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Farmaceutiche nel mirino?

di Roberto Satolli - 22/02/2006

Fonte: www.larivistadeilibri.it


RAY MOYNIHAN e ALAN CASSELS, Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti, Bologna, Nuovi Mondi Media, pp. 160, €16,50

TOM JEFFERSON, Attenti alle bufale. Come usare la evidence-based medicine per difendersi dai cattivi maestri, Roma, Il Pensiero Scientifico, pp.153, €14,00

Solo quattro anni fa, quando John Le Carré se ne uscí con un romanzo poliziesco in cui Big Pharma faceva la parte del "cattivo", ad alcuni era sembrata una forzatura. Ma, come in altri casi, lo scrittore aveva avuto fiuto e vista lunga: un'industria giovane, esplosa nel dopoguerra, dopo aver prodotto innegabili progressi dagli anni Cinquanta ai Settanta, ha cominciato a perdere colpi alternando, negli ultimi due decenni, successi commerciali sempre più colossali a delusioni crescenti sul piano dei reali vantaggi per la salute; sino ad avere, negli ultimi mesi, forse la peggior stampa mai registrata per un settore produttivo. E non solo da parte di romanzieri o giornalisti.

Marcia Angell, autorità indiscussa di politica sanitaria della Harvard Medical Schooll, ha scritto «la verità sulle compagnie farmaceutiche», per svelarci «come ci ingannano e cosa fare per difendersi». Jerome Kassirer, professore di medicina a Yale, ha rincarato la dose con un ricco pamphlet su «come la complicità della medicina con il grande business può danneggiare la vostra salute». I due per molti anni hanno diretto insieme la più importante rivista di medicina statunitense, il New England Journal of Medicine, e non a caso entrambi si sono dimessi alcuni anni fa dalla direzione del settimanale in polemica con l'editore, la Massachusetts Medical Association, che avrebbe voluto da loro una maggiore disponibilità verso il mercato. Già prima di allora, Kassirer era quasi universalmente considerato la "coscienza" della medicina americana.

Non si creda però che gli intellettuali europei tacciano. In Germania il giornalista scientifico Jörg Blech ha puntato il dito contro «gli inventori di malattie» con un volume che è stato prontamente tradotto in francese, mentre anche l'editoria d'oltralpe fiorisce di titoli locali. Basta ricordare il ricercatore Philippe Pignarre (Comment la dépression est devenue une épidémie e Il grande segreto dell'industria farmaceutica), oppure l'ex preside della facoltà Necker, Philippe Even, che, con il chirurgo Bernard Debré, ha scritto Savoirs et pouvoirs: pour une nouvelle politique de la recherche e du médicament.

Il più iconoclasta di tutti è però Richard Smith, che da poco ha abbandonato la direzione del British Medical Journal. Pochi mesi fa ha firmato un articolo su PloS Medicine (www.plosmedicne.org) per denunciare «le riviste mediche [che] sono ormai un braccio del settore marketing delle compagnie farmaceutiche». Un paio d'anni fa, quando era ancora al BMJ, aveva costruito un numero davvero speciale della rivista, sotto il motto "Troppa medicina?" il cui pezzo forte era un articolo dal titolo "Selling Sickness" (vendere malessere), aperto da un incipit memorabile: «Si possono fare molti soldi convincendo i sani di essere malati». L'autore Ray Moynihan, allora giornalista medico in Australia, si è trasferito ora in America (si divide tra Stati Uniti e Canada), dove ha fatto uscire un libro e un documentario con lo stesso titolo, che stanno facendo molto discutere. Il libro è stato immediatamente tradotto anche in italiano, col titolo Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti (la lunghezza della traduzione è significativa, ma ci torneremo più avanti).

 

La traduzione di Moynihan non è né il primo né l'unico saggio di questo genere a comparire in Italia. Lo ha preceduto il bel libro di Marco Bobbio, figlio del filosofo e cardiologo alle Molinette di Torino, Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza e lo ha accompagnato quello appena uscito di Tom Jefferson, epidemiologo italo-britannico col gusto della provocazione, sin quasi allo sberleffo: Attenti alle bufale.

