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L’espansione dell’Islam politico e la guerra imperialista

di Valeria Poletti - 03/04/2009

 

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La "sinistra" intera, e dentro questa anche i commentatori più integri e coerenti, concentrano ora la loro attenzione quasi esclusivamente su quanto sta accadendo a Gaza, e, di fatto, distraggono lo sguardo dal nodo fondamentale che era e resta il fatto che la Questione palestinese è emblematica e centrale nel conflitto storico che ha opposto il progetto della "rinascita araba" – e il suo portato di esperienza "verso" un progetto socialista – a quello imperialista in cui lo stato sionista è attore protagonista in Medioriente, ma pur sempre inquadrato in una regia globale che è quella del Capitalismo occidentale. Era e resta emblematica e centrale nel quadro dell’attuale momento storico che oppone le ragioni dei popoli oppressi e ricolonizzati, e con esse le ragioni del proletariato mondiale, a quelle dell’assolutizzazione del dominio capitalista, le ragioni dell’umanità a quelle del profitto. In questo senso abbiamo sostenuto e dovremmo sostenere ogni guerra di liberazione nazionale contro ogni guerra imperialista.

La barbarie dei bombardamenti israeliani su Gaza, ma soprattutto l’esibizione mediatica dei suoi tragici effetti, hanno fatto una vittima che resta innominata nelle cronache e nelle analisi politiche: la Palestina. Tanto più si parla di Gaza, tanto più si nomina Hamas – per demonizzarla gli uni e per accreditarla come la vera, se non unica, forza resistente gli altri – tanto più si dimentica che Israele conduce da 60 e più anni una guerra contro la Palestina, non contro Hamas.

Così come i movimenti storici della guerra di liberazione nazionale palestinese, dall’OLP al Fronte Popolare, ma anche Hamas, non combattono contro l’uno o l’altro governo israeliano, ma contro uno Stato colonialista che occupa il loro territorio, lo Stato sionista combatte per impedire la costituzione dello Stato palestinese – arabo, indipendente e sovrano – indipendentemente da quale formazione politica sia – formalmente – insediata nel palazzo governativo. Le manovre diplomatiche, le pressioni internazionali, le operazioni di intelligence, compreso il finanziamento e l’appoggio a fazioni e movimenti politici, hanno, così come i bombardamenti, questo fine, non quello di insediare un "governo amico" con il quale stringere accordi.

DUE POPOLI, DUE STATI? IL DANNO E LE BEFFE

Le stesse "trattative di pace" si sono dimostrate non altro che un espediente per porre ulteriori ostacoli all’ipotetica esistenza di uno Stato palestinese: l’effettività dell’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e la situazione di Gerusalemme impediscono di fatto l’unità territoriale, e, con essa, la concretizzazione di una politica economica e sociale indipendente.

Per Israele la costituzione di un non-Stato, amministrato però da un governo internazionalmente riconosciuto, avrebbe rimandato sine die la soluzione del problema palestinese e permesso di avviare con gli Stati arabi quel processo di "normalizzazione" indispensabile alla integrazione economica di Israele nel "Grande Medioriente" avviando la distribuzione della merce e dei servizi israeliani sui mercati arabi. Per l’OLP, che per decenni aveva assunto la responsabilità del movimento di liberazione nazionale, gli accordi di Oslo del 1993 (con il riconoscimento dell’"autogoverno" e la conseguente istituzione dell’ANP) non erano solo conseguenza quasi inevitabile delle pressioni internazionali, ma, dal momento che consentivano il ritorno dell’organizzazione nei Territori occupati e a Gaza, rappresentavano una tappa all’interno di un più lungo processo di lotta contro l’occupazione. Giusto o sbagliato, criticabile o meno, un obiettivo tattico [1]. Per quanto si possa essere stati e si possa essere convinti che compiere questo passo, che ha tra l’altro comportato il riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’OLP, sia stato un errore, non abbiamo la controprova che possa chiarirci quali sarebbero state le conseguenze, per i Palestinesi, di una scelta diversa [2].

