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Quando finanziare i partiti è peggio che arricchirsi

di Sergio Romano - 21/01/2009

Stucchevole l'insistenza con cui si continua a propinare una pretesa differenza ontologica tra la commissione di illeciti finalizzati all'arricchimento personale da una parte e quella finalizzata al finanziamento dell'attività politica dall'altra. In entrambi i casi il risultato dell'attività illecita è l'arricchimento fraudolento di chi la commette. In termini di denaro o di potere, che differenza fa?


Giovanni Leccese

 

Caro Leccese, La sua lettera mi ha ricordato una discussione ricorrente nel periodo di Tangentopoli. È più grave chiedere tangenti per se stessi o per il proprio partito? Quasi tutti gli italiani sembravano convinti che i reati di corruzione commessi per rimpinguare le casse di un partito fossero meno gravi. La risposta piaceva agli eredi del Pci che uscivano pressoché innocenti, in tal modo, dalla lunga storia dei finanziamenti sovietici e, dopo lo «strappo» da Mosca verso la fine degli anni Settanta, da quella delle tangenti riscosse sul commercio est-ovest sino alla crisi dell'Unione Sovietica. La tesi era doppiamente utile. Serviva a dimostrare che il Pci era stato virtuoso e poteva essere brandita come una spada contro i socialisti, accusati di avere arricchito soprattutto se stessi. Ma piaceva anche a quei tesorieri e intermediari di altri partiti che non avevano tratto da quelle operazioni un vantaggio personale.
Fra i pochi che non erano d'accordo con questa tesi vi fu Carlo Nordio, allora sostituto procuratore a Venezia e autore di alcune interessanti inchieste sulle Cooperative, archiviate tuttavia senza risultati apprezzabili. In un libro del 1997 che piacque a Indro Montanelli, a Mario Pirani e a Gianfranco Pasquino («Giustizia», Edizioni Angelo Guarini), Nordio sostenne che il denaro dato sottobanco ai partiti è sempre sottratto al fisco e danneggia anzitutto i contribuenti. «È un grave errore», scrisse, «credere che le mazzette degli imprenditori siano denari esclusivamente privati. E se è vero che l'evasione fiscale è un delitto socialmente grave, la fraudolenta deviazione dei fini istituzionali dei partiti per quelli delle loro segreterie è altrettanto insopportabile, e forse più odiosa. Non foss'altro perché la possibilità di maneggiare denaro pubblico, o semplicemente di orientarne la destinazione, comporta responsabilità morali, oltre che giuridiche, molto più serie di quelle gravanti sul compilatore della dichiarazione dei redditi. È quindi davvero singolare che alcune rigorose reprimende contro l'elusione tributaria possano provenire da chi ha fatto malgoverno delle finanze pubbliche o ne abbia dato un rendiconto inattendibile o magari alterato».
Vi sono poi altre considerazioni che possono desumersi dal libro. Il denaro dato segretamente ai partiti produce due effetti egualmente deprecabili. In primo luogo modifica i rapporti di forza tra le formazioni politiche e contribuisce, anche se indirettamente, ad alterare il risultato della competizione elettorale. In secondo luogo presuppone un favore (la concessione di un appalto, la modifica di un piano regolatore, l'approvazione di una legge «utile ») che intacca il principio della libera concorrenza e favorisce un'azienda a danno di altre. Le società d'intermediazione che si servivano del Pci per ottenere una commessa sovietica strappavano l'affare a chi non faceva altrettanto. La ditta che conquistava un appalto versando una «donazione» nelle casse di un partito rubava il contratto a quella che non aveva i mezzi o la voglia di pagare il pedaggio.
Di fronte a questi danni civili ed economici l'arricchimento personale diventa, paradossalmente, una colpa meno grave perché, scrive ancora Nordio, «se un partito si arricchisce indebitamente a danno degli ignari cittadini, il danno collettivo è ben maggiore di quello arrecato dallo sperpero in festini scellerati di amministratori rapaci e viziosi». Può sembrare un commento cinico, ma credo che Nordio abbia ragione.