L'elenco, per quanto inconsuetamente lungo, non è certo completo. Se provate ad acquistare nel sito di Amazon uno solo dei titoli citati, riceverete messaggi nei quali ve ne vengono segnalati molti altri, tutti recenti, che affrontano lo stesso tema da diversi punti di vista. All'inizio si trattava di letteratura soprattutto in ambito psichiatrico, perché lí risultava più evidente la manipolazione dei concetti e dei confini di malattia e la spinta alla medicalizzazione (Medicine out of Control? Antidepressants and the Conspiracy of Goodwill di Charles Medawar e Anita Hardan è solo un esempio, insieme al già citato Pignarre). Poi sono venuti i giornalisti specializzati, che hanno messo a fuoco i meccanismi di promozione commerciale, soprattutto quelli che utilizzano la comunicazione diretta al pubblico (The $ 800 Million Pill. The Truth Behind the Cost of New Drugs di Merrill Goozner, ex corrispondente economico del Chicago Tribune); poi ancora i ricercatori, che hanno sviluppato il tema dei conflitti di interesse e delle distorsioni nella letteratura scientifica; infine gli editor e i redattori di grandi pubblicazioni scientifiche, che godono di una finestra di osservazione su tutti gli elementi in gioco a diversi livelli. Buoni ultimi sono arrivati gli organismi consultivi della politica: solo quest'anno sono comparsi due rapporti inquietanti prodotti uno per il parlamento olandese e l'altro per l'House of Commons britannica: "The Influence of the Pharmaceutical Industry".

Con davanti una scrivania ingombra di pile di volumi e documenti di questa natura, viene da chiedersi che cosa ci sia all'origine di un tale profluvio improvviso e perché nei sottotitoli ricorra cosí insistentemente il riferimento a qualcosa di ingannevole, celato e pericoloso, quasi un complotto che deve finalmente essere svelato al pubblico ignaro.

Oltre al formarsi di una massa sufficiente di intellettuali capaci di una visione critica e con accesso alle informazioni rilevanti, ciò che ha dato il via a questo nuovo filone saggistico è stato il ripetersi di incidenti, più o meno drammatici, che hanno aperto anche nell'opinione pubblica più indifferenziata il varco del dubbio. Il caso della cerivastatina, ritirata dal commercio nel 2003, è solo uno di quelli che hanno attraversato le cronache: rimedi contro la depressione abusati e capaci di indurre al suicidio, pillole per dimagrire che sbiellano le valvole del cuore, ormoni per la menopausa che anziché essere elisir di giovinezza guastano la salute, superaspirine contro l'artrosi che provocano l'infarto e via elencando in un crescendo di delusioni e di sospetti sulla credibilità dell'industria delle pillole.

Eppure, nonostante la ricchezza e la varietà dei contributi sin qui comparsi, è opinione di chi scrive che si sia ancora lontani dal comprendere sino in fondo la vastità e la profondità della crisi che la medicina e la sanità stanno per affrontare. Non si può per questo biasimare gli autori. Lo stesso Smith, nell'articolo citato, confessa candidamente: «Mi ci è voluto quasi un quarto di secolo al vertice della redazione del BMJ prima di svegliarmi e accorgermi di quanto stava realmente accadendo». E ancora, anche nella sua analisi di grande lucidità, l'entità della trasformazione non appare completamente a fuoco.

Forse il difetto di chiarezza sta nel fatto che ci si è sinora concentrati solo sui produttori di farmaci, e magari su singoli aspetti di questo mondo complesso, come per esempio la sottomissione della ricerca alla logica del profitto, l'invadenza del marketing, la debolezza delle agenzie regolatorie, l'impreparazione dei comitati etici e cosí via.

 

Manca ancora la piena consapevolezza che le compagnie farmaceutiche, per quanto colossali e ingombranti, sono solo la punta più visibile e avanzata di un nuovo settore economico in piena espansione che è stato definito da Arnold Relman (un altro ex direttore del NEJM) «complesso medico-industriale».

