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Il genocidio degli Ebrei è stato un vero «Zivilisationsbruch», una frattura della civiltà?

di Francesco Lamendola - 15/01/2009


 

Il genocidio di milioni di Ebrei durante la seconda guerra mondiale ha costituito quella che si può chiamare un vero e proprio «Zivilisationsbruch», una frattura nella storia della civiltà umana?
A sostenere questa tesi non è stato solamente lo storico Dan Diner, nato nel 1946, insegnante al Department of Politics and Government presso la Ben Gurion University del Negev di Beer Sheva e direttore dell'Istituto Simon-Dubnow di storia e cultura ebraica di Lipsia, in Germania, in un suo saggio incluso nella «Storia della Shoah».
E non sono stati solamente quei filosofi che hanno accolto in pieno la sua definizione, come ha fatto Angelo Bolaffi - docente alla Sapienza di Roma - nel suo saggio «La dialettica dell'illuminismo tra Auschwitz e Hollywood», dedicato a confutare «La dialettica dell'illuminismo» di Adorno e Horkheimer (su «MicroMega» n. 5 del 2003).
Costoro lo hanno sostenuto in maniera esplicita; ma, in maniera implicita, a farlo sono tutta la cultura ufficiale, tutta la storiografia, tutta la politica, tutta la filosofia, perfino una buona parete della teologia (per la quale il genocidio degli Ebrei metterebbe in crisi il paradigma del Dio buono e onnipotente: perché, se ha permesso un evento simile, o non sarebbe buono, o non sarebbe onnipotente).
Se così non fosse, non si spiega perché i Parlamenti di Stati quali la Francia, la Spagna, la Polonia, l'Austria, la Svizzera, il Belgio, la Repubblica Ceca, La Slovacchia, la Romania, la Germania, Cipro e il Lussemburgo, abbiano deciso di inscrivere nel codice penale il crimine di negazionismo, intendendo con ciò anche solo una revisione significativa delle cifre fornite dalla maggioranza degli storici sulla realtà del genocidio degli Ebre,i e non la negazione che siano avvenuti degli assassinii di massa contro gli Ebrei d'Europa, fra il 1941 e il 1945.
E che non si tratti di misure puramente dimostrative lo dimostra, fra l'altro, la vicenda dell'anziano storico inglese David Irving  (allora sessantasettenne, essendo nato nel 1938), arrestato in Austria come un volgare delinquente l'11 novembre del 2005, condannato a tre anni di reclusione  e rilasciato solo il 21 dicembre 2006, dopo 400 giorni di prigione, in seguito a una nuova sentenza della Corte d'Appello.
Questa legislazione inaudita, che - nel mondo occidentale - non ha equivalenti né precedenti storici, almeno fino al periodo più oscuro della Santa Inquisizione della Chiesa cattolica, si può spiegare solamente con il fatto che il genocidio degli Ebrei sia assurto al rango di un vero e proprio «Zivilisationsbruch», ossia di una frattura nella storia della civiltà umana. Anzi, di più ancora: di una nuova religione. E questo mentre il reato di vilipendio della religione (cristiana), nei Paesi occidentali, è stato di fatto depenalizzato, e solo nei Paesi islamici fondamentalisti si troverebbe qualche cosa di analogo alle leggi liberticide varate dalla Francia, dalla Spagna, dalla Polonia, dall'Austria e dagli altri Stati summenzionati.
Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti e mettiamo bene in chiaro che qui non si tratta di prendere posizione pro o contro la corrente storiografica cosiddetta negazionista, facente capo ad autori quali Jürgen Graf, Paul Rassinier, Carlo Mattogno e il già citato David Irving; bensì di prendere posizione pro o contro la libertà di ricerca e di espressione, valori che la civiltà occidentale ha lottato per secoli per riuscire ad affermare, superando enormi ostacoli e pagando un altissimo costo in termini di sofferenze e di soppressione di vite umane.
Il problema, pertanto, non è - almeno in prima battuta - sapere se le tesi di Rassinier, Irving e Mattogno siano storiograficamente documentate oppure no; ma se è tollerata la libertà, per gli studiosi, di sostenere tesi divergenti da quelle oggi maggioritarie: e quante volte la storiografi ha cambiato opinione? Diciamocelo chiaro e tondo: ogni qualvolta sono caduti dei regimi. Avrebbero potuto liberamente documentarsi sui crimini di Stalin e scrivere libri ed articoli su questo argomento gli storici russi, prima della caduta del regime sovietico?

