoli ancora poco conosciuti, ma vuole anche far riflettere il lettore sull'ambiguità dei valori della civilizzazione, in nome dei quali gli uomini bianchi hanno sempre giustificato i peggiori abusi e le più ipocrite forme di sfruttamento ai danni delle altre culture e specialmente di quelle cosiddette «primitive».
Ne risulta una scrittura che - come è stato osservato - si muove su un doppio livello: da un lato,  quello di un diario di viaggio crudamente obiettivo, dal taglio nervoso,  animato da una vivida e dissacrante fantasia e percorso, non di rado, da un crudele paradosso e da una grottesca satira di costume; dall'altro, quella di un cupo e quasi delirante monologo sulla «bestialità» umana, che ricorda - a tratti - i film-docuumentario di Jacopetti e Prosperi, da «Mondo cane» a «Africa Addio» (del quale ultimo ci siamo giù occupati in una apposita recensione).
Gli interessi etnografici di Maurizio Leigheb si sono poi ampliati e approfonditi in una serie di libri di taglio più «scientifico», una decina in tutto, e nella collaborazione con la Casa Editrice De Agostini di Novara (città ove egli è nato, nel 1941). In particolare, sue sono state l'idea e la realizzazione della prestigiosa collana illustrata «Popoli nel mondo», per la quale egli stesso ha steso uno dei volumi monografici, intitolato «Indonesia e Filippine».
In «Caccia all'uomo», però, dal punto di vista narrativo, si respira una maggiore freschezza e una maggiore libertà, ai limiti dello sperimentalismo linguistico.
È l'opera di un giovane europeo che si getta allo sbaraglio nei luoghi più impervi del mondo, alla ricerca delle ultime vestigia di una umanità primitiva; e che, ovunque, scopre la stessa, sconvolgente realtà: che il peggiore nemico dell'uomo non è il cosiddetto «selvaggio», ma l'uomo che si autodefinisce civile: con la sua arroganza e con il suo fardello di inganni e menzogne, mediante i quali tenta di giustificare la propria condotta prevaricatrice e immorale.

Abbiamo scelto un brano in cui la vecchia Thanda, del popolo Toragia nell'isola di Celebes, racconta all'Autore (con l'aiuto di un interprete) le drammatiche vicende che condussero all'abbandono del suo villaggio da parte dell'intera popolazione.
Si tratta di un racconto in cui l'elemento soprannaturale, gli spiriti maligni o "wurakés", le oscure maledizioni che costituiscono l'antefatto e gli allarmanti ammonimenti degli stregoni, si intreccia con quello crudamente realistico, l'invasione di un'orda innumerevole di topi che penetra nel villaggio e semina il terrore fra gli abitanti, in un crescendo pauroso di sinistri presagi e di inquietanti avvertimenti.

Dal libro «Caccia all'uomo» di Maurizio Leigheb (Milano, Sugarco, 1973, e Longanesi & C., 1976, pp. 158-164):

«Intanto il nuovo riso stava per maturare, così le papaie e i cocchi più grossi. Ma poco prima che le spighe diventassero gialle, qualcuno veniva a tagliarle e a prenderle.  Le piantine erano tutte recise alla stessa altezza. Di notte si udivano continui fruscii, come di spiriti che corressero sui tetti e sugli assiti delle capanne. Si sentivano le scimmie gridare, sibili, stridii, gemiti e tonfi. Srotolavamo le nostre stuoie, alzandoci dai nostri giacigli, per scoprire le cause di quel mistero vedevamo continuamente delle ombre fuggire negli angoli delle capanne. - Ndara - dicevo -, li senti i rumori? Vedi anche tu le ombre che figgono sui muri, dietro  le travi e sul tetto? Le vedi sempre anche tu, con la coda dell'occhio? - Io le vedevo dappertutto, come le lucertole volanti,  che guizzavano nel buio. Ma anche di giorno vedevo saltellare ombre e chiedevo a tutti quelli che incontravo: - Le vedete anche voi? Eh, le vedete?