Va sottolineato che le due principali organizzazioni minoritarie, FPLP e FDLP, si sono dissociate dalla firma dell’accordo. Coerentemente, rifiutandosi di avallare un processo elettorale sotto occupazione, l’FPLP non ha presentato candidati alle elezioni del gennaio 2006.

E va anche detto che il rifiuto di Hamas a riconoscere Israele è del tutto teorico. Khaled Meshal, capo dell’Ufficio Politico di Hamas, intervistato nel maggio 2008 da Alexander Cockburn e Alya Rea (Counterpunch), così si esprime: "Allo scopo di unificare sul piano politico le posizioni palestinesi, ci siamo accordati, nel 2006, su una piattaforma politica che poi abbiamo sottoscritto. Lo abbiamo chiamato Documento di Conciliazione Nazionale. E in esso abbiamo dichiarato di accettare uno Stato di Palestina sulla base dei confini del 1967, comprendente Gerusalemme, senza insediamenti e con il diritto al ritorno per i rifugiati. E’ una piattaforma a cui tutti abbiamo aderito. Ma per noi di Hamas c’è un punto molto importante, che è il rifiuto di riconoscere Israele. Ma il non riconoscerlo non implica fargli guerra. Ciò che vogliamo è uno Stato di Palestina fondato sui confini del 1967. Solo allora ci sarà un cessate il fuoco tra noi e Israele" [3]. Del resto, nel programma per le elezioni del gennaio 2006 Hamas specifica che si impegna a mantenere gli accordi già contratti con Israele dall’ANP e afferma la sua disponibilità a mettere in pratica una sospensione delle ostilità di lungo periodo (hudna) a patto che Israele si ritiri entro le linee del 4 giugno 1967. Il fatto stesso di accettare e prendere parte alle elezioni, inoltre, costituisce un riconoscimento di fatto dell’esistenza di due Stati.

LA STRANA TOLLERANZA DI ISRAELE NEI CONFRONTI DI HAMAS

Prima degli accordi di Oslo poteva essere conveniente per Israele contrapporre alle organizzazioni maggiori, che guidavano la lotta di liberazione nazionale nell’ottica della prospettiva panaraba, un movimento settario (il cui scopo, se anche è la fine dell’occupazione, non è l’indipendenza della Palestina e della nazione araba dal dominio imperialista, ma piuttosto l’imposizione secolare dell’Islam sul mondo arabo) [4] e ideologicamente reazionario, in modo da creare divisione e confusione nel fronte della Resistenza. Un nemico diviso è un nemico debole. .

Hamas ha goduto per prima e in ampia misura dell’appoggio di Israele. Le evidenze non mancano. Già nel 1977 Menachem Begin, allora primo ministro israeliano, fu il primo a consentire la registrazione in Israele della al-Mujamma al-Islāmī (Associazione Islamica), movimento collegato ai Fratelli Musulmani. Da allora le associazioni e le università islamiche sono state sostenute e incoraggiate dall’autorità militare israeliana [6]. Il suo fondatore, lo sceicco Aḥmad Yāsīn, venne arrestato nel 1984 e condannato a 12 anni di prigione, dopo la scoperta di un nascondiglio di armi. Ma un anno dopo fu liberato e riprese le sue attività e nel 1984, in coincidenza con l'inizio dell'intifada, fonderà Hamas. Successivamente, nel 1991 Aḥmad Yāsīn venne condannato da un tribunale israeliano all’ergastolo per il rapimento e l'uccisione di due soldati, ma nel 1997 venne scarcerato per decisione di Netanyahu: Olmert, nel 2007 in un intervento davanti alla Knesset, ha sostenuto che la decisione dell’allora primo ministro fu presa proprio per rafforzare Hamas contro la leadership dell’OLP [5]. Rientrato subito dopo a Gaza con il benestare di Israele, lo sceicco Yāsīn assunse nuovamente la leadership di Hamas, e il 22 marzo 2004 venne ucciso da missili lanciati da un elicottero israeliano (a partire dall'inizio del nostro secolo ogni appoggio, anche indiretto, di Israele ad Hamas sembra infatti essere venuto meno) . Nel gennaio 2002 Arafat, in una intervista sul Corriere della Sera dichiara: "Hamas è una creatura di Israele che all'epoca del Primo Ministro [Yitzhak] Shamir [fine anni 1980], finanziò loro e più di 700 loro istituzioni, scuole, università, moschee. Perfino [l’ex Primo Ministro israeliano Yitzhak] Rabin finì per ammetterlo, quando lo accusai di questo, alla presenza di Mubarak." [7]. Non diversamente gli USA non ponevano difficoltà all’attività della formazione islamista: fino al 1993 Abu Marzuq, vice capo dell’Ufficio politico di Hamas, dirigeva la sua organizzazione da Sprigfield.

