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Il cadavere di Matteotti fu gettato ai piedi di Mussolini per chiudere ogni dialogo a sinistra?

di Francesco Lamendola - 21/11/2008


È noto che molti storici italiani del Fascismo e della Resistenza hanno trattato con malcelato fastidio la testimonianza di Carlo Silvestri nonché il ruolo che egli ebbe, o che tentò di svolgere, nelle ultime, convulse vicende della Repubblica Sociale Italiana.
I suoi sforzi per giungere a una pacificazione nazionale che evitasse il bagno di sangue conclusivo sono stati giudicati, nel migliore dei casi, tardivi e inopportuni; mentre non sono mancate le insinuazioni, se non proprio sulla buona fede delle sue intenzioni, certo sulla ambiguità del suo disegno politico.
Altrettanto imbarazzo, per non dire disagio, ha suscitato la sua testimonianza all'epoca della riapertura del processo a carico della banda Dumini per il rapimento e l'assassinio di Giacomo Matteotti, nel 1947.
In quella sede, infatti, Silvestri riferì il contenuto di alcuni colloqui da lui avuti con il Duce nei primi mesi del 1945, nel corso dei quali costui gli aveva detto esplicitamente, mostrandogli anche una serie di documenti, di essersi ripetutamente adoperato per salvare la vita a numerosi esponenti dell'antifascismo, sottraendoli alla polizia militare germanica; e di essere totalmente estraneo al delitto Matteotti.
Non solo: gli aveva detto anche che i mandanti del delitto andavano ricercati presso certi «putridi» ambienti finanziari e capitalisti, sui quali era in corso una indagine riservata; senza però fare nomi e senza meglio precisare a quali ambienti si riferisse.
Personaggio scomodo, Carlo Silvestri, perché non si lasciava inquadrare nei facili schemi manichei dell'epoca, secondo i quali tutto il bene stava da una sola parte politica e tutto il male dall'altra; anzi, doppiamente scomodo, perché il suo itinerario politico, a dispetto di certe apparenti incoerenze, mostrava più linearità e più onestà intellettuale di quanta non ne potessero sfoggiare molti altri personaggi che, saltati sul treno giusto magari all'ultima ora, sbandieravano nel 1945 una assoluta intransigenza e un moralismo tutto d'un pezzo nel giudicare tutto e tutti, dall'alto della loro pretesa purezza ideologica.
Carlo Silvestri, del resto, era giunto a convincersi dell'innocenza di Mussolini riguardo all'assassinio di Matteotti, ma non aveva mutato parere sulla natura del regime fascista e non si spingeva a scagionare il Duce da tutte le altre responsabilità, storiche e morali, legate all'esercizio della dittatura e, poi, alla catastrofica partecipazione dell'Italia alla seconda guerra mondiale.
La cosa degna di nota è che Silvestri, nel 1924, era stato probabilmente l'unico intellettuale italiano ad avere il coraggio di rivolgere a Mussolini un'accusa diretta e firmata circa l'affare Matteotti: ciò che lo pone in condizioni di non poter essere sospettato di essersi lasciato circuire da Mussolini nel 1945, abboccando ingenuamente a una sua verità di comodo.
Basterebbe già questo solo fatto per mettere Silvestri al di sopra di ogni sospetto di simpatie filo-mussoliniane o, peggio, di connivenza in un tentativo di depistaggio riguardo alle vere responsabilità del delitto Matteotti. La sua è una figura moralmente limpida: tanto è vero che, alla fine della guerra, ricevette minacce di morte perché tenesse per sé le cose che aveva apprese da Mussolini nei suoi colloqui dei mesi precedenti.
Ma chi era, dunque, Carlo Silvestri?
Era nato a Milano nel 1893, città ove sarebbe morto nel 1953. Giornalista vicino agli ambienti del socialismo milanese e del sindacalismo rivoluzionario, dal 1910 era stato redattore del «Corriere della Sera». Interventista nel 1915, in un primo tempo aveva sostenuto il fascismo, ma se ne era recisamente allontanato dopo il delitto Matteotti.
