Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Mille euro. E poche storie

Mille euro. E poche storie

di Carlo Gambescia - 08/03/2006

Fonte: lineaquotidiano.it

 

Cresce il numero di giovani che nonostante la laurea non riescono a ottenere uno stipendio decente

A dare retta a certe inchieste giornalistiche
sembra che oggi sia di
moda tra i giovani dimostrare di
saper vivere con mille euro al
mese. In realtà quel che viene fuori
dalla letteratura sociologica sui
lavori precari è la capacità di resistenza, e, a dirla
tutta, la rassegnazione dei ventenni.
Può sembrare retorico ma i giovani tra i 25 e i 30
anni hanno smesso di “lottare” per migliori condizioni
di lavoro e vita. E anche se laureati, finiscono
per accontentarsi di lavoretti a termine,
malpagati e soprattutto di contratti atipici se non
proprio in nero (si veda per tutte la recente ricerca
di Almalaurea, sui laureati italiani 2005,
www.almalaurea.it). Per farla breve, un laureato
due accetta un lavoro precario.
Perché?
primo luogo,
perché i giovani
sono le principali
vittime di una
società che celebra
“flessibilità”.
Oggi viene definito
buon lavoratore
chiunque accetti di
cambiare continuamente
ruolo, funzione, impresa, e
soprattutto di non discutere l’entità
della paga. E se giovane deve fare
gavetta”. Negli ultimi quindici,
venti anni si è passati dal lavoratore
“iperprotetto” al lavoratore “ipoprotetto”. La
politica sociale è diventata “costosa” e l’economia
ne ha subito approfittato per imporre nuove,
anzi vecchie regole: prima il profitto, poi le tutele.
In certo senso l’Europa ha adottato, in modo
più o meno rigido secondo le particolarità nazionali,
il modello socioeconomico americano,
basato sulla discontinuità del rapporto di lavoro.
secondo luogo, il mordi e fuggi nei riguardi
dei lavoratori è frutto di un autentico rovesciamento
di valori. Un solo esempio: se ai tempi
dell’Autunno Caldo il salario era considerato una
variabile indipendente dalla produttività (il che
era troppo), oggi è la produttività che viene considerata
tale (il che è poco). Per riprendere il titolo
di una canzone allora in voga, oggi chi non
produce non lavora. Nel senso che il lavoro deve
essere produttivo prima di profitti per l’impresa,
poi di salari e stipendi per i suoi dipendenti.
Non è più accettata l’idea di una soglia onorevole
né poco né troppo) di benessere e stabilità lavorativa.
E ciò spiega a sufficienza precarietà e
bassi stipendi.
Di conseguenza, e in terzo luogo, per “gli under
trenta” che si sono “socialmente” formati nell’ultimo
quindicennio, precarietà e basso stipendio
rappresentano la “normalità”. E qui la pressione
sociale ha giocato e gioca un ruolo determinante.
Ad esempio sul Corriere della Sera il servizio
sull’inchiesta Almalaurea è apparso corredato da
interviste a giovani “ex precari” come Andrea
Pezzi, oggi noto conduttore televisivo.
Il messaggio, per così dire, subliminale, è di
accettare ogni lavoro anche malpagato, precario e
privo di tutele, per mostrare al mondo “quanto si
è bravi”. Perché chi riesce a vivere con mille
euro al mese, non è un lavoratore sfruttato ma un
futuro presentatore televisivo…
E così il precariato diventa
segno di distinzione. Dal
momento che il giovane precario
avrebbe in tasca il biglietto
vincente della grande lotteria
del darwinismo sociale.
In quarto e ultimo luogo, alla
rassegnazione dei giovani
perdenti, che è anche corroborata
dalla
speranza prima
o poi di
vincere, si
accompagna
una socialità
al contrario,
segnata dalla
lotta spietata
tra coloro che
vogliono emergere a tutti i costi. Un fatto che
spiega la bassa sindacalizzazione e persino l’assenza
di vita relazionale sul posto di lavoro. Tutti
corrono per arrivare primi in termini di rinnovi
contrattuali e premi di produzione individuali.
Nell’altro non c’è il collega, o comunque lo
specchio del proprio precariato, ma un pericoloso
concorrente nella gara che ha come traguardo
l’egoistico benessere individuale.
Apparentemente questo processo di degradazione
del lavoro umano sembra inarrestabile. Il capitalismo
del Dopo Muro non temendo più rivoluzioni
sociali, impone ai lavoratori, come ai tempi
della rivoluzione industriale, il massimo di flessibilità.
Perciò molti giovani potrebbero essere
costretti a una vita da precari. Ma anche a un brusco
risveglio.
Che potrebbe essere ancora più spiacevole per
chi oggi li costringe a vivere, illudendoli, con
1000 euro al mese.