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Cos’è successo all’Irlanda, la Tigre Celtica dell’economia?

di John Waters - 24/02/2009

Fonte: ilsussidiario

 
 
L’Irlanda sta cercando la strada per tornare a un approccio più equilibrato al materialismo, dopo essere stata “consumata dal consumismo”, ha affermato il presidente irlandese Mary McAleese durante la sua visita a Phoenix, Arizona, e il popolo irlandese sta pagando un prezzo elevato derivante da uno spostamento radicale nei valori. «Penso che ognuno di noi debba dire con sincerità che eravamo tutti consumati dal consumismo», ha detto.

«Da un certo punto in poi, abbiamo cominciato a pensare che non saremmo stati felici se avessimo posticipato le nostre gratificazioni. Dovevamo avere tutto ora, subito, e credo che abbiamo pagato un prezzo molto, molto caro per questo cambiamento così radicale. Adesso è probabile che il pendolo si sposti verso l’altro estremo e non sarà un male. Veniamo da un periodo molto squilibrato, che non ci ha però assicurato quella pace della mente e del cuore, quella soddisfazione che desideravamo. Ora dobbiamo trovare la nostra strada per tornare a un modo di vivere più profondo e, è possibile, più modesto».

C’è molto di vero in tutto questo, ma anche qualcosa che non lo è. In Irlanda è un ritornello diffuso che il collasso dell’economia ci porterà a un miglioramento nel sistema di valori, che queste difficoltà possono essere motivo di speranza per una crescita spirituale. Non ne sono così sicuro.

A mio parere, ci sarebbero voluti ancora uno o due anni di prosperità prima che potesse aver inizio una progressiva e generale spinta a una maggiore comprensione di noi stessi. Sapevamo che i bei tempi non sarebbero durati per sempre e ci stavamo preparando a un graduale cambiamento, ma il crollo è avvenuto troppo inaspettatamente perché si possa trarne qualcosa di positivo. E, certamente, la crisi può essere peggiore in Irlanda che altrove, soprattutto perché l’Irlanda è piccola e con un’economia aperta, esposta a ogni soffio di vento che investa l’economia mondiale.

Tuttavia, adesso che il peggio è iniziato, non siamo ancora disposti a considerare come raggiungere un equilibrio migliore tra il benessere materiale e i valori più di fondo, ma abbiamo tuttora solo un desiderio: essere di nuovo ricchi, ciò che vogliamo è solo di riportare le cose a come stavano.

Nell’ultimo prospero decennio ci è accaduto qualcosa di profondo e dobbiamo trovare la via per descrivere sinceramente a noi stessi questa esperienza. Il problema è che siamo portati a vedere le cose, come al solito, in termini morali. Il modello di cristianesimo cui siamo abituati in Irlanda tende, purtroppo, a enfatizzare la distinzione morale tra ricchezza e povertà circa nello stesso modo in cui la moralità sessuale viene contrapposta alla libertà sessuale. Ci si precipita, quindi, a condannare chiunque conquisti, o aspiri a conquistare, qualche cosa. Di conseguenza, negli scorsi anni la popolazione si è divisa essenzialmente in tre gruppi: chi ha cominciato a migliorare la propria situazione materiale; chi non ha avuto questa opportunità e ha trasformato il fallimento in una specie di patrimonio morale, gratificandosi con il proprio virtuoso ascetismo; chi, realmente povero, avrebbe voluto uscire dalla povertà.

Ci si comincia a chiedere: come è successo? Come siamo finiti da vetrina dell’Europa ad esserne ancora un caso disperato? Il nostro naturale pessimismo nazionale, tanto deriso negli anni della Tigre, non sarebbe stato una guida migliore delle chiacchiere dei banchieri e di altri imbroglioni che ci hanno portato in questo pasticcio?

Adesso che la recessione è arrivata, l’idea che ci debba riportare su “valori più fondamentali” si sta dimostrando una teoria non verificata e stiamo scoprendo che quando un paradigma morale viene applicato a valori materiali si crea solo confusione. Ed emerge una cultura che ha perso la sua via non solo rispetto al materialismo, ma forse ancor di più rispetto all’attuale significato di cristianesimo. Sarebbe più utile se, per un momento, si parlasse meno di morale, valori e spiritualità e più di speranza. La speranza è il cuore del messaggio cristiano, ma la potenza di questo concetto è stata affievolita, nella nostra epoca, dal successo dell’uomo nel creare sistemi che sembrano rispondere ai bisogni umani, suggerendo falsamente la possibile eliminazione dei limiti.