Condirettore de «Il Popolo» dal 1924, dalle pagine di quel giornale aveva condotto una coraggiosa battaglia contro il regime, venendo perciò condannato al confino.
Nel 1943 si era riavvicinato a Mussolini e aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana, come altri socialisti della prima ora (fra i quali Nicola Bombacci), non certo per smania di potere, ma per tentare di riportare Mussolini verso una politica di tipo corporativo e anticapitalista. La sua ferma convinzione, infatti, era che Mussolini, in fondo all'animo, fosse sempre rimasto socialista; e tale convinzione si era rafforzata nel corso dei colloqui avuti con il dittatore negli ultimi tempi della guerra.
Come ricorda Renzo De Felice in «Mussolini l'alleato; la guerra civile, 1943-45» (Torino, Einaudi, 1997, 1998, p. 344):

«Nel dicembre 1943 Silvestri fece avere a Mussolini una lunga serie di note per la realizzazione di un'effettiva "Nazione corporativa". Fortemente connotate in senso anticapitalista esse tratteggiavano un quadro dei compiti e dei problemi di pertinenza del governo, dell'amministrazione centrale,  delle istituzioni sociali nazionali e periferiche, nonché dell'organizzazione sindacale dei produttori e della disciplina dei apporti collettivi di lavoro. Allo stato della documentazione è impossibile dire se Mussolini ne prese direttamente conoscenza. Di certo risulta solo che le dette in visione a Pavolini insieme a un'altra serie di note dal titolo: "Linee di un movimento per un Governo - Stato- Regime (socialista) capace di intendere e di risolvere tutti i grandi problemi del Popolo".»

La tesi di Silvestri  (la quale, in fondo, non era tanto diversa da quella di Lenin) era che Mussolini era diventato antisocialista più per la cattiva influenza di molti suoi collaboratori e per la stessa insipienza di certi ambienti socialisti, che non perché avesse deliberatamente tradito i suoi ideali giovanili.
Inoltre, fin dal 1925, nel corso di un colloquio con Italo Balbo, Silvestri aveva appreso che Mussolini, proprio mentre qualcuno stava preparando il delitto Matteotti, aveva pensato seriamente di passare la mano ai socialisti e che, a quell'epoca, egli appariva a chi lo vide da vicino come «un pentito e un convertito».
Da questa interpretazione del «caso Mussolini» discendono alcune importanti conseguenze; e, in particolare, che sia nel 1919-22, sia nel 1943-45, Mussolini non avrebbe cercato affatto la guerra civile, ma che, al contrario, avrebbe desiderato evitarla, adoperandosi in tal senso mediante cauti  sondaggi presso i suoi ex compagni socialisti.
Non solo: ne discende anche che il progetto di socializzare la grande industria e la grande proprietà agraria, vagheggiato da Mussolini all'epoca della Repubblica Sociale Italiana (e anche negli ultimi mesi che precedettero la sua caduta, nel giugno del 1943), non era stato una vuota formula di propaganda, ma una cosa seria, anche se, alla prova dei fatti, essa si era dimostrata irrealistica e irrealizzabile.
Il lettore ricorderà che abbiamo già sfiorato l'argomento nel nostro recente articolo: «Fu il progetto di socializzare l'economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?» (sempre sul sito di Arianna Editrice).
Tutte conseguenze assai scomode per quanti, dal 1945 ad oggi, vorrebbero addossare a Mussolini tutte le colpe che gli spettano e anche qualcuna che non gli spetta, per faziosità e per mancanza di rigore storico e morale.

Dicevamo della diffidenza e del malcelato fastidio con cui molti storici antifascisti si sono confrontati col «caso Silvestri».
Valga per tutti il caso dello storico liberale Luigi Salvatorelli, che ebbe parole sprezzanti sia nei confronti dei tentativi di Mussolini di addivenire a un accordo con i socialisti fra il 1920 e il 1924, sia per quelli da lui effettuati nel 1945, per trasmettere loro pacificamente i poteri della Repubblica Sociale Italiana; nonché per quei socialisti i quali, per ipotesi, vi si fossero prestati. Ma Salvatorelli andò anche oltre e, in occasione del processo del 1947, affermò che quello di Silvestri era un tentativo di apologia, forse inconsapevole, dello stesso Mussolini.