Dunque, il genocidio degli Ebrei.
La questione - come sempre, nel campo della storiografia non meno che in quello della filosofia - comincia a mostrarsi irta di difficoltà già soltanto sul terreno dei nomi, delle parole.
La maggioranza degli storici parlano oggi, e ormai da vari anni, di Olocausto, con la "o" maiuscola, per definire la soppressione di numerosissimi Ebrei d'Europa durante la seconda guerra mondiale. Il termine deriva dal greco: «holos», «completo», e «kaustos», «rogo», e significa «tutto bruciato», con riferimento alla traduzione greca del termine ebraico con cui si descrivono i sacrifici di animali uccisi e bruciati sull'altare del Tempio.
Si trattava - probabilmente -, nelle intenzioni degli storici internazionali, di un omaggio alla cultura ebraica; ma la comunità ebraica ha fatto sapere di non gradire affatto questo termine, proprio per le sue implicazioni teologiche, ravvisandovi un improprio accostamento delle vittime del genocidio stesso con il concetto religioso di un sacrificio delle vittime sull'altare della divinità. D'altra parte, l'olocausto non è stato completo, perché non tutti gli Ebrei d'Europa sono morti nel corso della seconda guerra mondiale.
È così entrato nell'uso, negli ultimissimi anni, il termine «Shoah», che in lingua ebraica significa «distruzione, desolazione, calamità» e simili; tanto che esso viene ormai adoperato abitualmente un po' da tutti: dagli insegnanti che spiegano la storia ai propri alunni, agli storici di professione, ai politici, ai giornalisti, ecc. In questo caso, l'uso di un termine ebraico sembra essere stato pensato come una sorta di riparazione morale, da parte del mondo intero - colpevole di indifferenza o peggio durante il genocidio - nei confronti del popolo cui appartengono le vittime.
Soprassediamo, in questa sede, sul quesito se un tale popolo esista, cosa che è stata messa in dubbio, anzi esplicitamente negata, proprio da un insigne studioso ebreo, Shlomo Sand: ne abbiamo già parlato nell'articolo «Alcune brevi considerazioni sui concetti di sionismo e antisemitismo»  (sempre sul sito di Arianna Editrice).
Il punto è se sia storiograficamente corretto lasciare che ciascun popolo si «scelga» il termine adatto ad indicare, nel linguaggio scientifico internazionale, una data o un evento particolarmente significativi, o anche particolarmente drammatici, della propria storia.
I Rom, ad esempio, chiamano il genocidio da essi subito, contestualmente a quello degli Ebrei, con il termine «Porajmos» o «Porrajmos», ossia «grande divoramento», o anche «Samudaripen», che significa, appunto, «genocidio». Nessuno storico, tuttavia, si è sentito finora in obbligo di definire il genocidio dei Rom perpetrato dai nazisti con questi termini; né si è visto accusare, esplicitamente o implicitamente, di scarsa sensibilità - se non addirittura di razzismo e simpatie neonaziste - per essersi regolato in tal modo.
Oppure prendiamo il caso degli Armeni, sottoposti a un triplice genocidio nell'arco di neppure un trentennio: nel 1895-96 ad opera del sultano Abdul Hamid; nel 1915-16 ad opera dei Giovani Turchi, e specialmente di Enver Pasciàà; nel 1922-23 ad opera di Kemal Ataürk (ma di quest'ultimo, che coinvolse anche i Greci del Ponto e di Smirne, nessuno parla, forse perché Kemal è considerato il padre della «occidentalizzazione» della Turchia e, dunque, non sarebbe buona politica parlarne poco meno che in termini  ultra elogiativi).
In lingua armena, il genocidio da essi subito, e specialmente quello più sistematico, ossia del 1915-16, è chiamato «Medz Yeghem», espressione traducibile con "il Grande Male". Tuttavia, nessuno storico lo ha adottato; forse anche perché il governo turco è tuttora (quello sì, ma nessuno propone misure punitive contro di esso; anzi, sembrano fare tutti a gara per facilitarne l'ingresso nella Comunità Europea) ferocemente negazionista, al punto che, in Turchia, parlare di genocidio degli Armeni è un reato punito con il carcere. Perfino il papa Giovanni Paolo II, quando si recò in visita pastorale nella Repubblica Armena (non in Turchia), evitò di parlare di «genocidio», proprio per non esacerbare le relazioni con la suscettibilissima Turchia.
E che dire dei bantu Ova Herero, sterminati deliberatamente dalle autorità militari tedesche in Namibia (allora Africa Sud-Occidentale Tedesca), in base a un preciso «ordine di sterminio» emanato contro di essi dal generale Lothar von Trotha? Ne abbiamo parlato in un libro, ormai da tempo esaurito; e, di nuovo, in un ampio saggio, «Namibia 1904: il genocidio dimenticato del popolo herero», pubblicato sul numero 1 del 2007 della rivista «Il pensiero mazziniano» di Forlì, quadrimestrale dell'Associazione Mazziniana Italiana, pp. 137-171 (e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).
Oppure vogliamo parlare del genocidio dei Tutsi, commesso dagli Hutu in Ruanda nel 1994, nella più completa indifferenza della comunità internazionale, a cominciare dalle Nazioni Unite, nonostante le precise notizie che giungevano in proposito, specialmente da parte di suore e missionari cristiani presenti in quel Paese?

