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La chiesa cattolica e il problema del capitalismo

di Davide Gianetti - 07/01/2009

La crisi economica che ha colpito l’Occidente negli ultimi mesi è stata oggetto di analisi da parte di affermati economisti e prestigiosi commentatori. Nei giorni successivi al Natale, in occasione del “Te Deum” di fine anno a San Pietro, anche Joseph Ratzinger si è espresso in merito, esortando il mondo a cogliere l’opportunità di questa grave recessione per ripensare l’attuale modello economico e chiedendosi se “siamo davvero disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo”. L’esortazione papale seguiva di pochi giorni l’accorato appello del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, rivolgendosi agli italiani, ammoniva a non lasciarsi prendere dallo sconforto continuando a sostenere, attraverso i consumi, l’attuale sistema produttivo, in attesa che la bufera di questi mesi si depotenzi fino al suo completo superamento. Due modi opposti di interpretare il mondo e la vita, una divaricazione quasi antropologica fra due sistemi valoriali antitetici e incompatibili fra loro. Eppure la sorpresa, mista a imbarazzo, che le parole del pontefice hanno suscitato nel mondo dell’informazione, può essere misurata dalla cortina di infastidito silenzio che i grandi organi di stampa hanno fatto scendere sull’intervento di Benedetto XVI. A fronte di incessanti strumentalizzazioni ideologiche che vogliono Papa Ratzinger l’alfiere più illustre, e nobile, della cosiddetta neo – civilizzazione teo – con, misto di tradizionalismo etico – morale e di liberalismo economico rasente il laissez - faire, il pensiero del Papa riconferma e prosegue semmai lungo quella direttrice di “economia sociale” che la Chiesa Cattolica, sin dai tempi della “Rerum Novarum” di Leone XIII, ha fatto propria. Se infatti in questa enciclica la proprietà privata è “sancita dalle leggi umane e divine”, nondimeno “la terra, sebbene divisa fra i privati, resta a servizio e beneficio di tutti”. Il diritto di proprietà, e quindi il diritto al profitto, non sono assoluti o illimitati, dal momento che il “godimento dei beni è subordinato alla loro originaria destinazione comune”. Nei decenni successivi l’enciclica leoniana, la posizione della Chiesa non si è mai discostata da tale enunciazione, puntualizzandosi  e approfondendosi nel tempo in corrispondenza di eventi o rivolgimenti sociali ed economici. D’altro canto l’ideologia liberista poggia su di un principio nettamente differente: il diritto di proprietà, oltre a essere sacro, è assoluto e illimitato e l’individuo ne può disporre e goderne a suo totale piacimento, fermo restando l’unico limite di non interferire o lesionare gli altrui diritti di proprietà. All’opposto, nell’enciclica “Quadragesimo anno”, Pio XI chiariva che “ negando o affievolendo il carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade e si rasenta il cosiddetto ‘individualismo’” . Parallelamente Pio XI negava la compatibilità del liberalismo economico con la dottrina della Chiesa teorizzando che “ il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo, anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualista, la quale dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale, non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo o timone proprio (..). Se non che la libera concorrenza, quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta nei limiti bene determinati, non può essere in alcun modo il timone dell’economia, il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza, quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito individualistico”. Giovanni XXIII è ancora più duro e in “Mater et magistra” osserva che “lo Stato, la cui ragion d’essere è l’attuazione del bene comune nell’ordine temporale, non può rimanere assente dal mondo economico; deve essere presente per promuovere opportunamente la produzione di una sufficiente copia di beni materiali”. E conclude perentorio: “tanto la concorrenza in senso liberistico, quanto la lotta di classe, in senso marxistico, sono contro natura e contrarie alla concezione cristiana della vita”. Paolo VI chiarisce nella sua “Populorum progressio” che “la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. Dopo aver elogiato lo spirito di intraprendenza che gli uomini mostrano nell’esercizio del proprio lavoro e ricordando che comunque “l’economia è al servizio dell’uomo”, Papa Montini lamenta che “si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale liberalismo senza freno conduceva alla dittatura a buon diritto denunciata da Pio XII come generatrice ‘dell’imperialismo internazionale del denaro’”. Ciò che maggiormente colpisce in questi brevi estratti è l’insistito parallelismo fra marxismo e liberismo; questo parallelismo