Al che Silvestri rispose che Salvatorelli aveva atteso l'impiccagione di Piazzale Loreto per dire quelle cose, mentre lui e molti altri attivi antifascisti avevano pagato con l'esilio o col confino la propria coerenza; e che un uomo il quale, durante il ventennio, aveva evitato accuratamente di esporsi, non possedeva le carte in regola per accusare di apologia mussoliniana chi, invece, aveva rischiato di persona, accusando esplicitamente il Duce per il delitto Matteotti; e che lo aveva fatto  non quando tutti potevano farlo senza rischi, ma quando ciò era estremamente pericoloso.

Scrive dunque Carlo Silvestri nel suo libro «Matteotti, Mussolini e il dramma italiano», Milano, Cavallotti Editori, 1981, riferendo l'udienza del 5 febbraio 1947 del processo per l'assassinio di Giacomo Matteotti (pp. 45-53):

«CARLO SILVESTRI: Nel corso dell'interrogatorio Mussolini, sempre col proposito di farmi convinti della sua incapacità a sopprimere, o a far sopprimere, gli avversari politici oi nemici personali, mi portò l'esempio, più che mai documentato, di Bruno Buozzi, di Pietro Nenni e di Guido Miglioli.
Per Bruno Buozzi egli si espresse in questi termini: "Arrestato dopo l'occupazione tedesca della Francia, le autorità naziste avrebbero voluto procedere alla sua fucilazione. Per salvarlo ci fu un carteggio diplomatico diretto tra me e Hitler. Eccolo qui; ve lo leggo."
E dopo aver ultimato la lettura, Mussolini continuò:
"Quando Hitler si decise a consegnarlo, egli mi fece sapere che si aspettava di vederlo fucilato in Italia. La condanna a morte era richiesta dal Führer in base al repertorio che la polizia nazista possedeva de discorsi, degli articoli e degli atteggiamenti antinazisti attribuiti al Buozzi nella sua qualità di segretario della Confederazione generale del Lavoro italiano in Francia e di rappresentante italiano nell'Internazionale socialista. Per placare Hitler, gli feci sapere che, poiché si trattava di un mio vecchio amico personale, non mi sentivo di autorizzare la condanna a morte, ma che avrei rimesso Buozzi  al giudizio del Tribunale Speciale. Viceversa, appena passò il confine  e fu preso in consegna dalla polizia italiana, questa, eseguendo miei precisi ordini, non gli applicò neppure le manette e gli permise di risedere nel miglior albergo di Ferrara, in attesa che la Commissione provinciale per il confino decidesse, pro forma, sulla sua sorte, che fu una vera e propria villeggiatura in Umbria, con tale libertà di movimento, che Buozzi poté partecipare attivamente alla riorganizzazione del partito Socialista".
"Quanto a Nenni - continuò Mussolini - il caso fu più complicato. Hitler qualificava Nenni un agente di Mosca. Gli risposi che io lo conoscevo a fondo  e che non credevo assolutamente a questa accusa. Himmler mi inviò un rapporto dettagliato per confermare l'accusa stessa. Ne seguì fra Hitler e me il carteggio che voi  potete esaminare. Per strappare Nenni alla morte, dovetti impegnare un vero e proprio corpo a corpo con Hitler quasi che, invece del mio avversario, si trattasse di un fratello. Infine Hitler si decise a consegnarmelo preannunciando la decisione con una lettera personale, nella quale reclamava che la fucilazione avesse luogo in Italia onde avesse virtù d'esempio. Curioso, paradossale che il presunto assassino  di Matteotti si impegnasse in un vero e proprio incidente diplomatico per salvare la vita di Nenni. Voi sapete che l'ex mio capo redattore al Popolo d'Italia ed attuale direttore de l'Avanti! se la cavò a buon mercato, ma il suo salvataggio fu considerato dal Führer quasi come un'offesa personale e mi feci, per l'ennesima volta, giudicare da lui come un umanitario dal cuore troppo tenero" (sensazione, mormorii).