Si potrebbe continuare a lungo.
Quel che vogliamo dire è che, se ogni popolo che ha subito un evento calamitoso, e sia pure atroce come un tentativo di genocidio, volesse che gli storici adoperino un termine da loro scelto e nella lingua di ciascuno di essi, sarebbe necessario un vocabolario per orientarsi nella selva dei vocaboli stranieri.
No: i termini della storia li stabiliscono gli storici: così è sempre stato, anche davanti ad eventi particolarmente tragici e luttuosi come lo è stata, ad esempio, la scoperta delle Americhe, se guardata nell'ottica delle popolazioni amerindie che vennero letteralmente decimate dall'aggressione europea (anche di tipo batteriologico) del XV e XVI secolo.
Non si tratta di mancanza di rispetto per le vittime; tutt'altro. Alle vittime di ogni crudeltà insensata, e tanto più alle vittime di un genocidio, va sempre il rispetto incondizionato di qualunque essere civile, storici compresi. Ma i criteri della storia e perfino il suo vocabolario non possono essere continuamente modificati per offrire un risarcimento morale non alle vittime, ma ai connazionali e ai discendenti delle vittime.
Si dice che quello degli Ebrei è stato un genocidio così tremendo, come la storia moderna non ne ha mai visti; anzi, si dice che esso è stato l'unico vero genocidio della storia moderna - lasciamo perdere quella antica, ove la politica genocidiaria era prassi comune non solo degli imperi, come quello assiro o quello romano, nei confronti di popolazioni ritenute pericolose ed inassimilabili, ma anche dei piccoli Stati e dei piccoli popoli, come fecero appunto gli antichi Ebrei a danno dei Cananei, dei Filistei, degli Amorrei che abitavano la Palestina prima di essi.Anche di ciò abbiamo già avuto occasione di parlare (cfr. F. Lamendola, «Quello degli Ebrei è stato l'unico genocidio della storia?», consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).
Non è vero che quello degli ebrei sia stato l'unico genocidio della storia, nemmeno della storia moderna: questo è quanto lo Stato d'Israele e gli ambienti sionisti vorrebbero far credere - anzi, vorrebbero imporre - alla comunità internazionale, come una sorta di verità religiosa e che, in quanto tale, sarebbe blasfemo mettere in discussione.
Ma, si obietterà, se non è stato l'unico, è stato però il più grande.
In termini assoluti, sembra di sì (per quanto  quello degli Armeni non sia probabilmente inferiore, nei suoi tre tempi successivi, ai 3 milioni di vittime, e dunque si collochi su un ordine di grandezze comparabile); ma non in termini relativi, ossia facendo il rapporto fra il numero totale dei membri di ciascun popolo e il numero complessivo delle vittime.
Gli Ova Herero, nel 1904, erano 80.000 individui, comprese le donne e i bambini; nel 1907 erano ridotti a circa 20.000; dunque, i morti furono 60.000, vale a dire i tre quarti della comunità. Mentre le vittime del popolo ebraico, anche accettando le stime più elevate (dai 6 ai 7 milioni e mezzo di persone) furono non più di un terzo della comunità totale a livello mondiale.
Anche nel caso degli Armeni, la percentuale relativa delle vittime è stata più elevata di quella degli Ebrei; e altrettanto dicasi per i Tutsi del Ruanda.

