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I riformisti italiani tra moderatismo e "gironda"...

di Carlo Gambescia - 15/12/2008

Il riformismo è di solito giudicato benevolmente dai politologi. E’ visto come una sintesi politica, resa necessaria dalla moderna divisione tra destra e sinistra, scaturita dalla rivoluzione francese e consolidatasi nell’Ottocento: la destra si oppone al cambiamento, la sinistra vuole cambiare tutto, il riformista punta invece sul compromesso tra le idee degli uni e degli altri.
E i moderati? Durante la rivoluzione si assunsero l’onere i girondini, tutti giornalisti e avvocati al servizio di una nascente borghesia provinciale: prima misero sotto accusa il re, perché ne ostacolava l’ascesa, poi tentarono di salvargli la testa, affinché difendesse i privilegi della neoborghesia da cui provenivano. Nessuno li ascoltò e finirono quasi tutti ghigliottinati. Salvo poi tornare - durante il Termidoro (dopo la morte di Robespierre) - i sopravvissuti, sui banchi della Convenzione, ovviamente ancora in cerca di buoni affari. Di qui la cattiva fama del termine. Ma cerchiamo di essere più chiari.
In primo luogo, il riformismo è un compromesso finalizzato alle riforme mentre il moderatismo è un compromesso rivolto alla conservazione dello status quo. Un errore che spesso si commette è quello di identificare da un lato riformismo e democrazia e dall’altro moderatismo e antidemocrazia. In realtà, riformismo e moderatismo non appartengono a un sistema politico particolare: sono fenomeni trasversali e ciclici. Napoleone condusse a termine, con grandi riforme, l’opera della rivoluzione francese (ad esempio la codificazione legislativa). Cavour, grazie all’invenzione del centro politico, pose le basi dell’unificazione. Anche Mussolini, che era un dittatore, mediò per più di vent’anni tra fascismo moderato e radicale, riuscendo così ad attuare alcune riforme (certo in chiave verticistica e autoritaria). De Gasperi, col suo “centrismo riformista”, favorì il successivo sviluppo economico ( i personaggi storici ricordati, possono più o meno piacere, ma dal punto di vista più ampio delle costanti sociologiche - ed è bene ripeterlo - le “riforme” (vere) introdotte restano mentre i regimi politici, democratici o meno, passano).
Per contro, il “riformismo” di Napoleone, Cavour, Mussolini, De Gasperi, venne travolto, oltre che da errori, limiti interni e cattiva fortuna, anche da “contro-ondate” più o meno lunghe di moderatismo . La Francia postnapoleonica, esaurita dalle guerre, penserà solo ad arricchirsi. L’Italia del dopo Cavour, piena di debiti, punterà prima sulla “lesina” (con la destra storica), poi su sperperi e corruzione (con la sinistra depretisiana), e infine sul clericalismo (con Giolitti). Ma quella di sprofondare nel moderatismo è una sorte toccata anche l’Italia del dopo Mussolini e De Gasperi. Con Moro Fanfani, Andreotti Craxi, Prodi, Berlusconi, si è avuta e si ha solo una politica segnata da grandi annunci, ma da pochissime riforme. Come prova il pietoso stato in cui tuttora versano ospedali, scuole, università e altri servizi pubblici.
In secondo luogo, va distinto il moderatismo politico, come ideologia, dal moderatismo elettorale o sociologico. In genere la stragrande maggioranza delle persone è sfavorevole a mutamenti troppo radicali: vuole soprattutto sicurezza. E di solito, le rivoluzioni scoppiano solo quando il consenso si è dissolto per ragioni economiche (tassi elevati di disoccupazione e povertà), politiche (costante indebolimento della catena di comando), sociali (crescita di una criminalità diffusa), culturali (progressivo isolamento delle élite). La vera arte, o quintessenza del moderatismo ideologico, è trovare il giusto punto di equilibrio tra promesse non mantenute e conservazione di un minimo di consenso sociale. Oggi si punta sulla paura del ceto medio di impoverirsi, ma anche su aspettative di miglioramento. In questo senso il moderatismo ha bisogno di tassi di sviluppo anche modesti ma costanti. Solo così può consentire ad alcuni di conservare privilegi, anche minimi, e a tutti gli altri di sperare di ottenerne , grazie alle promesse di futuro benessere.