tuttavia è meno paradossale di quanto sembri a prima vista. Marxismo e liberismo affondano le proprie radici nel comune terreno di coltura rappresentato dal materialismo e dal riduzionismo economico. Entrambi proclamano il primato dell’economia sulle altre sfere dell’esistenza umana arrivando a interpretare in senso economicistico i comportamenti umani, siano essi individuali, famigliari o comunitari. La molla del profitto o l’appartenenza di classe, superficialmente antagonisti, convergono nel fagocitare l’uomo all’interno di un reticolato dove ogni azione è classificabile, quantificabile e misurabile in chiave materialistica, utilitaristica. Anche il “problema” religioso contenuto nelle due dottrine è apparentemente conflittuale. Se il marxismo si prefigge di estirpare dal cuore dell’uomo ogni sentimento o appartenenza spirituale, il liberismo, teoricamente disposto a riconoscere tale bisogno, ne demolisce le fondamenta laddove la società dei consumi e del benessere, unico approdo possibile di una premessa orientata al liberalismo economico, prosciuga qualsiasi velleità trascendente a tutto vantaggio di una condotta esistenziale inevitabilmente improntata al materialismo e al consumismo. Papa  Wojtyla è da tutti considerato il nemico storicamente più irriducibile e implacabile del comunismo: la sua azione, pastorale e politica, che favorì e accelerò l’implosione del regime sovietico, fu determinante durante i cruciali anni ’80. Superfluo ricordare le sue numerose condanne nei confronti del terribile “flagello” marxista e le sue prese di posizione in merito a tale dottrina. Meno scontato sarebbe ricordare anche i giudizi severissimi che Giovanni Paolo II indirizzò al liberismo all’indomani del crollo del Muro di Berlino. Come già in questi giorni con Ratzinger, anche allora le parole di Wojtyla furono accolte con imbarazzato silenzio né questo deve stupire più di tanto: eravamo nell’epoca post – comunista, dove il capitalismo trionfante sembrava non dovesse incontrare più ostacoli sulla sua strada e lo sviluppo irrefrenabile e illimitato delle risorse ambientali sembrava dovesse preludere ad una nuova èra di benessere e felicità generalizzati. In tale clima di ottimistica euforia, gli ammonimenti di Giovanni Paolo II dovettero sembrare bizzarri e soprattutto fuori tempo massimo. Occorre sottolineare comunque che già in piena Guerra Fredda Papa Wojtyla ricordò, nell’enciclica “Laborem exercens”, che “il diritto di proprietà differisce dal collettivismo ma, allo stesso tempo, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici che ad esso si richiamano (..). La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa  di assoluto e intoccabile. Al contrario, essa l’ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni”. Accanto alla più completa disponibilità di godere del proprio insindacabile diritto di proprietà e accanto al teorema della libera concorrenza all’interno di un mercato anarchico autogovernato dall’armonica mano invisibile dei molteplici e contrapposti interessi egoistico – individuali, il liberismo postula anche la tesi secondo cui le risorse naturali dell’ambiente sarebbero inesauribili e che quindi esse devono essere sfruttate dagli uomini mediante la loro intraprendenza, essendo questo non soltanto un mero bisogno contingente, bensì una vera e propria esortazione divina rintracciabile nella “Genesi”, dove Dio accordò all’uomo la facoltà di disporre a suo piacimento dei beni e dei frutti della terra. Nella tradizione cristiana tale diritto presenta confini ben definiti: le risorse ambientali non sono inesauribili e l’uomo ha il dovere di fare un uso accorto di tali risorse. Lo conferma Giovanni Paolo II nell’enciclica “Sollecitudo rei socialis” quando puntualizza che il “dominio accordato dal Creatore all’uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di ‘usare e abusare’, o di disporre delle cose come meglio aggrada”. In occasione del centenario della “Rerum Novarum”, Giovanni Paolo II dà alle stampe la “Centesimus annus” nella quale, fermo restando il mantenimento dei punti cardine dell’enciclica leoniana, approfondisce l’analisi dei vari sistemi economici teorizzando, apertis verbis, la comune radice ideologica che affratellerebbe la dottrina marxista e quella liberista. Dopo aver preso atto del fallimento del sistema comunista incarnato dalla disfatta del regime sovietico, Papa Wojtyla esorta a non cadere in un’altra forma di riduzionismo economico rappresentata dal capitalismo e da quella “società del benessere e dei consumi che tende a sconfiggere il marxismo sul terreno di un puro materialismo”, laddove il capitalismo converge con il marxismo “nel ridurre totalmente l’uomo alla sfera dell’economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali”. Nonostante gli aspetti positivi di un sistema