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L’Occidente è un pollo (e può fare la stessa fine): intervista a Massimo Fini

di di Carlo Passera - 23/02/2006

Fonte: lapadania.com

 

Siamo deboli e spauriti rispetto alle pandemie e al fondamentalismo islamico Vittime della globalizzazione, senza Dio, rischiamo di essere travolti
Massimo Fini, è tempo di paura. Paura dell’estremismo islamico, ma anche dell’influenza aviaria. Ti propongo una cena tutta a base di polli. Accetti l’invito?
«No, non mangio polli allo spiedo per una semplice misura di prudenza. È evidente: l’aviaria è una malattia che colpisce i volatili, i polli sono tali e quindi evito volentieri di mangiarli in questo periodo. Allo stesso modo, non ho comprato bistecche ai tempi della mucca pazza».
Per la verità le autorità sanitarie garantiscono che gustarsi un pollo ben cotto non presenta alcun rischio per l’uomo...
«Purtroppo non ci si può fidare di quanto dicono. È giusto e comprensibile che tentino di non diffondere il panico, perché a volte ci sono pandemie di paura che sono peggiori della pandemia stessa. Ma come dare ascolto alle loro parole? È quasi un dovere istituzionale dire che tutto è tranquillo... La verità è che questi virus non sono mai sotto controllo, viaggiano insieme agli uccelli migratori, raggiungono qualsiasi Paese. D’altra parte nemmeno gli spostamenti umani - che qui non entrano in causa, ma in altri casi di pandemie sì - sono monitorabili; il tutto si lega indirettamente a quel dramma di nome globalizzazione, per cui qualunque cosa accada nel più sperduto atollo del pianeta finisce coll’interessare tutti. Un tempo, se c’era una peste, l’area in cui se ne sentivano gli effetti rimaneva circoscritta».
Per la verità, ci sono state epidemie (o più propriamente pandemie) di peste devastanti per tutto l’Occidente...
«Mettiamo pure coinvolgesse i Paesi europei, comunque non tutto il mondo. Non c’erano questi viaggiatori che si muovono dappertutto, io li bloccherei alle frontiere. Sono per un ritorno ai confini più stretti, come credo pensi anche la Lega Nord».
Di certo, per un virus che in Occidente non ha (ancora) fatto alcuna vittima, c’è un intero comparto produttivo - particolarmente sviluppato proprio nel Belpaese - che rischia il tracollo.
«Lo so, è un problema dei nostri tempi. Poiché l’economia ha questa importanza, qualcuno vorrebbe che gli interessi economici prevalessero anche su quelli della salute collettiva. Invece è bene che sia il contrario, anche se gli allarmi sono superiori alla realtà effettiva, almeno per il momento».
Sars, mucca pazza, ebola, aviaria, si potrebbe continuare a lungo: ogni tanto l’Occidente viene sconvolto da questi spauracchi che nascono misteriosamente, provocano terrore planetario e, sempre, conseguenze assai meno gravi di quelle catastroficamente temute. È normale sia così? È una conseguenza della debolezza del nostro sistema?
«Terrori di questo genere ci sono sempre stati, anche giustificati, basti pensare alle epidemie di peste del Medioevo anche se, ripeto, erano circoscritte e, checché se ne pensi, trentennali. Poi, avevano anche una loro buona funzione: eliminavano naturalmente i più deboli lasciando in vita i più forti. Oggi la paura deriva soprattutto dal fatto che se uno di questi virus travolge ogni barriera, le conseguenze non sono più circoscritte a un luogo, ma riguardano l’intero pianeta, tranne forse gli abitanti delle isole Andamane. Quindi è chiaro che c’è un “surplus” di allarme: a livello concettuale ciò è giustificato dal fatto che un mondo così integrato è estremamente fragile. Nessuna macchina si affida a un solo motore, noi invece stiamo cancellando tutte le soluzioni di riserva: o va bene questo modello o siamo spacciati. Bisognerebbe rifletterci sopra».
La paura nasce anche dal fatto che il progresso scientifico ci ha abituato all’idea che molto, se non tutto, possa essere curato.