Il piano di destabilizzazione politica della Palestina non data dunque da oggi. Come già sperimentato in Egitto, Iraq, Algeria, Afghanistan, i finanziamenti erogati alle fazioni islamiche avversarie dei regimi nazionalisti progressisti si rivelano investimenti proficui ai fini del sovvertimento dei sistemi di governo e per la vittoria della controrivoluzione. Nello specifico caso della Palestina, in un Paese occupato privato di una propria economia e di un proprio ordinamento sociale e politico indipendente, finanziare le fazioni settarie, agevolandone la possibilità di attuare piani di assistenza sociale e di acquisire, grazie a questo, consensi tra la popolazione, significava minare la effettiva rappresentatività della dirigenza del movimento di resistenza. Per quanto dunque l’OLP avesse potuto costruire, ed abbia nel tempo costruito, nei limiti imposti dallo stato di occupazione, una struttura economica con forme di organizzazione sociale che permettessero condizioni di sopravvivenza della popolazione, Hamas, grazie all’aiuto finanziario di Israele e dei satelliti americani in Medioriente, ha accentrato e gestito l’assistenza, l’istruzione e l’educazione religiosa.

Da un punto di vista più generale, si trattava di opporre ad una leadership orientata al socialismo una formazione dichiaratamente anticomunista, e soprattutto di minare l'unità della Resistenza palestinese, indebolire l'OLP e in tal modo impedire la creazione di uno Stato Palestinese. È anche necessario ricordare che Hamas, diversamente da Arafat e dall’FPLP, schierati al fianco dell’Iraq, si è astenuto dal prendere posizione nella guerra degli USA contro l’Iraq di Saddam Hussein del 1991, e che, da allora, ha ottenuto un rilevante sostegno finanziario dall’Arabia Saudita, stretto alleato degli americani.

AUTOGOVERNO O AMMINISTRAZIONE AUTONOMA?

Il fallimento del cosiddetto "processo di pace" – che, con gli accordi di Oslo del 1994, ha istituito la farsa del governo dell’ANP su un territorio gruviera – ha dimostrato come Israele non abbia alcuna intenzione di trattare sulle questioni nodali (Gerusalemme, il controllo delle fonti idriche, i confini del futuro stato palestinese, il ritorno dei profughi): l’alternativa che i sionisti pensavano di concedere all’attuale specie di amministrazione autonoma (che, difatti, non è riconosciuta a livello internazionale essendo tuttora l’OLP a rappresentare la Palestina presso l’ONU) era, nel non ancora archiviato piano di Sharon, uno "Stato" di fatto privo di territorio in quanto costituito da ghetti isolati tra loro, territorialmente ed economicamente discontinui, palesemente privi della possibilità di realizzare una delle prerogative fondamentali di uno Stato, l’esercito nazionale. Prendere o lasciare.