L’implosione economica degli ultimi mesi ne testimonia la follia: i sistemi umani sono imperfetti e la speranza che generano è altrettanto fragile. La speranza, in realtà, conosce una sola sostanza: la Speranza con la maiuscola, la Speranza eterna. La nostra cultura ha cercato di sostituire questa Speranza eterna con speranze intermedie, minori, che permettono alla società di funzionare, dietro a una moda, e consentono a forme minori di speranza di essere vendute a gente dal cui orizzonte è stata rimossa la Grande Speranza. Questo è in sintesi quanto ci è successo nell’ultimo decennio. La Tigre Celtica non era di per sé un’occasione di peccato. Al contrario, il fatto che così tanti irlandesi si siano così abbandonati agli aspetti materiali dice, paradossalmente, che il desiderio di speranza è rimasto inesaudito, a dispetto di tutto. Il problema è che abbiamo indirizzato il nostro desiderio nella direzione sbagliata. Questa è quindi l’opportunità vera rappresentata da questo momento di risveglio.

Il constatare che le speranze fabbricate dagli uomini siano apparse in tutta la loro inconsistenza può portarci alla disperazione o ci può condurre a vedere, al di là, la Grande Speranza finora oscurata da queste speranze infinitamente più piccole. Dipende da come guardiamo alle cose e di come ne parliamo, ancora più importante. Non è più il tempo delle vanterie, della pietà o degli opportunismi ideologici; è il tempo di essere comprensivi con noi stessi, di aiutarci l’un l’altro a capire veramente cosa è successo e come non sia, dopo tutto, né la fine del mondo, né necessariamente l’inizio di un periodo più “spirituale”.

Se riuscissimo a liberarci dell’egemonia linguistica degli economisti, banchieri e politici che ci hanno portato nell’attuale difficile situazione, cominceremmo a capire che eravamo tutti prigionieri di un’illusione collettiva, in cui il denaro finiva per non aver altro significato che quello di una palla in un gioco gigantesco dove il vincitore prendeva tutto quello che poteva e il diavolo l’ultima posta.

Si capirebbe che la Tigre Celtica era un enorme trucco basato sulla fiducia, dove l’illusione di ricchezza era creata con l’aiuto del credito e del debito. Potremmo vedere che non solo non avevamo un’economia di successo, ma che non vi era neppure alcuna economia irlandese che potesse avere successo. Avevamo affittato il nostro territorio al capitale e all’industria straniera, a un economia da “cuculo nel nido”, che ci ha permesso di pareggiare i nostri conti per un po’. Ora il cuculo è in procinto di volar via.

Ciò pone domande che vanno molto al di là dell’economia, perfino oltre la politica. Innanzitutto, in un sistema economico che usa la lotteria come suo motore, può esserci una relazione precisa tra lavoro e ricompensa? Si può parlare di moralità del denaro? Qual è il significato della prosperità? Si può descrivere qualcuno come sicuramente ricco?

Forse l’aver sperimentato questo collasso improvviso ci metterà in grado di riconsiderare il rapporto tra ciò che facciamo e ciò che vogliamo. Quando ero ragazzo, mio padre e i suoi compagni usavano il termine “lavoratore” non come una definizione ideologica, ma come un termine di apprezzamento. Per loro, descrivere uno come “un grande lavoratore” era la lode ultima, il riconoscimento di una qualità che eliminava quasi ogni altro difetto. Dire di uno che era “un buon lavoratore”, ne descriveva il carattere più che la sua utilità lavorativa. Questi uomini semplici avevano capito il paradosso per cui solo nel lavoro un uomo è veramente libero.

Questo modo di vedere è stato ormai da molto superato dall’opinione comune che relega il lavoro a un ruolo subordinato nella nostra vita economica, suggerendone una sostanziale irrilevanza rispetto all’attività di banchieri e operatori di Borsa. Un sintomo centrale della nostra difficoltà attuale è che nessuno parla più del lavoro come di qualcosa che ha valore in sé, ma come di un’attività alla mercé di processi più “importanti”. Molti lavoratori hanno rinunciato a qualsiasi sentimento di identificazione con quello che fanno. La personalità non è più legata al lavoro, ma con ciò che si fa quando non si lavora. Il lavoro è un impedimento, al più un mezzo per un fine, ma la vera vita è il tempo libero.

Qualche anno fa incontrai un mio conoscente che, a quarant’anni, stava per andare in pensione. Gli chiesi cosa pensava di fare del tempo che avrebbe avuto a disposizione e lui mi descrisse quella che sembrava in pratica una ricreazione senza fine. Portò a termine questo suo progetto e qualche anno dopo si uccise. Penso si fosse fatto l’idea della vita senza lavoro come di un unico, lungo weekend.