Gli alberi del villaggio perdevano le foglie. I loro rami erano sempre gravati di corvi e di avvoltoi col collo spinato, rosa,  e con gli occhi neri. Guardando sopra di noi, nel cielo, si vedevano volare alti per tutto il giorno altri uccelli di rapina. Il capo diceva che era un brutto segno, che le piante morivano bruciate dallo sterco di quegli uccelli e che la morte stava a guardarci coi loro occhi.. Allora ci fu il raduno degli anziani, che stettero a discutere tutta la notte. Decisero di sorvegliare ogni accesso al villaggio, di porre guardie notturne sugli alberi per tener d'occhio i granai,  di circondare le capanne con uno steccato di lance di bambù intrecciate con "rotang". Ma le vedette durante la notte non videro altro che topiche correvano nel buio, e dissero tra sé: - Sono soltanto i topi che girano di notte. Essi non potrebbero portare via tanto riso e uccidere tanti animali.- Scesero dalle piante e rientrarono a dormire nelle capanne.
All'alba trovarono un granaio quasi vuoto, una chioccia sgozzata e pene di pulcini dappertutto. Vennero i Lúntulúntu a dire che il raccolto del riso era perduto e che i loro bambini si erano ammalati, avevano la febbre e vomitavano tutto quello che mangiavano. Dicevano che c'erano tanti escrementi di topo nelle capanne e nei granai, nei cortili, che c'erano tanti topi come non si era mai visto negli anni precedenti; ma che non potevano essere i topi a mangiare tutto quel riso, a vuotare i granai e a uccidere gli animali. Intanto continuavamo a sentire squittii e gemiti di giorno e di notte. Noci di cocco mezzo mangiate cadevano dalle palme insieme a rami spezzati. C'erano pezzi di sago e di legno, sparsi a terra, e i gambi dei banani si piegavano, Era un continuo rosicchiare, ridere, segare e squittire. La gente era preoccupata perché non si erano mai visti tanti topi, ma diceva: - Non possono essere stati i topi a distruggere tanto riso, a vuotare interi granai e a uccidere animali più grossi di loro.
Ma sentivamo frusciare e pispigliare in tutti gli angoli della casa. I bambini piangevano di paura, a quei rumori continui, così vicini, vedendo ombre guizzare dappertutto. Volevano che li portassimo sempre in braccio o che li portassimo sempre per mano. Le donne dicevano che gli escrementi dei topi portavano le malattie, che bisognava far qualcosa per sterminarli, che tutti vedevano ombre saltare e guizzare e che, se non si trovava la spiegazione di questo fatto, era perché qualcuno mescolava col nostro riso  pezzetti di quelle foglie che fanno sognare. Per questo gli uomini avevano visto Tumbo e adesso noi credevamo di vedere ombre.
La stessa sera incontrammo un bambino dei Lúntulúntu che teneva un enorme topo per la coda, coperto di mosche verdi. Il vecchio Lúntulúntu si avvicinò a guardare il topo con attenzione: era grosso come non ne aveva mai visti, irsuto, con la coda squamosa e lunga. Perdeva il pelo ed ero pieno di chiazze rosa, di piccole ferite e pustole biancastre. Aveva il muso gonfio, i baffi insanguinati e i denti scheggiati. Gli occhi erano chiusi. Improvvisamente il topo fu attraversato da un ultimo fremito. Il bimbo lo lasciò cadere e si mise a piangere. Il topo si rigirò col ventre in aria, vomitando un grumo di sangue dalla bocca semiaperta. La gente veniva a vedere e diceva: - Noi