Contemporaneamente il cosiddetto processo di pace iniziato con Oslo si prefiggeva lo scopo di ridurre la Questione Palestinese ad una mera contesa sui confini, isolando i Palestinesi dei Territori occupati e della Striscia di Gaza da quelli che vivono all’interno di Israele e da quelli della diaspora, e svuotando di senso (concreto e non solo ideale) la prospettiva dell’integrazione della Palestina all’interno di un processo di unificazione araba. A questo fine l’OLP, guida della lotta di liberazione nazionale, doveva trasmutare nell’ANP, la cui funzione precipua, secondo il punto di vista israeliano, era l’esercizio del controllo sulla popolazione palestinese.

Fino al 2004, anno della morte, o, per meglio dire, dell’assassinio di Arafat, la degenerazione della dirigenza palestinese in semplice fantoccio dell’imperialismo sionista-americano era stata evitata nonostante i sostanziali cedimenti alle pressioni dell’FMI riguardo alla gestione dell’economia e l’affermarsi di élites parassitarie e corruttibili [8].

L’elezione di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha aperto la via ad una subordinazione di fatto del "governo" della Palestina alle leggi dell’economia neoliberista (con l’avvio del Piano di Riforma e Sviluppo Palestinese), cosa che ha reso permeabile la dirigenza palestinese all’ingerenza politica da parte di Israele e degli Stati Uniti [9].

È però necessario annotare che un conto è accusare l’attuale leadership dell’OLP di essere "serva degli interessi israelo-statunitensi" e un altro è imputarle di essere "collaborazionista": nonostante la sua oggettiva e soggettiva debolezza politica, Abu Mazen ha resistito fino all’ultimo, fino a dopo che il colpo di mano militare di Hamas istigato dall’Amministrazione americana aveva eliminato la presenza delle forze di sicurezza di Fatah a Gaza, al dictat americano che gli imponeva di sciogliere il governo regolarmente eletto in cui Hamas deteneva la maggioranza dei seggi [10].

LA GUERRA CIVILE STRUMENTO DELLA POLITICA IMPERIALISTA

La rottura del fragile equilibrio tra le forze antagoniste di Fatah e Hamas è stata inequivocabilmente pianificata e provocata dalla "diplomazia" statunitense ben supportata da tutti i governi occidentali che non hanno fatto difficoltà ad aderire al criminale embargo dichiarato contro il governo di unità nazionale con maggioranza di Hamas presieduto, e inizialmente difeso, da Abu Mazen.

Una guerra civile, o, meglio, una guerra tra fazioni che distrugga l’unità ideale e ideologica, prima ancora che politica, del popolo palestinese è l’arma migliore per arrivare alla "soluzione finale": fine della Palestina, fine della prospettiva della nazione araba.

Il giornalista palestinese Bilal al-Hasan scriveva il 7 gennaio 2007: "I dettagli del piano americano sono stati rivelati dall'edizione del 25/12/2006 del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Il piano, presentato come 'la nuova politica dell'amministrazione americana in Medio Oriente’, è orchestrato in tre fasi, che riportiamo qui di seguito in maniera letterale: - Prima fase: iniziative portate avanti da Israele per rafforzare l'autorevolezza del presidente Mahmoud Abbas/Abu Mazen e per creare un'atmosfera che permetta di far progredire i contatti fra le due controparti. Il quotidiano chiarisce che l'incontro di qualche giorno prima fra Olmert e Abu Mazen è avvenuto in applicazione del primo articolo del piano. - Seconda fase: prevede una serie di passi per rafforzare il movimento Fatah. Il giornale aggiunge: 'In questa fase gli esperti del ministero degli esteri parlano di un confronto interno palestinese, con la possibilità di uno scontro armato, che come risultato porterà secondo quanto essi sperano alla formazione di un governo palestinese che riconosca Israele". - Terza fase: trattative fra il presidente Abu Mazen e Israele, a seguito delle quali nascerà uno Stato palestinese con confini temporanei. I risultati delle trattative saranno sottoposti ad un referendum nei territori (non viene citata la parola occupati).
Questo è il piano americano, che non possiamo certo definire un 'piano di pace’, poiché il risultato a cui vuole pervenire, cioè uno Stato dai confini temporanei, è rifiutato dall'ANP sia a livello della presidenza che a livello del governo. Quanto alla tattica impiegata per giungere a questo risultato, essa non è altro che una guerra civile palestinese, ovvero ciò che il piano definisce 'un confronto interno palestinese, con la possibilità di uno scontro armato. A ciò si aggiunga che il piano non contiene nulla di nuovo, se non appunto l'incitazione alla guerra civile ed allo scontro armato tra Fatah e Hamas, allo scopo di 'strangolare’ quest'ultimo" [11].