Pensare che il significato della libertà sia riposto solo nel tempo libero, significa creare confusione e frustrazione, e ridurre la vita lavorativa a un peso sopportato solo per guadagnare un compenso. Abbiamo perso l’idea del lavoro come qualcosa di valido in sé, come un’espressione del desiderio e dell’identità umana, come il granello attorno al quale si forma la perla della vita umana. Questo è quanto stiamo pagando ora. Lo sconquasso finanziario è la conseguenza finale di molti anni di concezione deformata della vita e del lavoro, proprio come il suicidio del mio amico è stato l’esito della constatazione che non si può ingannare la realtà.

Siamo al culmine di un periodo in cui si è immaginato che lo scopo del lavoro fosse semplicemente di fare abbastanza soldi da non dover più lavorare. Invece di riflettere sul significato del lavoro, si è messo l’accento su banche, azioni e tassi di interesse, elevando il gergo del mercato a una specie di lingua sacra, mediante la quale si è sperato di accedere alla natura della realtà. Il desiderio di cancellare la naturale paura per il futuro ha dato luogo a una massiccia astrazione, ora crollata come un castello di carte.

La nostra società ha finito per credere non solo in un weekend senza fine, ma anche che la ricchezza potesse venire fuori dal nulla, per magia. Il centro dell’economia si è spostato da un processo impegno-ricompensa a un qualcosa non molto dissimile dal gioco d’azzardo, in cui ai lavoratori si offrivano prestiti a basso tasso di interesse invece che salari decenti. Molti di noi sono caduti in questa illusione, cullandosi a lungo sull’idea che le nostre case potessero “guadagnare” più di noi stessi. Adesso è evidente: le case non guadagnano niente, stanno lì e poi cadono.

Questo è il contesto in cui abbiamo “vissuto oltre i nostri mezzi”: abbiamo perso la relazione tra impegno e ricompensa, tra lavoro e soddisfazione. Non penso che l’avidità sia il problema: avidità è solo un termine peggiorativo, ideologico per il desiderio che non comprende se stesso. Il vero problema è che le nostre economie sono state smontate e rimesse insieme nel modo sbagliato, più al servizio di una economia truccata che come strumenti e condizioni per il lavoro umano. Noi, a nostra volta, siamo rimasti affascinati da questo linguaggio e abbiamo dimenticato il vero significato della vita.

Una seconda serie di domande riguarda la capacità di autodiagnosi nei periodi di prosperità economica. Dato che il successo economico dipende dalla fiducia, vi è una tendenza innata a evitare critiche quando un’economia sta volando, o così sembra. Questo consente di tenere la palla in aria ancora per un po’, ma porta ad atterraggi ancor più disastrosi.

La cosa veramente interessante che emerge dagli anni della Tigre conferma qualcosa notato per primo da John Kenneth Galbraith dopo la Grande Depressione: che le culture economiche di maggior successo sembrano largamente immuni da qualsiasi sistema di allarme basato su razionalità o scetticismo. In Irlanda vi furono voci di allarme, ma furono ignorate, anzi, ridotte al silenzio. In retrospettiva, in diversi casi si potrebbe parlare di una criminale incoscienza; tuttavia, che scelta si poteva avere? Quando non si è architetti del proprio destino, tutto quello che si può fare è tenere la palla in gioco il più possibile.

Queste sono lezioni dure e che toccano diversi aspetti: la qualità del dibattito pubblico, la tendenza alla hybris generata dal successo, la fragilità dei sistemi in cui riponiamo la fiducia per il futuro. Ci sono anche lezioni sulla politica e sulla intrinseca difficoltà derivante dalla necessità per i politici di ottenere consenso. Nel nostro caso, questo ha portato senza dubbio a ritardare, con giochi di prestigio, la resa dei conti.

Forse la lezione più importante è però relativa a come ci consideriamo noi stessi e cosa questo ci dice sul nostro rapporto con la realtà. Per secoli noi irlandesi ci siamo apprezzati, in modo perverso, per il nostro disprezzo per i beni materiali, scoprendo il fianco all’accusa che questo disprezzo avesse più a che fare con l’uva acerba che con il vero ascetismo. Disprezzavamo il materialismo solo perché non avevamo niente.

Gli anni della Tigre Celtica non ci hanno lasciato alcun dubbio che il nostro atteggiamento verso il denaro fosse fasullo, ma la vera lezione è la tendenza del desiderio dell’uomo a cercare soddisfazione nei giochini e nei gingilli del mercato, piuttosto che ai piedi del Signore.