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Scienza, i diritti e i doveri

di Luigi Dell'Aglio - 25/09/2005

Fonte: http://www.avvenire.it/

Un biologo e un teologo, che intervengono a BergamoScienza, riflettono sui presupposti e sulle conseguenze dello sviluppo tecnologico

Scienza, i diritti e i doveri

Di Luigi Dell'Aglio

Boncinelli: «La ricerca sia libera Il dibattito verta sulla tecnica»
«Nessun blocco all'origine, ma dialogo dove le scoperte coinvolgono ogni cittadino»

«Il mio punto di vista è che, nel momento del farsi, cioè della scoperta, la scienza non dovrebbe avere limiti. Sarebbe come mettere brutalmente briglie e morso a un purosangue». Edoardo Boncinelli, docente di Biologia all'università San Raffaele di Milano, è netto: un conto è fare scoperte, un conto è portare la scienza tra la gente.
C'è il mito dello scienziato. Ma quanto interessa alla gente il lavoro che lui compie nel laboratorio?
«Non molto. Alla gente interessa ciò che accade quando siamo usciti dal laboratorio, e la scienza si fa tecnologia, e una certa scoperta diventa applicabile alla popolazione… Ma è proprio allora che la scienza deve parlare con la società, con la politica, con l'economia e anche con la sensibilità delle varie religioni, perché le convinzioni religiose fanno parte del comune sentire di molte persone. Su questo non esistono dubbi».
Quando sorgono le divergenze?
«Quando qualcuno sostiene che la scienza debba essere bloccata sul nascere. Si deve dibattere, ragionare serenamente e stringere alleanze perché la scienza scenda fra i cittadini e ad essi si appelli. Ma sia chiaro: la scienza non si può bloccare all'origine. E su questo non c'è un consenso generale».
Dice un vecchio aneddoto: un'équipe di scienziati fa una grande scoperta ma poi nell'euforia, il capo del gruppo sussurra: «Brindiamo pure, e speriamo che della nostra scoperta non si accorga nessuno!» Che cosa vuol dire? Che, se la scienza impara a fare una cosa, prima o poi la fa?
«A meno che non si tratti di scoperte molto teoriche come quelle cosmologiche, ormai tutti se ne accorgono. Però non dimentichiamo quale è lo spirito che anima lo scienziato: ha una forte curiosità, ce la mette tutta, scopre qualcosa; poi, per lui, tutto finisce lì».
Lo scienziato do vrebbe preoccuparsi di tutte le possibili applicazioni della sua scoperta?
«Credo che esuli dalle sue capacità oltre che dalla sua coscienza deontologica; certe applicazioni nessuno è in grado di prevederle. Pensiamo alla risonanza magnetica. Chi avrebbe mai immaginato che quella scoperta sarebbe finita in tutti gli ospedali? Sottoponendo certi materiali a un campo magnetico oscillante, si notò che i nuclei emettevano una radiazione non prevista dalla teoria. Sembrava una scoperta di scienza pura che non avrebbe suscitato l'interesse di nessuno. Venti anni dopo, la risonanza magnetica è diventata utile sia nei laboratori per studiare la struttura della materia, sia negli ospedali per guardare nel corpo ottenendo una specie di radiografia profonda di tutti gli organi. Ma è anche accaduto che scoperte eccezionali - destinate, secondo gli autori, ad essere applicate con straordinario successo - siano rimaste nel cassetto perché subito dopo è uscito un metodo ugualmente intelligente che ha ottenuto gli stessi risultati in modo più semplice e meno costoso, ed ha vinto».
Un esempio?
«Il modo di determinare la sequenza del Dna. Quando Walter Gilbert lo trovò prese il Nobel, ma subito arrivò il metodo di Frederick Sanger, enormemente più semplice. E e oggi nessuno fa più gli esperimenti con il metodo Gilbert».
La politica ha un misto di timore reverenziale e di sospetto nei confronti della scienza.
«Qualche storico osserva che non per caso le grandi università sono sorte a Pavia e non a Milano, a Pisa e non a Firenze. Era bene tenere lontani dai centri del potere questi pericolosi intellettuali».
Un corretto rapporto scienza-politica come va impostato?
«Come si realizza nelle grandi democrazie. Oggi la vera democrazia e la vera scienza abitano prevalentemente nei paesi anglosassoni, dove il rapporto è favorito da un certo pragmatismo. Mi riferisco soprattutto a Usa e Gran Bretagna, ma vale anche per Australia e Giappone. Fio risce soprattutto nei Paesi giovani. Francia e Germania non brillano in questo campo».