Ci sentiamo profondamente imbarazzati a maneggiare queste cifre in un modo che può apparire poco rispettoso, mentre siamo perfettamente consapevoli che ogni vita umana possiede un valore inestimabile e che, sotto il profilo morale, il dramma vissuto dagli Ebrei d'Europa durante la seconda guerra mondiale ci apparirebbe egualmente tremendo, anche se il numero delle vittime fosse stato inferiore di dieci o venti volte a quello effettivo.
Non esistono giustificazioni per una politica di sterminio, né sul piano politico e militare, né - tanto meno - sul piano etico.
Tuttavia, proprio per ribadire il sacrosanto rispetto dovuto a tutte le vittime, non è accettabile istituire una sorta di «primato» fra i popoli che, nella storia recente, hanno sofferto - e, non dimentichiamolo, continuano a soffrire, come nel caso dei popoli neri del Sudan meridionale - politiche di sterminio deliberati da parte di governi criminali.

La conclusione di queste semplici riflessioni è che non si può parlare, a nostro avviso, di un «Zivilisationsbruch», di una frattura nella storia della civiltà umana, in seguito all'evento del genocidio degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Semmai, tale potrebbe considerarsi l'evento della distruzione atomica di Hiroshima e Nagaski, rispettivamente il 6 e il 9 agosto del 1945, perché - anche se il numero delle vittime fu di certo molto inferiore a quello del genocidio degli Ebrei - esso segna l'inizio dell'incubo atomico per l'intera umanità: del concreto pericolo, cioè - mai verificatosi prima nella storia umana - che la vita sulla terra possa essere spazzata via dalla follia militare, travolgendo nella catastrofe anche gran parte delle specie viventi animali e vegetali.
E questo sì che comporta delle riflessioni assolutamente inedite, anche nell'ambito della filosofia e della teologia.
Con ciò, non vogliamo né relativizzare né, tanto meno, banalizzare la tremenda realtà storica dei genocidi, ivi compreso quello perpetrato ai danni degli Ebrei d'Europa durante la seconda guerra mondiale.
Intendiamo piuttosto contribuire a un ripristino di criteri oggettivi e condivisi dalla comunità scientifica internazionale relativamente agli eventi della storia mondiale recente; non già nell'ottica di sminuire la gravità di determinati eventi, ma in quella di ritornare a una doverosa separazione tra il dato storico e la valutazione morale di esso. La quale ultima è giusto che ci sia, ma non è parte integrante della scienza storica, qualunque cosa si intenda con quest'ultima espressione, né rientra nei suoi scopi e nelle sue finalità.
Lo scopo della storia, infatti  - non sarà mai inutile ricordarlo - non è quello di ergersi a tribunale e di emettere sentenze, bensì, in primo luogo, di sforzarsi di capire come e perché si sono verificati determinati eventi; quali cause li hanno originati; quali effetti hanno prodotto a loro volta.