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Il cazzaro

di Alessio Mannino - 18/03/2009

Il signore che ci ritroviamo a sovrintentere l'economia del nostro Paese non è esattamente il commercialista che vorremmo avere per curare i quattro soldi che abbiamo. Il  ragazzo creciuto all'ombra del ministro Psi Reviglio, il ragioniere di Sondrio che dai fondi sul Corriere della Sera passò nelle liste di Segni nel '93-'94 per poi salire sul carro del vincitore a trentadue denti (il disprezzato Berlusconi), il teorico e pratico della "finanza creativa", il maestro di condoni e scudi fiscali, il Robin Hood (tax) che si scaglia contro banchieri e petrolieri in nome del mercato, il vicepresidente di Forza Italia: eccolo qua, il Tremonti.
Crede di farci fessi con la storiella del "mercatismo", presunto figlio degenere del liberismo. Predica il motto fascista "Dio, Patria, Famiglia". Tre valori rasi al suolo proprio dal capitalismo e dai suoi sottoprodotti e sottomarche. Invoca il ritorno a Keynes e all'intervento dello Stato nell'economia, spacciando dosi di debito pubblico tramite i bond che portano il suo nome, quando fino a ieri era assertore della supremazia del privato sul pubblico (vi ricordate la svendita di immobili statali, le famose "cartolarizzazioni"?). Pur di stare a galla, in trent'anni di carriera politica e pubblicistica ha sposato ogni ideologia e il suo contrario: da socialista è diventato liberale, successivamente si è trasfigurato in liberista berlusconiano, ha poi abbracciato il colbertismo immaginario per finire neo-statalista a tutto tondo, con tunica di crociato ed erre moscia da insopportabile saccente.
Perchè Tremonti sa. Sa tutto. Sa del signoraggio, sa dell'immonda ingiustizia che va sotto il nome di dittatura finanziaria. Come fiscalista era presente alla famosa riunione del giugno 1992 sul panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, quando il gotha di Wall Street e della City londinese s'incontrò con i vertici dell'industria e delle banche di Stato italiane per ordire la fine dei campioni nazionali, dati in pasto al mercato internazionale. E ora, questo voltagabbana impunito ha pure il coraggio di darsela da eroe inscenando la guerra contro il suo compare Draghi? Dopo innumerevoli scazzi col governatore di Bankitalia, il ministro sta tentando di sfilare a Palazzo Koch il monitoraggio del credito girandolo ai prefetti governativi. Solo l'ultima avvisaglia di un sotterraneo e ferocissimo scontro di potere fra due fra i peggiori responsabili del disastro attuale. Tremonti vuole riprendersi il controllo dell'economia nazionale sottomettendola alla nuova alleanza fra padron Silvio, il re di Mediobanca Geronzi, la Telecom, Unicredit e giù giù a scendere nei gironi del grasso establishment di potentati assistiti (soci Alitalia, concessionari Tav, etc). Draghi, uomo della Goldman Sachs, oppone il disegno di un'Italia liberamente invasa dai capitali esteri, fedele ad un liberismo duro e puro che fa felici i razziatori che da questa crisi avranno interi sistemi industriali da depredare.
Ma Tremonti parla di paura, parla di speranza, parla di profitto ancorato alla giustizia sociale. Parla per ingannare. Parla solo quando gli conviene. Parla per tacere tutte le cose che sa. E che non vuole cambiare. Pena la fine dell'unico Potere che accomuna lui a Draghi e a tutti i filo-capitalisti critici o entusiasti: il dio Denaro. Come dicono a Roma: 'a cazzaro!