La salute, oltre a possedere l'intrinseco valore individuale e collettivo che tutti le riconoscono, costituisce ormai la ragione d'essere per uno dei più floridi e proficui mercati dei paesi ricchi: le sue dimensioni rappresentano circa il 10% dei consumi in Europa, e raggiungono il 15% negli Stati Uniti. Questo fatto, evidente ma sempre taciuto come un tabù, influenza il modo in cui la medicina si sta evolvendo alla ricerca di sempre nuovi territori.

Certo: il cuore propulsivo del sistema è costituito dalle case farmaceutiche, che si sono sviluppate nel secolo scorso, e in particolare negli ultimi decenni, sino a raggiungere dimensioni impressionanti: solo in Europa oggi danno lavoro a oltre mezzo milione di persone. Il mondo dei farmaci, però, rappresenta solo una piccola fetta (attorno al 15%, come ordine di grandezza) dell'intero settore economico che ruota attorno alla salute.

Accanto alle case farmaceutiche sono cresciuti anche gli altri produttori di strumenti e di materiale di consumo: apparecchiature diagnostiche, attrezzature di intervento, reagenti chimici, dispositivi usa e getta eccetera. Tra i fornitori di servizi, si sono estese e organizzate come aziende le catene di cliniche e ospedali, pubblici e privati, e a esse si affiancano i centri diagnostici, i laboratori, gli ambulatori e i centri specializzati per singole malattie, le strutture di riabilitazione, i fornitori di assistenza a domicilio e territoriale eccetera. Nel complesso si tratta di un'attività ingente, che solo nell'area di una città come Milano, per esempio, conta 3.200 aziende con 54.000 addetti e un giro d'affari di 10 miliardi di euro.

Tutto ciò, sino a pochi decenni fa, avveniva solo su una scala che si potrebbe definire artigianale, in quanto regolata da una deontologia professionale e destinata a soddisfare bisogni acuti, cioè occasionali e di breve durata, da parte di individui per lo più giovani: il caso tipico era la cura di malattie come la polmonite o la dissenteria. I medici, come professionisti dominanti, ne controllavano lo svolgimento.

Nella seconda metà del XX secolo, l'invecchiamento della popolazione e la crescente prevalenza di malattie a lento decorso progressivo hanno trasformato la domanda sanitaria, orientandola verso i bisogni cronici, cioè continui e di lunga durata, da parte di individui sempre più anziani. Gli stessi mutamenti sono stati, e sempre più saranno in futuro, una delle principali ragioni per cui l'asse della sanità nei paesi occidentali si va spostando dall'ospedale (sede di consumi acuti, intensi ma di breve durata) al territorio (sede di consumi cronici di lunga durata), anche se l'istituzione di ricovero mantiene una notevole influenza nell'induzione di prestazioni che si svolgono fuori di essa.

Questi cambiamenti, creando potenziali clienti permanenti, hanno posto le basi per la nascita di una vera industria, che come tale non può seguire regole professionali, ma deve assoggettarsi alle leggi del mercato e della concorrenza. Se in questo settore economico le case farmaceutiche appaiono dominanti, nonostante il loro peso tutto sommato minoritario, è soprattutto perché hanno raggiunto il massimo grado di maturità industriale, in un comparto che è ancora per molti versi "arretrato" dal punto di vista produttivo e organizzativo. Oltre a godere di una più lunga tradizione storica (con le sue radici nella grande industria chimica dell'Ottocento), il settore farmaceutico negli ultimi anni è stato rimodellato da una serie di acquisizioni, fusioni e altre forme di alleanza tra società. Ne è emerso un pugno di supergiganti, noto nel mondo anglosassone come Big Pharma, il cui fatturato supera le dimensioni dell'intero mercato azionario di molte nazioni mediamente sviluppate, come il Sud Africa o la Corea del Sud. La società Pfizer, dopo l'acquisizione di Pharmacia, detiene oltre il 10% del mercato mondiale, per un totale di oltre 50 miliardi di dollari. Si prevede che nei prossimi dieci anni, per effetto di questa tendenza, il numero delle grandi compagnie si ridurrà da circa 30 a meno di 12.