«Ma questa è un’illusione, e secondo me non è stata sparsa innocentemente dal mondo scientifico, politico e culturale. Negli anni ottanta, quando già ponevo questi problemi, Paolo Rossi (il filosofo della scienza, non il comico né il calciatore, pur degni entrambi, il calciatore più del comico) mi disse qual era il vero difetto della tecnologia: come risolve un problema, ne apre altri dieci ancora più complessi. Ebbene: finora è riuscita a tamponare anche i problemi nati “in seconda battuta”, ma il processo è esponenziale e alla fine arriverà il momento in cui diventerà fuori controllo. Questo vale per tutto il tipo di modello che abbiamo adottato: a un certo punto scienza e tecnologia non potranno più gestire le loro stesse invenzioni. È una questione su cui si fonda la modernità e, se vogliamo, ancora di più l’uomo».
Ossia?
«L’uomo è natura e cultura, questo lo distingue dalle altre creature viventi: perciò è portato a costruire, a fare, a modificare. Ma oggi la parte artefatta, artificiosa, virtuale del mondo che ha messo in piedi è preponderante, eccessiva rispetto alla parte naturale, sia nel classico ambito ambientale, sia per quanto riguarda gli istinti, i nostri sentimenti profondi. Io non mitizzo la Natura: ma questa ha collaudato le sue leggi in milioni di anni, mentre noi costruiamo una realtà nuova su leggi imperfette, improvvisate, abborracciate, perciò il nostro mondo è estremamente fragile. Abbiamo dimenticato l’insegnamento dei greci sul limite: “Nulla di troppo”, era un precetto dell’oracolo di Delfi, e d’altra parte tutti i miti del loro mondo, da Prometeo in poi, erano un avvertimento contro l’arroganza dell’uomo che viene punita dall’invidia degli dei, la phthonos theon. Non solo: abbiamo dimenticato anche Bacone, uno dei padri della rivoluzione scientifica: «L’uomo è ministro della natura, alla natura si comanda solo obbedendo a essa». È chiaro che, forzando i termini così da stravolgere le leggi della natura, ci si mette in situazione di estrema debolezza. Questa è l’ubris dell’uomo moderno».
Giungerà una nemesis?
«Io penso sia ovvio che prima o poi qualcosa di devastante sconvolgerà il pianeta. Ci sono stati vari annunci: prima l’Aids, poi la mucca pazza, ora l’aviaria. Ci sarà qualcosa che non riusciremo più a controllare, ne sono assolutamente convinto».
È un’ipotesi catastrofica...
«Io ne formulo addirittura tre. La prima è quella che t’ho appena detto. La seconda deriva invece da una situazione ambientale: per quanto l’uomo sia animale tra i più adattabili - meno del topo per la verità - e per quanto riesca ancora a vivere in città che sono sempre più inquinate, a un certo punto potrebbe soccombere. Si passerà il punto di non ritorno».
A questo proposito: non è paradossale che ci si preoccupi dell’aviaria, che non ha ancora provocato un solo morto in Occidente, mentre ogni giorno si muore di tumori dovuti ad esempio alla pessima aria che respiriamo?
«Combattere davvero l’inquinamento significherebbe intervenire pesantemente sulla produzione, e questo è il tabù dei tabù. Umberto Veronesi anni fa aveva emesso un decalogo in base al quale in certe ore e in certe città non si sarebbe più dovuto respirare del tutto. Ecco: in onore di sua maestà il progresso, della produzione e della modernizzazione, smetteremo di respirare! Che dire? C’è qualcosa di folle in tutto questo».
Avevi detto che formulavi una terza ipotesi di “disastro mondiale”...
«La terza ipotesi è la più probabile, quella che prevedo io».
Ossia?