abbiamo visto tanti topi morti, ma mai uno grande come questo. È grande quasi come un "cus cus". Intanto le provviste scarseggiavano e un gruppo di uomini si era messo in cammino per andare nei villaggi lontani a chiedere aiuti, sufficienti fino al secondo raccolto. I giovani andavano nella foresta con le lance e col bastone da getto per cacciare, ma tornavano solo con qualche scimmie e con serpenti. Dicevano che la foresta sembrava vuota, che gli animali erano fuggiti, che non si udivano più cantare gli uccelli. - Questo - pensavano - accade da quando è venuta la grande ondata. Migliaia ne ha spaventati e affogati. - Cominciammo a mangiare lucertole, serpenti e ragni, ma nessuno di noi mangiava topi, anche se ce n'erano in quantità, perché avevamo paura delle malattie. D'allora in poi i topi erano aumentati: li vedevamo correre e fermarsi inebetiti e poi ripartire di corsa. Erano quasi tutti grandi topi, con lunghi mustacchi e il pelo irsuto. Passavano nei cortili e si arrampicavano sulle palme e sui tronchi delle capanne. Eravamo agitati, col cuore in gola, perché tutto il giorno e la notte vedevamo correre e guizzare ombre per ogni dove. Chiudevamo gli occhi per cercare di dormire, ma, anche ad occhi chiusi, vedevamo ombre saltare e correre davanti a noi. Così per molti giorni. Non sapevamo più che fare. Allora gli uomini decisero di scavare un canale intorno al villaggio, di riempirlo d'acqua e di accendere i fuochi di sera e di notte, per tenere lontane quelle bestiacce.  Sugli alberi intorno alle capanne gli avvoltoi stavano ancora appollaiati, gonfi e satolli, con il becco aperto.
Il cielo si era fatto pulito: non si vedevano più volare né falchi, né corvi. Una sera i topi giunsero sino al canale e stettero sulla riva ad annusare l'aria coi musi puntuti, senza passare. Continuavano ad arrivare, neri e spelacchiati, in file come serpenti  notturni, uno attaccato all'altro, come in processione. Erano fradici e squittivano. Alcuni giravano su se stessi, come impazziti, poi correvano sul ciglio del canale, alzando il muso sulle zampe, agitando convulsamente i baffi, mostrando i denti gialli, cercando il punto del guado. Le donne, sedute sulle scale e appoggiate ai parapetti delle finestre, tacevano e guardavano impaurite. I bambini piangevano per il sonno e la paura. Gli uomini buttarono torce tra le fascine e le fiamme cominciarono a far crepitare i rami. Il villaggio scompariva tra veli di fumo grigi, alti e bassi, che si spostavano adagio nel buio. Quasi non riuscivo a vedere e capanne vicine alla mia. Ma quando i fuochi si accesero bene, vedemmo i topi rivoltarsi, le loro pance bianche e le loro zampe unghiute. Li vedemmo fuggire da ogni parte, con i piccoli occhi rossi per i riflessi delle fiamme, sibilando e correndo gli uni sugli altri, scavalcandosi e guizzando a destra e a sinistra. Noi ci guardavamo rinfrancati nel fumo e tossendo dicevamo:  - Pué m'òl alaburu, fai che non tornino.. Nessuno ha mai visto prima tanti tipi in una sola volta.
Ma quella notte qualcuno fece sogni cattivi: sognò di vedere  un gatto selvatico sul colmo del tetto, con gli occhi gialli che si accendevano e spegnevano. Stava lassù e diceva: - Andatevene, gente. Questo è l'ultimo avvertimento che vi do. La sventura si abbatterà presto sul vostro villaggio.