Grazie a queste dimensioni e alla sua "maturità" il settore farmaceutico ha conquistato e mantiene il ruolo di guida strategica dell'intero comparto, al cui interno i singoli attori si muovono ovviamente in concorrenza tra loro su piani orizzontali (tra fornitori di prodotti o servizi analoghi), ma anche con forti sinergie su piani verticali (cioè tra attività che si completano e si favoriscono vicendevolmente), che si possono definire come "filiere di cure".

 

Una filiera di cure (per esempio quelle che si occupano dei problemi della menopausa, o dei disturbi alla prostata nell'uomo) è costituita da una catena di produttori di beni e servizi (compresi i professionisti, come i medici) tra loro spontaneamente e naturalmente connessi: è sufficiente che un anello entri in azione per promuovere automaticamente anche il coinvolgimento dei successivi, spesso con un andamento circolare (vizioso o virtuoso, secondo il punto di vista), che tende a perpetuarsi e a proliferare.

Tutti gli attori in gioco hanno di fatto interessi solidali: gli specialisti, che possono aumentare i pazienti e di conseguenza il reddito, la reputazione o il potere; gli amministratori dei centri di diagnosi o di cura, che reclutano un maggior numero di assistiti e fatturano un maggior volume di prestazioni; i produttori di apparecchiature diagnostiche e di test; quelli che forniscono oggetti di consumo o protesi; non ultime, le case farmaceutiche, che sono il vero motore di tutta la catena.

Le forme più o meno spontanee di alleanza all'interno dell'industria della salute, al di là delle rivalità tra concorrenti, derivano dalla comune necessità di reclutare sempre più clienti e di far loro consumare sempre più prodotti e servizi. Come è inevitabile, dal momento che la condizione irrinunciabile per qualsiasi sistema industriale è l'espansione continua del proprio mercato: se non si cresce si muore. È questo imperativo che fa (e farà sempre più) la differenza, non il contrasto tra pubblico e privato in sanità, che rappresenta per lo più un falso problema. Gli stessi ospedali pubblici sono inseriti oggi, anche in Italia, in un sistema di produzione di servizi in concorrenza con altre strutture simili, e devono preoccuparsi di reclutare clienti per sopravvivere.

Per allargare l'universo dei potenziali clienti, ben oltre i confini forniti spontaneamente dall'invecchiamento della popolazione e dalla prevalenza delle malattie degenerative croniche su quelle infettive acute, anche nel settore della salute si sono quindi ben presto iniziate ad applicare le più avanzate strategie di marketing.

Ed è qui che entra in scena il disease mongering, concetto che affiora in molti dei testi citati all'inizio e che costituisce il cuore soprattutto dell'inchiesta di Moynihan. L'invenzione del termine ("mercato delle malattie": la difficoltà di traduzione spiega la prolissità del titolo italiano dell'opera) si deve però riconoscere a Lynn Payer, grande giornalista americana scomparsa, che aveva dapprima messo il dito sulla quasi incredibile variabilità con cui la medicina viene praticata nei diversi paesi (La babele medica è il titolo italiano di un suo saggio degli anni Ottanta), per poi approdare all'inizio degli anni Novanta a individuare le manipolazioni con cui «i medici, le compagnie farmaceutiche e gli assicuratori vi fanno sentire malati».

Il meccanismo è semplice. Per assicurare una continua crescita del mercato potenziale, vitale per qualsiasi settore economico in florida espansione, occorre ridefinire continuamente i confini tra salute e malattia e abbassare le soglie di intervento sui fattori di rischio (per esempio della pressione, del colesterolo o degli zuccheri nel sangue), in modo da allargare il dominio su cui si esercita l'azione della medicina. Questo è il primo passo. Perché il mercato potenziale si trasformi poi in fatturato reale occorre anche condurre grandi campagne di sensibilizzazione, sulle malattie e sui fattori di rischio, con l'obiettivo di rendere consapevoli i cittadini della necessità di curarsi anche se si sentono in buona salute. Queste iniziative, spesso condotte su scala planetaria, stringono sempre più spesso le istituzioni scientifiche e le associazioni dei pazienti in un abbraccio sulla cui inopportunità tarda a svilupparsi un'adeguata consapevolezza. Al contrario, poiché la coperta delle risorse che i singoli paesi destinano alla sanità diviene sempre più corta, ogni filiera di cura sente la necessità di "alzare la voce", gridando sempre più forte le ragioni di allarme per questo o quel presunto problema di salute. In alcuni casi una maggior attenzione può essere un bene, in altri uno spreco o addirittura un male. Ma non è questo il punto, dal momento che gli strateghi di potenti interessi economici spingono comunque nel senso della medicalizzazione, "a prescindere", come diceva Totò, dalla sua opportunità in termini di salute.