Mussolini passò quindi da Nenni a Miglioli a proposito del quale mi disse:
"Capii subito che si trattava di una montatura di Farinacci.  Era lui che l'aveva fatto arrestare dai tedeschi a Parigi, era lui che brigava per una condanna a morte o, almeno, per quella all'ergastolo. Miglioli, a Parigi, non si era comportato da antitaliano ma egli aveva difeso gli interessi storici dell'Italia di fronte alla coalizione tedesco-francese che voleva realizzare un'intesa a danno nostro.. Non c'era motivo di fucilarlo, bensì di ringraziarlo come patriota italiano; anche Miglioli se la cavò col confino.
Prima di venire alle conclusioni devo sospendere questo sommario resoconto dei miei colloqui con Mussolini a proposito dell'uccisione di Matteotti, per dire in quale circostanza, e per la prima volta, le ipotesi da me fate nel 1924 circa la partecipazione di Mussolini al delitto Matteotti divennero in linea assoluta prive di fondamento, nel senso che ne derivai una specie di prova morale a suo favore. Fu in un colloquio con Umberto Poggi, vivo e vegeto, già Segretario generale, insieme con Giuseppe Giulietti, della Federazione italiana dei lavoratori del mare. Nel '24 ci fu conflitto fra Giulietti e Poggi. Il primo si schierò dalla parte di Mussolini e l'altro da quella di D'Annunzio il quale assunse la reggenza  della Federazione lavoratori del mare e la tenne durante il 1924. Ogni tanto se ne serviva per minacciare Mussolini, ma senza il proposito di far seguire alle minacce i fati, come sarà provato nel libro "D'Annunzio e Mussolini, sommario di storia dei loro rapporti", di cui ho riportate alcune pagine nell'"Epoca" di Roma. Umberto Poggi, dunque, mi fece rilevare che se Mussolini avesse avuto il cadavere di Matteotti sulla coscienza, non avrebbe mai tenuto il discorso che invece egli tenne quando, non so se il giorno stesso del delitto o quello successivo ad esso, si scagliò in termini veementi contro gli esponenti dell'opposizione, che non avevano raccolto immediatamente il suo appello alla distensione e alla collaborazione contenuto nel discorso del 7 giugno.
Io di questo colloqui con Poggi posseggo altrove un resoconto ampio ma non ne posso dare qui che una sintesi. Eccola: "Se vogliono i plotoni di esecuzione, invece che la collaborazione, li avranno ed i loro cadaveri resteranno lì esposti sulla Piazza Colonna a guisa di monito."
Nel momento in cui si svolgeva il colloquio Mussolini-Poggi, la notizia del rapimento di Matteotti non era ancora trapelata; appunto per questo Umberto Poggi mi fece rilevare:
"È chiaro che se Mussolini fosse stato al corrente del rapimento e della successiva uccisione di Matteotti non si sarebbe mai pronunciato mai nei termini di estremo furore e indignazione, con i quali invece si espresse dandomi, per sovrappiù, l'incarico ufficiale di riferire le sue precise parole a Gabriele D'Annunzio, in nome del quale ero andato da lui."
Dovetti convenire con Poggi, e credo di avere diritto di ripeterlo qui, che Mussolini sarebbe stato un ben strano delinquente se, invece di preoccuparsi della creazione di un alibi ben congegnato, avesse pronunciato delle frasi valide proprio per imprimere al delitto, in modo inconfondibile, il suo sigillo, la sua sigla.
Ritorno a riassumere u colloqui con Mussolini.  Fatto il bilancio della "Croce Rossa Socialista" (centinaia di salvataggi individuali, migliaia di salvataggi collettivi, se si tirano le somme di tutti gli interventi per evitare le deportazioni in massa) e di tutto ciò c'è già amplissima documentazione, con sessanta documenti scelti fra i più interessanti e pertinenti alle cause, presentati a suffragio della mia deposizione al processo Pisenti e al processo Parini, mentre le due sentenze dedicano una cinque pagine e l'altra sette pagine a questi miei interventi, e il P. M. Sagone ebbe ad elogiare altamente la  "Croce Rossa" stessa nella sua requisitoria  nel processo Parini…
P.G: - Ne abbiamo sentito parlare nei giorni scorsi.