«Un collasso del sistema planetario, globalizzato, che comporterà una catastrofe ugualmente planetaria. A uno di questi tre destini stiamo per forza andando incontro, ci sono segni evidenti che la Natura, l’ecosistema, non ci tollera più. Pensiamo al tumore: in fondo è proprio una crescita impazzita... Purtroppo non si ragiona seriamente su questioni di tal natura. Io dico: magari concludiamo che va bene così, che val la pena andare avanti lo stesso, ma perlomeno riflettiamoci, avendo ben presente i pericoli in agguato. Invece sia destra che sinistra sposano la globalizzazione, Bill Clinton l’ha esaltata ma anche Fidel Castro spiegò che schierarcisi contro era come contrastare la legge di gravità. Siamo dunque fermi ad Adam Smith, Ricardo ma anche a Karl Marx, in base ai quali le leggi economiche sono come quelle della natura, quindi è inutile opporsi a esse. Ma non è così! Le leggi economiche le facciamo noi, dove sta scritta la loro ineluttabilità? Le leadership vogliono che si prosegua su questa china, perché conviene loro, perché non c’è altra prospettiva e comunque aprés moi le deluge, non sono interessate a sapere ciò che accadrà dopo. Se fossero colte potrebbero chiedersi sarcasticamente, con Oscar Wilde: “Che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Il problema è che stiamo andando troppo veloci, diventando i posteri di noi stessi: le conseguenze negative le vivremo noi, non le generazioni future».
Tu dici: andiamo incontro a una catastrofe. Dici anche: ci andiamo molto velocemente...
«Al galoppo, col sole in fronte e la verità in tasca. Devo dire che l’Islam radicale ci dà una mano».
In che senso?
«Opponendosi all’Occidente, rallenta il processo».
Potrebbe anche spingerci a riflettere sul nostro modello?
«Dovrebbe, ma non lo fa, non lo facciamo noi. Potrebbe essere il punto fecondo nell’incontro con una cultura come quella islamica, a sua volta integralista come tutti i monoteismi, ma che contiene anche valori spirituali molto importanti».
A cosa ti riferisci?
«Pensiamo al khomeinismo. L’abbiamo demonizzato, tanto da armare un criminale come Saddam Hussein. Bene: era invece un tentativo di sviluppo del mondo islamico che non fosse né marxista né capitalista, quindi molto diverso dal nostro. Io credo sarebbe giusto riflettere su questi aspetti, invece vediamo ciò che è altro da noi solo come un pericolo. E non si chiamino in causa le Torri Gemelle, perché la questione Khomeini scoppia oltre due decenni prima».
La demonizzazione del khomeinismo, l’evidenza di paure collettive - come l’aviaria - trascurando altri problemi, come l’inquinamento “da progresso”: quali le colpe dei mass media?
«Siccome l’inquinamento che ci viene dalla produzione industriale (che non si può limitare, è un argomento tabù) è un avvelenamento lento, non lo si sottolinea. Questioni come l’aviaria, invece, fanno colpo sulla gente, quindi le si enfatizza al di là dell’attuale loro effettiva pericolosità. È un diversivo: ti brucia la casa, ti occupi del canile».
Che siano indotte o fondate, tutte le paure del mondo moderno prescindono dalla dimensione trascendente. Dio non ha più spazio?
«Abbiamo perso la dimensione trascendente, dunque la morte diventa l’inaccettabile assoluto: è un altro dei problemi della modernità, una conseguenza inevitabile. L’uomo pre-industriale viveva in intimo contatto con la natura, consapevole attraverso il ciclo seme-pianta-seme che la morte non è solo la conclusione inevitabile, ma anche la pre-condizione della vita. Dunque percepiva il senso di un sistema collettivo, nella famiglia allargata, nella comunità del villaggio, nella specie, nella natura stessa in cui era immerso. La sua vita si scioglieva naturalmente in un gran gioco, in un passaggio di testimone tra vecchi e giovani: così riusciva anche ad accettare, a metabolizzare la morte. Noi invece viviamo a contatto con oggetti che non si riproducono, semmai si sostituiscono, e ci sentiamo sinistramente simili a loro. Non abbiamo più il senso di un destino collettivo, quindi la nostra è una morte assolutamente individuale, dunque inaccettabile. Morire non è mai piaciuto a nessuno: ma nessuna civiltà del passato ha avuto tanta paura della morte come il nostro Occidente. Ma con questa paura addosso si vive male. Diceva il vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte, chi ha paura della morte”, che tanto prima o poi arriva, non c’è tecnologia che possa salvarci. In questo contesto indubbiamente la morte di Dio - Nietzsche l’ha annunciata alla fine dell’Ottocento, ma si è materializzata ben bene nel Novecento - è un dramma: lo dico pur non avendo grande rispetto delle religioni monoteiste. Hanno avuto un ruolo importante dando speranza a milioni di uomini, ma hanno anche richiesto un tributo di sangue che altre religioni non hanno comportato, pur assolvendo alla stessa funzione».