 

I volumi accatastati sulla scrivania sono altrettanti capitoli di una storia ideale in cui si raccontano i passaggi essenziali con cui condizioni comuni e di scarsa rilevanza sono state trasformate in minacce per la salute pubblica. E gli autori hanno un bel denunciare, con analisi documentate, i casi più clamorosi di medicalizzazione forzata dell'esistenza e della società: dalla depressione alla menopausa, dal deficit di attenzione nei bambini all'ipertensione, dall'osteoporosi alla sindrome dell'intestino irritabile. Nonostante questo impressionante fiume di inchiostro, non è facile prevedere che la tendenza si inverta, nell'immediato futuro. Il pericolo non è solo la bancarotta finanziaria dei sistemi sanitari di tutto il mondo, col risultato di lasciare centinaia di milioni di persone senza assistenza (negli Stati Uniti sono già 48 milioni). Ancor più incombente è la prospettiva di una gigantesca iatrogenesi, difficile da misurare, ma tale da trasformare intere generazioni in malati cronici dalla culla alla tomba.

D'altra parte la crescita incontrollabile della spesa sanitaria è solo l'altra faccia della medaglia di un aumento del fatturato e di un'espansione del mercato per l'industria della salute, che rappresenta ormai una quota determinante del PIL di tutti i paesi occidentali. Se la medicalizzazione venisse efficacemente frenata questo settore trainante entrerebbe in crisi e saremmo tutti più poveri, oltre che peggio curati. Non bisogna infatti buttare via il bambino con l'acqua sporca: la medicina contemporanea ha prodotto miracoli come i trapianti, le protesi d'anca, le lenti oculari e le cure per la leucemia, solo per citarne alcuni fra i più vistosi.

Anche per questi motivi, la resistenza alla medicalizzazione da parte della società, e della politica che la rappresenta, è sinora debole. Però i saggi da cui abbiamo preso le mosse sono forse il primo segnale di un malessere che si sta diffondendo tra gli operatori e i loro assistiti.

Per quanto riguarda i primi, un risveglio della cultura professionale ed etica si manifesta soprattutto tra i medici di famiglia che si esprimono spesso in maniera critica, attraverso le loro organizzazioni e i loro esponenti più consapevoli, nei confronti degli eccessi e dell'invadenza della medicina. Le ragioni di questo atteggiamento positivamente controcorrente sono numerose, ma si possono ricondurre a due elementi principali. Il primo è culturale, e deriva da una impostazione necessariamente più centrata sul paziente, e sui suoi bisogni complessivi, piuttosto che sulla singola malattia, come avviene per lo specialista. Il secondo è materiale: il medico di famiglia non riceve rilevanti incentivi economici o di carriera in proporzione alla quantità di prestazioni che mette in moto. Anzi, è semmai premiato dal fatto che i suoi assistiti siano sani e si considerino tali. E si trova a essere quindi naturalmente estraneo, se non ostile, rispetto agli approcci più aggressivi e invadenti.

 

Anche le altre categorie di camici bianchi peraltro mostrano segni crescenti di insoddisfazione, di cui si trova ampia traccia anche in letteratura. "Perché i medici sono tanto infelici?" è, per esempio, la traduzione italiana del titolo di un editoriale comparso sul British Medical Journal sotto la direzione di Smith. Emerge la percezione che il medico nell'era industriale della medicina è svilito alla funzione di tecnico, asservito al mercato, costretto suo malgrado a una condizione permanente di conflitto tra gli scopi morali per cui è stato addestrato e ciò che l'industria della salute pretende da lui.