Il mattino presto si udirono anfora rumori e squittii. Nella capanna filtrava già la luce e saltavano le ombre. Mia sorella stava intrecciando foglie di "nipa" per metterle sul tetto del granaio. Ndara dormiva e si lamentava nel sonno come se avesse le doglie. Mi alzai per coprirla con lo scialle. Il mio piede cedette e andò a incastrarsi in un buco dell'impiantito. Pensavo che una trave fosse marcita per l'umido oppure che fosse stata smangiata dalle formiche. Sollevai il piede, spostando quel pezzo di legno. Vidi che c'era qualcosa che si muoveva dentro quel buco. Erano ancora topi, una nidiata di topi biancastri e rosa. Come un fulmine un'ombra fuggì. - Non contarli - disse subito mia sorella. - Potrebbero essere in numero pari. - Ndara si destò e disse: - Che è stato? Ho visto ombre saltare tutta la notte. - Niente - risposi. - Abbiamo scoperto dei topi piccoli, dentro una trave marcita. Quando le altre donne seppero questo, andarono a sollevare le stuoie, le panche e le casse,  a battere con le mani e con canne le assi del pavimento e delle pareti, le travi delle capanne e i bambù del soffitto, a capovolgere i setacci i frantoi, le gerle, i vestiti vecchi e ammuffiti del solaio, per ascoltare il suono che facevano, per sentire se erano vuoti. Trovavano graffi e i segni dei denti dappertutto. I bambù del tetto, percossi con le canne, si spezzavano cadendo a terra e uscivano tipi da ogni dove. Dalle gerle e dai recipienti di bambù, da sotto le assi e dai buchi nelle travi uscivano tipi e topini, correndo. C'erano madri che fuggivano con grappoli di piccoli attaccati  al petto. C'erano nidi dappertutto. Cominciammo  a battere più forte con bastoni e coltelli sulle pareti, sui pavimenti e sui soffitti. Cadevano caccole e piccoli con gli occhi chiusi, in ogni angolo.  Siccome gli uomini erano già nei campi, mandammo delle giovani a chiamarli e a spiegar loro cosa era accaduto.
Quando furono ritornati cominciarono a dire che ormai i topi erano in tutto il villaggio, che i tronchi che sostenevano le capanne potevano anche crollare, che bisognava rinforzarli e affumicarli. Quella sera, mentre gli uomini stavano segando le ultime liane per fissare i sostegni, si udì un rombi cupo e improvviso dietro le capanne. I topi arrivavano un'altra volta dalla foresta, sibilando, sibilando e squittendo. A un certo punto vedemmo una enorme massa  bluastra fatta di topi, come un tapiro nell'erba alta, inseguito da altri tre o quattro tapiri,  schiere di topi sovrapposte che, arrivando sul ciglio del canale, si fermavano e sollevavano i musi. Quelle che seguivano non potevano fermarsi e rotolavano addosso alle prime. Gli schifosi animali travolti e sospinti cadevano nell'acqua, uno sull'altro.  Annaspavano e nuotavano a decine, mentre altri cadevano su di essi.  Finché formarono un'onda nera e bluastra, come una massa elastica e molle,  che raggiunse l'altra sponda. Allora le donne fuggirono sulle scale  con le mani nei capelli, sollevando le sottane. Chiudevano le finestre e sbarravano le porte e gridavano: - Aiuto, aiuto! Ammazza, ammazza! - Gli uomini erano indietreggiati e, con gli occhi atterriti, avevano sguainato i "barong", colpendo a destra e a sinistra,  tagliando e infilzando, sollevando sventagliate di terra  tutt'intorno. Qualcuno, riaccese le torce, le agitava qua e là,  per tentar di arginare l'orda incalzante. Altri, saliti sui tetti,  gettavano bambù in mezzo al cortile, per alimentare in fretta le fiamme. I topo saltavano e fuggivano da ogni parte, correndo, fermandosi e tornando sui loro passi, arrampicandosi sui tronchi, sulle travi e sui tetti delle capanne e dei granai., I bambini terrorizzati si stringevano alle madri, piantando le unghie nelle loro gambe e nelle loro braccia. C'erano topi sbuzzati a terra e nell'acqua, occhi  sgusciati e code convulse, zampe e teste troncate e ancora scosse da tremiti Le lame dei "barong" luccicavano nella notte. Finché non si udì più né squittire, né genere, né fischiare..  Allora il capo villaggio disse: - Basta! Non gettate più bambù dai tetti, se non pioverà dentro le vostre capanne. Andiamo a dormire.  Io dico che non torneranno più. - Ma nessuno di noi ci credeva.  Stavamo intorno al fuoco, avvolti negli scialli e nelle pelli,  dopo aver chiuso le finestre e sprangato le porte.  Stavamo ancora lì a guardarci negli occhi sbarrati e a parlare sottovoce, tra i riflessi delle fiamme, in mezzo al fumo.  Ogni tanto nel silenzio ci mettevamo in ascolto. Poi, per rincuorarci, cantavamo le canzoni che tengono lontani i "wurakés", tenendoci per mano e battendo i piedi sull'assito del pavimento.»