SILVESTRI: - In modo particolare Mussolini insistette su certi suoi interventi in favore di Ferruccio Parri. Egli precisò testualmente:
"Fra le carte di un certo processo esistevano documenti tali da compromettere nella maniera più grave Ferruccio Parri. Ora Vincenzo Cersosimo, che presso il Tribunale Speciale esercita incarichi istruttori e requirenti dall'epoca della sua ricostituzione nell'autunno del 1943, ha fatto scomparire i documenti riguardanti Parri. Credete che ciò sia potuto avvenire senza che io ne fossi infornato? Ne fui informato, e le notizia mi fece molto piacere". (Impressione, commenti).
Devo far rilevare che nella sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise  straordinaria di Bergamo, presidente il dottore Gastone Artina, nella causa contro il generale Griffini già presidente del Tribunale Speciale nel periodo repubblicano e contro il coimputato giudice Vincenzo Cersosimo, sta scritto a conferma di ciò che mi disse Mussolini: "È il Cersosimo che fece sparire da un incartamento processuale tutti i documenti che riguardavano Ferruccio Parri, capo del CLNAI". (Sentenza n. 1- 1945 di Reg. gener. E n. 1-1945 di reg. Sentenze).
Anche questa rievocazione fu fatta da Mussolini per pormi davanti a questo quesito:
"Un delinquente come sarei stato io si sarebbe prodigato come io mi sono prodigato, per salvare la vita dei miei avversari? Si sarebbe affannato, quando venne da me Pisenti, cui si era comunicata la vostra angoscia perché era in imminente pericolo di fucilazione, da parte dei tedeschi, colui che voi considerate più fratello dei vostri fratelli, cioè Corrado Bonfantini comandante generale delle Brigate Matteotti; si sarebbe affannato per trarlo dal pericolo?"
Ed eccoci alla conclusine di Mussolini:
"Nicola Bombacci - egli mi disse - e il prefetto Luigi Gatti [un giovane di 32 anni: amicissimo di Nicola Bombacci, e proprio per designazione e insistenza di quest'ultimo nell'ultimo periodo divenuto segretario particolare di Mussolini, scelto da lui perché aveva acquistato la convinzione che non sarebbe stato succubo di nessuno, né di Buffarini, né di altri] Nicola Bombacci e Luigi Gatti stanno da anni perseguendo una pista che dovrebbe portare al decisivo accertamento delle fondamentali responsabilità nel delitto Matteotti. Vi autorizzo a parlare tanto con Gatti quanto con Bombacci e li autorizzerò a dirvi liberamente tutto quello che per ora si può dire. Se ancora non posso anticipare le conclusioni in termini di nomi e di cognomi, posso però assicurarvi, sin d'ora, che le indagini di Bombacci e di Gatti hanno dato conferma all'affermazione contenuta nel discorso al Senato nell'estate '24: Il delitto è stato compiuto non da me, ma contro di me!"
"Alle origini dell'assassinio di Matteotti vi fu un putrido ambiente di finanza equivoca, di capitalismo corrotto e corruttore, privo di ogni scrupolo, di torbido affarismo. S'era sparsa la voce che nel suo prossimo discorso alla Camera [sull'esercizio finanziario] Matteotti avrebbe prodotto tali documenti da portare alla rovina certi uomini che erano pervenuti a infiltrarsi profondamente rtra le gerarchie fasciste. L'idea di catturare Matteotti per metterlo nell'alternativa o d restituire gli accennati documenti o di perdere la vita, sorse in questo sporco ambiente dove ogni volta che riprendeva a circolare la notizia di una possibile collaborazione tra me ed i socialisti, si manifesta immediata una reazione che chiamerei feroce. Il discorso del 7 giugno fece temere che io mi fossi definitivamente orientato nel senso di offrire ad alcuni socialisti la partecipazione al ministero. Da ciò forse il precipitare dei tempi, da ciò la cattura di Matteotti, già da parecchi giorni predisposta, avvenuta nel pomeriggio del 10 giugno."