Per quanto riguarda i cittadini si sta già manifestando invece una forma di resistenza che si potrebbe definire "esistenziale", collegata a un generico senso di saturazione di fronte alla pressione a considerarsi bisognosi di cure per un numero crescente di malattie o rischi. Ogni nuovo abbassamento della soglia o anticipazione della diagnosi, in realtà, produce anche una riduzione della frazione di popolazione che accetta di essere coinvolta in tutto il ciclo di intervento successivo. Per esempio, la recente riduzione dei valori di pressione arteriosa che dovrebbero essere raggiunti con il trattamento ha comportato che i pazienti ben "controllati" sono oggi solo un terzo dei trattati, anziché la metà come erano in precedenza. In altre parole la compiacenza complessiva della popolazione mostra un limite intrinseco, probabilmente difficile da incrementare, di fronte agli eccessi di medicalizzazione.

Un altro sintomo di una crescente intolleranza del pubblico nei confronti dell'invadenza della medicina potrebbe essere visto nella sempre più ampia diffusione delle medicine cosiddette alternative o complementari, o nell'esplosione di episodi acuti di insofferenza verso la scienza medica ufficiale, come ben esemplificato nel corso del "caso Di Bella".

Un ruolo critico ben diverso potrebbe essere svolto dai media e dalle associazioni di cittadini e di pazienti, qualora non fossero succubi culturalmente e materialmente rispetto agli interessi dell'industria; per ricordare un esempio positivo, basti pensare a organizzazioni di consumatori come l'americana Public Citizen e all'informazione che produce a proposito di farmaci (www.citizen.org). Purtroppo, pur essendoci la possibilità che anche in Italia alcune associazioni indipendenti si evolvano verso una maggior incisività anche nel campo della salute, si deve prevedere che questo tipo di informazione sia destinata nel prossimo futuro a restare minoritaria rispetto a quella prodotta o influenzata dall'industria (si veda però il sito italiano Partecipasalute: www.partecipasalute.it). In questo caso anche la fioritura dei saggi critici sulla medicina industriale che compare oggi sugli scaffali delle librerie sarebbe destinata a restare una breve primavera isolata di consapevolezza.

ALTRI LIBRI CITATI IN QUESTO ARTICOLO

John Le Carré, Il giardiniere tenace, Milano, Mondadori, 2001 (ed. orig. 2001)

Marcia Angell, The Truth about the Drug Companies. How they Deceive Us and What to Do about It, New York, Random House, 2004

Jerome P. Kassirer, On the Take. How Medicine's Complicity with Big Business Can Endanger your Health<, New York, Oxford University Press, 2005

Jörg Blech, Die Krankheitserfinder. Wie wir zu Patienten gemacht werden, Francoforte sul Meno, Fischer, 2005

Philippe Pignarre, Comment la dépression est devenue une épidémie, Parigi, La Découverte, 2001

Id., Le grand secret de l'industrie pharmaceutique, Parigi, La Découverte, 2003

Philippe Even e Bernard Debré, Savoirs et pouvoirs. Pour une nouvelle politique de la recherche et du médicament, Parigi, Le Cherche Midi, 2004

Marco Bobbio, Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza, Torino, Einaudi, 2004

Charles Medawar e Anita Hardon, Medicines out of Control? Antidepressants and the Conspiracy of Goodwill, Amsterdam, Aksant, 2004

Merrill Goozner, The $ 800 Million Pill. The Truth Behind the Cost of New Drugs, Berkeley, University of California Press, 2004


ROBERTO SATOLLI medico e giornalista, è presidente dell'agenzia di giornalismo scientifico Zadig. Dirige riviste per medici e scrive di medicina su quotidiani e settimanali per il pubblico. È autore di libri, tra cui: La clonazione e il suo doppio (con Fabio Terragni, Garzanti, 1998); e Lettera a un medico sulla cura degli uomini (con Giorgio Cosmacini, Laterza, 2003). È presidente del Comitato etico dell'Istituto dei tumori di Milano, membro del Comitato di indirizzo del Centro Cochrane italiano e socio del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica in Italia.