economico di impronta liberale, per Giovanni Paolo II “le carenze umane del capitalismo, con conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt’altro che scomparse”. Tali riflessioni conducono il pontefice polacco ad ammonire, sempre nella “Centesimus annus”, che “il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica”. Quest’ultimo punto è particolarmente sensibile per la dottrina liberista. Credendosi e autoproclamandosi unico e solo sistema economico realmente valido e “morale”, sulla base di una sorta di trasposizione profana dal monoteistico “non avrai altro Dio all’infuori di me” al più prosaico, ma non meno intollerante, “non avrai altro sistema economico all’infuori del mio”, il liberismo non ha mai concepito l’idea di dover affrontare validi concorrenti sul piano della teoria economica, corroborato in questa certezza, sul piano storico, dallo sgretolamento dell’economia reale in Urss da una parte e dal lento declino delle economie social – democratiche nell’ Europa del Nord  dall’altro. Ecco perché il recente invito di Benedetto XVI a individuare un modello economico diverso dall’attuale non deve destare stupore o meraviglia. Erroneamente identificato come il “portavoce” dell’Occidente, libero e liberale, in contrapposizione alle tirannidi autocratiche, islamiche o post- sovietiche che siano, Joseph Ratzinger continua nella scia della tradizione ecclesiastica e nella sua personale scia di coerenza dottrinaria se già nel 1996, in un articolo apparso sulle pagine di “civiltà Cattolica”, il futuro pontefice constatava che “la superiorità morale del sistema liberale in politica e in economia, apparsa con tanta evidenza, non suscita tuttavia alcun entusiasmo. Troppo grande è il numero di coloro che non partecipano dei frutti di questa libertà, anzi, perdono completamente ogni libertà: la disoccupazione diviene nuovamente un fenomeno di massa; la sensazione dell'inutilità, della superfluità, angoscia le persone non meno della povertà materiale. Lo sfruttamento senza scrupoli si diffonde; la criminalità organizzata si avvale delle opportunità offerte dal mondo liberale, e in tutto si aggira il fantasma della mancanza di senso”. In un messaggio che Benedetto XVI ha rivolto ai vescovi dell'America Latina riuniti ad Aparecida nel maggio 2007 per la loro quinta assemblea,  così si è espresso in merito al problema rappresentato dalla falsa dicotomia comunismo - capitalismo: “tanto il capitalismo quanto il marxismo hanno fatto la promessa di trovare la strada per la creazione di strutture giuste, affermando che queste, una volta stabilite, avrebbero funzionato da sole; hanno preconizzato che non solo non avrebbero avuto bisogno di una precedente moralità individuale, ma che esse avrebbero promosso la moralità comune. Ma questa promessa ideologica si e' dimostrata falsa. I fatti lo hanno evidenziato: il sistema marxista, dove e' andato al governo, non ha lasciato solo una triste eredità di distruzioni economiche ed ecologiche, ma anche una dolorosa distruzione degli spiriti. E la stessa cosa vediamo anche all'ovest, dove cresce costantemente la distanza tra poveri e ricchi e si produce un'inquietante degradazione della dignità personale con la droga, l'alcool e gli ingannevoli miraggi di felicità”. In questa generale disgregazione di uomini e cose, anche l’ambiente, fatto a “somiglianza di Dio”, viene ad essere messo sotto assedio da pratiche di sfruttamento intensivo volte ad ottenere un profitto illimitato. Nell’Angelus domenicale del settembre di due anni fa, Papa Ratzinger si è fatto interprete di una simile preoccupazione rilevando come “l’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile”. Sarebbe tuttavia ingenuo dedurre che la Chiesa, così come è ben lungi dall’essere promotrice, almeno stando ai desiderata degli intellettuali neo – con, di un pensiero volto a sorreggere, ideologicamente e culturalmente, la dottrina liberista, possa essere strumentalizzata dal campo avverso ed essere elevata, o peggio arruolata, stando alle recenti affermazioni di Papa Ratzinger, nelle fila dei sostenitori della “decrescita”. In realtà mai nel passato, e a maggior ragione oggi, la Chiesa Cattolica ha inteso teorizzare uno specifico modello economico, limitandosi semmai ad individuare quelle storture e quelle falle che, rispetto al suo patrimonio spirituale e dogmatico, rischiano di corrodere e corrompere l’esistenza “morale” del cristiano in quanto tale. Oggi tuttavia viviamo tempi particolari: da semplice “diagnosta” dei mali che attanagliano economie, società e nazioni, la Chiesa rischia forse, in mezzo al deserto e alle macerie di ideologie disintegrate, di dover essa stessa indicare la strada, per la prima volta nella sua storia, in un’epoca che, da qualunque angolazione la si voglia guardare,  si preannuncia post – liberista.