Angelini: «Il sapere non ha confini. Ma deve avere limiti»
«Ignorando le domande sul senso ultimo delle cose diventa
facile dispensare benessere»


«La scienza regna su di noi e neppure un analfabeta si salva dal suo dominio». Il cronista registra la carica critica in questa battuta di monsignor Giuseppe Angelini, preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, e insiste:
Ma allora, professore, quali sono questi confini della scienza?
«Il sapere scientifico afferma come propria prerogativa il fatto di non avere "confini". Alla scienza effettivamente nessun confine può essere imposto. Invece si può, e anzi si deve, parlare di "limiti" della scienza. Il progetto della scienza prescinde da qualsiasi interrogativo sul senso delle cose: una posizione che garantisce alla scienza un'"obiettività" che non ha nessun altro sapere: né a quello della filosofia, né a quello della teologia, né - soprattutto - a quello della coscienza. Questa circostanza aiuta ad intendere la crescente invadenza della scienza sulla vita sociale contemporanea, e in particolare sulle forme del confronto pubblico. La vita personale continua invece ad affidarsi a un altro genere di sapere, quello della coscienza appunto, che cerca il senso di tutte le cose. Ma viviamo in una stagione civile nella quale l'uomo appare ostinatamente minacciato dal non-senso della propria vita. La scienza e la tecnica, sua figlia, riescono in molti modi a procurare rimedi al bisogno e al disagio; non sanno in alcun modo provvedere alla mancanza del bene, che è altra cosa dal benessere e solo potrebbe autorizzare il consenso all'avventura del vivere».
La scienza è ricognizione che accresce la conoscenza. Qual è la ricerca di senso dalla quale la scienza si è distaccata?
«La scienza moderna sospende il riferimento al sapere originario che solo consente di intraprende re il cammino della vita; quel sapere è reso possibile dalla esperienza sorprendente della prossimità delle cose e degli altri alla nostra vita. La scienza sospende anche gli interrogativi che quel primo sapere obiettivamente propone. Ricomincia da altrove, dall'esperimento mirato alla scoperta di ciò che è possibile in senso tecnico. Non postula alcun legame originario del soggetto umano. Ha soltanto dogmi di carattere metodologico: il primo è quello del dubbio quale via privilegiata per giungere ad un incremento del sapere, e del potere. Il sapere a proposito del senso, invece, impegna, interpella la libertà e provoca alla decisione; appunto questo genere di sapere è pregiudizialmente escluso dalla scienza. In questa esclusione consiste la sua costitutiva "superficialità", efficacemente descritta in una pagina de L'uomo senza qualità di Musil».
Gli scienziati si sentiranno offesi.
«Non credo, sono consapevoli della modestia di intenti del loro sapere. Offesi sono semmai i mass media fautori di un'anacronistica apologia dei poteri di redenzione attribuiti alla scienza. Il giudizio di Musil è chiaramente iperbolico e provocatorio: "Dal XVI secolo in poi non ci si è più sforzati di penetrare i segreti della natura (come s'era fatto nel corso di due millenni di speculazione religiosa e filosofica) e ci si accontenta di esplorare la superficie della natura, in un modo che non si può fare a meno di chiamare superficiale"».
Se questo è lo scenario, sul dialogo tra scienza da un lato e filosofia e religione dall'altro scende di nuovo una barriera di incomunicabilità.
«Il confronto non può essere, propriamente, tra scienza e filosofia, o tra scienza e fede; deve essere invece tra tutti gli uomini e deve riguardare il senso della scienza. La scienza, che pure non si cura di questioni di senso, incide in misura macroscopica sulla percezione dei significati, attraverso i suoi prodotti, attraverso quella tecnica mediante la quale regna su di noi. Il confronto quindi non è tanto sulla scienza, quanto sulla mentalità dell'homo faber, da essa obiettivamente alimentata I rapporti tra scienza e fede non possono essere trattati nella forma della astratta discussione di carattere epistemologico».
Se la scienza viene meno al suo compito, come può partire il dibattito che anche lei auspica?
Come ripeteva Heidegger, il senso della scienza non è un problema scientifico. Gli scienziati non sono affatto esclusi dal confronto critico a proposito del senso della scienza; è invece da augurarsi che accettino di misurarsi su tale questione. Il confronto chiede loro di uscire dalla prospettiva del sapere specialistico, per riflettere sul divenire della coscienza umana sotto la pressione della tecnica, e sui pericoli insiti nella fiducia feticistica nei suoi confronti».