Ricordiamo che qualche critico letterario, all'apparire del libro, storse un po' il naso davanti a questo elaborato racconto - di cui abbiamo riportato, per ragioni di spazio e anche per invogliare alla lettura dell'opera originale, solo la parte centrale -, mettendo in dubbio che una vecchia analfabeta potesse averlo pronunciato veramente, ricco come esso è di espedienti narrativi e di immagini quasi barocche, che tradiscono una penna decisamente smaliziata.
Noi non siamo d'accordo con un tal genere di critiche.
È chiaro che l'Autore ha liberamente rielaborato le parole del racconto originario; ma ne aveva la piena libertà, né questo depone a sfavore della sua autenticità o della sua credibilità. Del resto, abbiamo già anticipato che «Caccia all'uomo» è qualche cosa di diverso - e, secondo noi, di più - del tradizionale reportage etnografico, poiché è attraversato da una struggente e quasi rabbiosa volontà di sollevare i veli dell'ipocrisia di certo documentarismo falsamente obiettivo e «neutrale», per mostrare la realtà nuda e cruda della progressiva distruzione di tutte le altre civiltà da parte di quella moderna e tecnologica.
Lo studio della realtà umana, sembra ammonirci Leigheb, non è mai un fatto puramente descrittivo, ma è sempre un fatto ermeneutico; di conseguenza, descrivere e alterare sono una cosa sola, un unico e inevitabile processo.
A questo punto, tutto quello che conta è l'onestà intellettuale del singolo studioso, la sua capacità di valutare appieno non solo i processi di trasformazione culturale che si svolgono, più o meno lentamente, a livello generale, ma anche i microprocesi di cui la stessa etnologia è un veicolo generalmente inconsapevole, ma non per questo trascurabile.
Introdurre anche un solo coltello d'acciaio fra i Dani della Nuova Guinea, ad esempio, significa avviare uno sconvolgimento culturale dalla portata imprevedibile. Tanto vale che l'etnologo ne sia consapevole e che cerchi di limitare al massimo i danni che la sua presenza, in un modo o nell'altro, necessariamente arreca a quei popoli.
Volendo azzardare un paragone, potremmo accostare «Caccia all'uomo» di Maurizio Leigheb a «Ragazzi di vita» di Pier paolo Pasolini: entrambi all'insegna della nostalgia per un mondo che va scomparendo; entrambi percorsi da una contenuta, profonda pietà, ma anche da un sincero rispetto  per una cultura "altra", che ha ormai i giorni di vita contati.

«Caccia all'uomo» è un bel libro, anche dal punto di vista narrativo.
Peccato che i signori della critica letteraria paludata non se ne siano, a suo tempo, accorti. È un libro che meritava, e merita, di essere letto, più di tanti romanzi che allora andavano per la maggiore, solo perché usciti dalla penna di qualche scrittore di professione che si era fatto un nome, ma che non aveva ormai più niente, o quasi, da dire: come certe opere dell'ultimo Moravia (ad esempio, «Io e lui»), tanto per non fare nomi.
Oppure ci vengono in mente i fortunati libri di viaggio di Oliver Sacks, come «L'isola dei senza colore» e, soprattutto, quelli di Bruce Chtatwin, come «In Patagonia» o «Che ci faccio qui?». Bei libri, niente da dire; ma non superiori, a nostro parere, a questo di Maurizio Leigheb.
Il pubblico italiano è malato di esterofilia: chissà perché, è sempre pronto a buttarsi su un libro straniero; senza accorgersi che, qui da noi, esistono libri altrettanto buoni che trattano i medesimi generi, compreso il diario di viaggio. Piccoli tesori semisconosciuti che avremmo, per così dire, fuori della porta di casa, mentre siamo capaci di percorrere il giro del mondo alla ricerca di opere analoghe, tradotte da un'altra lingua, solo per una forma di snobismo alla rovescia.