Dicevi: non c’è tecnologia che eviti la morte. Però c’è molta chirurgia estetica che regala l’illusione dell’eterna giovinezza...
«Ecco, è il tentativo di rimuovere la morte, la vecchiaia. Oggi è proibito essere vecchi, l’anziano è accettato solo se si comporta da giovane, altrimenti diventa un emarginato, un escluso. È stato tolto alla vecchiaia uno dei suoi pochi piaceri, che è quello di potersi abbandonare alla propria età e ai conseguenti, inevitabili limiti. È grottesco che i vecchi si mettano in competizione coi giovani, mentre la loro funzione sarebbe casomai quella di trasmettere alle nuove generazioni la propria esperienza. Una volta si prendeva in giro chi girava in spider e foularino a sessant’anni; oggi siamo tutti in spider e foularino, ma l’età è sempre quella. Berlusconi è il nostro simbolo...».
Il rapporto con la morte in Occidente è molto diverso da quello del mondo islamico.
«Non c’è dubbio. Là il sentimento religioso è fortissimo, tanto da diventare liberticida: è chiaro dunque che la morte non produce l’effetto che ha su di noi, che pensiamo sia lo sciogliersi in uno spaventoso nulla. Non è solo una debolezza dell’Occidente nei confronti dell’islam, è tout court il dramma dell’Occidente materialista, sia nella sua versione capitalista che marxista. C’è una bellissima lettera di Khomeini a Gorbaciov. Gli dice: ora che vi siete liberati del comunismo, non fate l’errore di farvi attrarre dai verdi prati del capitalismo, non è questo il problema della vostra civiltà, il vostro problema è che manca un’autentica credenza in Dio. Anni prima l’ayatollah aveva scritto anche a papa Wojtyla, ma invece di problemi spirituali aveva affrontato questioni materiali, aveva sottolineato tutti gli interessi e gli inghippi della Chiesa cattolica in Medio Oriente... Curioso, no? E significativo. Sono due missive pubblicate dalle Edizioni del Veltro, ma semi-clandestine. Invece sono di straordinario interesse, saranno citate nel mio prossimo libro; lo dico a fini di propaganda, si intitola Il ribelle dalla a alla z ed esce a metà aprile».
Questa dimensione di spiritualità e di “limite” che manca all’Occidente è necessariamente riconducibile alla morte di Dio? Non è possibile un mondo laicamente forte delle proprie convinzioni razionali?
«L’Occidente dovrebbe avere questo connotato, perché non è possibile recuperare Dio, una volta che è stato ucciso. Pur essendosi accorto dei limiti del razionalismo, non può certo tornare all’irrazionalismo: aperte certe porte non c’è più ritorno. Fu Eva a mangiare la mela della conoscenza... Noi, oltre al pensiero giudaico-cristiano (che Dio lo stramaledica, come gli inglesi!) abbiamo alle spalle anche la civiltà greca, che aveva un senso del limite non derivante da una concezione prettamente religiosa, ma da una “ragione di tipo intuitivo”. La loro era una società sostanzialmente laica, gli dei erano figure antropomorfe. Ecco, io credo nel recupero della cultura greca, che vuol dire senso del limite, senso tragico dell’esistenza, rispetto dell’altro da sé, consapevolezza della dignità della persona. Noi dovremmo attingere alcuni valori da questa civilità: pur tenendo conto che, ugualmente, con la morte di Dio occorre un uomo che sappia sopportare l’inevitabilità di quelli che i filosofi (quando ancora esistevano) chiamavano “i dubbi tragici dell’esistenza”: dolore, vecchiaia e morte. Non vedo in giro un uomo di questo genere: anzi noi tendiamo a cancellare ogni dubbio col soma, come diceva Aldous Huxley nel Mondo nuovo. Per noi il soma è il consumo tragico e ossessivo col quale ci ottundiamo; per poi trovarci impreparati, quando ci colpiscono gli eventi tragici della vita. Perché comunque ci colpiscono, ci piaccia o no».