In terzo luogo, quanto al riformismo di sinistra, va subito chiarito che nel Novecento di vero riformismo di sinistra ne è esistito uno solo, quello socialdemocratico. Segnato da solide tradizioni nazionali di solidarismo pubblico, sindacalismo e cooperazione sociale (come in Inghilterra, Germania, paesi scandinavi), severo antifascismo ma anche altrettanto duro anticomunismo. Distinto da ottime prove di governo, innervate da politiche economiche fondate sulla programmazione, l'alta tassazione dei ceti abbienti, il welfare, la concertazione, e soprattutto una base o rappresentanza sociale diffusa che andava dai ceti operai a quelli medi. In Italia, non è mai esistita una solida tradizione riformista, e soprattutto di effettivo governo nazionale, con tali caratteristiche. Vanno ricordate correnti di pensiero e figure prestigiose, spesso influenti sul piano delle politiche locali, nonché sublimi testimonianze morali e politiche (si ad esempio pensi al sacrificio di Matteotti e dei due Rosselli): personaggi isolati - all'interno di un mondo ferocemente massimalista - di estrazione culturale e politica differente (da Turati e Saragat, passando per i liberalsocialisti), ma mai di forze politiche "fattivamente" riformiste nel senso specifico e forte della grande socialdemocrazia europea.
Questa premessa aiuta a capire i limiti dell'attuale riformismo di sinistra italiano. Che oltre a non vantare le tradizioni politiche e sociali di cui sopra, viene dopo la fine del comunismo novecentesco e dopo la profonda crisi del welfare state (dopo la Thatcher e Reagan). Che cerca di collegarsi al blairismo o “new labour”, senza avere un grande passato alla spalle, come il laburismo inglese. La storia spesso è un peso (in senso oggettivo) di cui si dovrebbe tenere conto...
Pertanto si tratta di un riformismo più liberale che socialista, dal momento che non avendo solide tradizioni welfariste, ha sbrigativamente accettato il mercato come unico strumento di produzione e redistribuzione della ricchezza economica e sociale (cfr. ad esempio gli atti del recente seminario del Gruppo parlamentare del Partito Democratico, dal titolo che è tutto un programma, Persone e Imprese di fronte alla crisi, Nuova Inziativa Editoriale, Roma 2008 - http://www.deputatipd.it/ : “Il modello redistributivo del ‘900 è ormai superato” (p.88, del cartaceo); “il nostro sistema si è ormai assestato sulla linea delle riforme che dal pacchetto Treu alla legge Biagi hanno ormai introdotto un’ampia flessibilità in entrata, con una vasta gamma di tipologie contrattuali diverse dal modello standard" (p. 95, del cartaceo), “ noi siamo percepiti (…) come portatori di una politica fiscale punitiva (…) [il che] significa che non abbiamo capito niente del complesso mondo del lavoro autonomo” (p.140, del cartaceo); e via discorrendo…
Per un socialdemocratico classico, fatto salvo il capitalismo come unico quadro istituzionale, la sola forma accettabile di economia era, ed è, quella mista (stato + mercato), mentre per un riformista italiano di oggi la sola forma di economia valida è quella pura (o solo di mercato). Inoltre un buon welfare richiede tassazione progressiva e ampie tutele del lavoro. E non precarizzazione e ammiccamenti a un lavoro autonomo, che già di suo evade o elude il fisco
Un atteggiamento del genere può essere solo fonte di confusione e contraddizioni politiche. Siamo perciò davanti a una sinistra più moderata che riformista. Una sinistra girondina.
Fino a quando si resterà immersi in questa specie di melassa politica ?
L’attuale crisi economica può mettere in discussione tutto, dal momento che il moderatismo vive e muore di economia. E come dicono i suoi detrattori di buoni affari… Ma se cadono i nostri girondini, dove sono i riformisti, quelli veri, in grado di sostituirli? Purtroppo, come la storia insegna, appaiono, solo dopo che i rivoluzionari hanno fatto il proprio “dovere”.
Quale? Tagliare le teste.