Che questa congiura di loschi ambienti finanziari e capitalisti sia esistita oppure no, non è ormai possibile dirlo con certezza.
Certo che nel Paese dei cento misteri, dal caso Mattei a Piazza Fontana, dal caso Calvi alla strage di Bologna e a quella di Ustica, sappiamo che certe trame sono, quanto meno, possibili; anche perché delitti politici e attentati terroristici di un certo tipo si verificano puntualmente in presenza di determinate congiunture storiche, come se una regia occulta li organizzasse allo scopo di orientare in una direzione ben precisa l'evoluzione del quadro politico e, conseguentemente, di quello economico e finanziario.
Noi non sappiamo, e forse non sapremo mai, se veramente il destino di Matteotti fu deciso non da ciò che egli aveva detto nella storica seduta del Parlamento, nella quale aveva denunciato i brogli e gli abusi fascisti nella recente campagna elettorale (30 maggio 1924), ma da ciò che intendeva dire successivamente circa certi scandali e segreti politico-finanziari che coinvolgevano personalità, le quali non avevano nulla da guadagnare e molto da perdere se il progetto di una collaborazione fra governo e Partito Socialista fosse effettivamente andato in porto - ammesso che tale progetto esistesse e che tale fosse la volontà, o quanto meno l'auspicio, di Mussolini.
La storia non si fa con i «se» e neppure con le ipotesi gratuite, perciò lasciamo cadere questo aspetto del problema relativo al delitto Matteotti.
Stabilito che, allo stato presente delle cose, è pressoché impossibile accertare l'esistenza del suddetto complotto maturato in equivoci ambienti della finanza, resta da valutare l'altro aspetto della questione: se sia verosimile, cioè, che Mussolini potesse aver desiderato, e a maggior ragione ordinato o suggerito, il rapimento ed eventualmente l'assassinio dell'onorevole Matteotti. Ebbene, alla luce della situazione politica esistente nel giugno 1924, e dopo il successo fascista alle elezioni politiche, ci sembra che ciò sia poco verosimile.
Le confidenze raccolte da parte di Carlo Silvestri, dalla viva voce del dittatore, negli ultimi mesi di vita della Repubblica Sociale Italiana, vanno nella medesima direzione. Certo bisogna utilizzarle con qualche cautela, non perché la fonte non sia attendibile - non è questo il problema - ma perché Mussolini può aver dato una versione di comodo, mirante ad attenuare le proprie responsabilità, e sia pure appoggiandosi sul fatto - vero e incontestabile - che egli effettivamente si adoperò in varie occasioni per salvare la vita a parecchi esponenti dell'antifascismo militante, i quali erano caduti nelle mani dei Tedeschi, specialmente dopo la capitolazione della Francia.
Esistono, in casi come quello del delitto Matteotti, una verità processuale ed una verità propriamente storica.
Si potrà discutere all'infinito se Amerigo Dumini e la sua banda intendessero solamente rapire  e, magari, spaventare Giacomo Matteotti, o se intendessero ucciderlo fin dall'inizio; e, soprattutto, se alle loro spalle vi fossero personalità più o meno eminenti del regime fascista.
La verità processuale, come è noto, si è svolta in due tempi.
Nel primo tempo, ossia nel processo del 1926, Dumini fu condannato a poco più di 5 anni di reclusione per il sequestro e l'assassinio di Matteotti; beneficiò poi di un'amnistia concessa da Mussolini, ma fu mandato al confino.
Nel secondo tempo, svoltosi dopo la caduta del fascismo, il processo fu riaperto dalle autorità repubblicane nel 1947 e si concluse con la condanna di Dumini a 30 anni di carcere.
Egli stesso ha poi narrato queste vicende nella sua autobiografia «Diciassette colpi», apparsa nel 1966; recentemente, lo storico G. Mayda è tornato ad occuparsene, con il suo volume «Il pugnale di Mussolini» (2004).
Molto probabili, in ogni caso, per non dire certe, sono le responsabilità dirette da parte di Giovanni Marinelli, che lo stesso Carlo Silvestri indicò come il mandante materiale dell'assassinio. In effetti Marinelli, come responsabile della squadra di polizia agli ordini di Mussolini, si serviva di Dumini quale suo uomo di fiducia. Le evidenze portavano a lui fin dalle prime indagini, tanto che nel giugno del 1924 era stato arrestato; per venire poi scarcerato, solo grazie all'amnistia del 31 luglio 1925. 
Proprio a causa dell'amnistia, il processo di Chieti non si interessò di lui; sicché egli aveva potuto rientrare nel Partito Nazionale Fascista come segretario amministrativo, contemporaneamente alla segreteria di Augusto Turati, nel marzo del 1926.
Entrato a far parte del Gran Consiglio alla fine del 1934, fu tra i firmatari dell'ordine del giorno Grandi nella decisiva seduta del 24-25 luglio 1943, che provocò la caduta del regime. Per questo venne processato a Verona e fucilato, l'11 gennaio 1944, insieme a Ciano e ad altri; il processo del 1947 non poté, quindi, chiamarlo sul banco degli imputati.
Altri personaggi importanti del regime, implicati con lui nell'affare Matteotti, furono De Bono, Finzi, Cesare Rossi e Filippelli; e anche De Bono fu tra i fucilati di Verona.
E passiamo alla verità storica.
La verità storica eccede, per varie ragioni, la «semplice» verità processuale, anche perché si colloca su un piano diverso e più completo
Come abbiamo già detto, le verità storiche stentano ad emergere, in Italia, ogni qualvolta si va a toccare il nervo sensibile di particolari delitti e attentati politici, le cui trame si diramano in varie direzioni e sembrano perdersi nel labirinto dei servizi segreti più o meno deviati, di talune logge massoniche facenti capo a loschi personaggi come Licio Gelli, e perfino ad intrighi internazionali che coinvolgerebbero settori di servizi segreti di potenze straniere.
Sulla verità storica del delitto Matteotti sono state dette e scritte molte cose, e noi non abbiamo la pretesa, in questa sede, di dire una parola definitiva.
Ci basta aver suggerito una prima verità, e sia pure negativa: che Mussolini, cioè, non aveva alcun interesse a ordinare, in quel preciso momento storico, l'assassinio di Matteotti; che altre forze affaristiche, forse, ne avevano invece tutto l'interesse. Inoltre, prendiamo atto del fatto che Mussolini, quando ne ebbe la possibilità, si adoperò per salvare da morte certa uomini come Bruno Buozzi, Pietro Nenni e Guido Miglioli, a volte strappandoli letteralmente dalle zanne dei nazisti o, come nel caso di Miglioli, sottraendoli a una deliberata volontà persecutoria di certi esponenti del fascismo più oltranzista, come il ras di Cremona, Roberto Farinacci.
E ciò, dal punto di vista storico, significa già fissare almeno qualche punto fermo, in una vicenda che rimane, per molti aspetti, oscura, quale il delitto Matteotti.
Che poi questa conclusione possa dispiacere a coloro i quali amano dipingere la storia in termini rigorosamente manichei, addossando agli sconfitti non solamente le colpe che realmente ebbero, ma anche quelle che non ebbero, questo è un altro discorso, ed è un discorso che poco ci interessa.
Sarebbe ora che, a sessantatré anni dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra civile italiana, si cominciasse a liberarsi da certi schemi mentali precostituiti e un po' faziosi, per tornare al nudo e puro mestiere dello storico: l'accertamento dei fatti, senza guardare in faccia nessuno.
Intanto, consigliamo chi desideri approfondire la questione di andarsi a rileggere i libri di Carlo Silvestri: «Matteotti, Mussolini e il dramma italiano» (1947), «Mussolini, Graziani e l'antifascismo» (1949).
Sono una lettura interessante, che getta un raggio di luce su aspetti della nostra recente fino ad ora poco esplorati, magari non per semplice distrazione degli storici di professione.