Che lo scopo fosse quello di "strangolare" Hamas è, però, opinabile. Hamas, del resto, si strangolerebbe da sola se non ricevesse finanziamenti, oltre che dall’Iran – suo patrono dichiarato – anche dagli Stati arabi alleati degli Stati Uniti con il beneplacito dell’Amministrazione americana e, non possiamo escludere considerando alcuni riscontri attendibili (anche se non è al momento possibile considerarli certi), con singolare tolleranza di Israele. Parrebbe infatti assurdo, ma nel luglio del 2007 il sito israeliano informa che un’investigazione del servizio antiriciclaggio del dipartimento del Tesoro stava conducendo un’indagine sui fondi trasferiti dalla Discount Bank alla Bank of Palestina e finiti nelle casse di Hamas a Gaza [12].

L’intento può essere, invece, quello di ridimensionare la forza militare di Hamas, ma non sembra certamente quello di contrastarne l’influenza politica: almeno fino a quando Hamas rappresenterà un ostacolo all’unità della Resistenza e, forse soprattutto, fino a che avrà la capacità di attrarre – grazie ai programmi di assistenza e alla denuncia delle corruttele di Fatah – i favori dei giovani palestinesi sottraendoli alla sinistra interna all’OLP. Quest’ultima sarebbe, infatti, un antagonista ben più pericoloso per gli interessi imperialisti perché tuttora fedele al progetto nazionale arabo – un progetto che ancora può attrarre consensi anche fuori dei confini della Palestina – e potenzialmente capace di restituire credibilità a quella parte del partito non contaminata dalla corruzione.

ISLAM POLITICO E GRANDE MEDIORIENTE

Mentre questa sinistra (che, al pari di Hamas, si è opposta agli accordi di Oslo e alle trattative che ne sono seguite) è portatrice di un programma politico antitetico agli interessi imperialisti, articolato e progressista, teso a portare avanti il processo di emancipazione delle masse arabe dal dominio del capitalismo occidentale e dai suoi regimi satellite regionali [13], Hamas, confermando la sua affiliazione alla Fratellanza Musulmana con il giuramento del 14 dicembre 2008 a Katiba [14], conferma che il suo progetto politico è la conquista del potere secolare per realizzare l’islamizzazione dello Stato e della società.

Non si può confondere la pratica della solidarietà islamica (raccolta e distribuzione della carità, programmi di assistenza in ambito sociale) con un programma politico informato alla giustizia sociale e all’emancipazione delle classi subalterne. Non si può ignorare che l’Islam politico – antioccidentale perché antiprogressista – non si è mai posto in rotta di collisione con gli interessi economici e con le gerarchie del potere finanziario dell’Occidente capitalista: ha piuttosto offerto un contributo determinante alla distruzione di quegli Stati, primo tra tutti l’Iraq, che ponevano all’imperialismo una vera contraddizione sia per la loro politica a favore dell’unità araba e della difesa delle risorse naturali che per l’orientamento ispirato al socialismo e alla lotta per l’emancipazione dall’egemonia del Capitalismo [15].

Né si deve dimenticare il ruolo svolto dalla Fratellanza Musulmana nell’innescare la guerra civile in Algeria e nella destabilizzazione e disgregazione della Jugoslavia.

L’Islam politico, in modo particolare dopo la vittoria di Khomeini in Iran, è proiettato in una dimensione globale: il concetto di "nazionalismo", ben differentemente dalle accezioni comuni del termine nei Paesi dell’Occidente (sciovinismo, priorità conferita all’interesse di un ceppo nazionale) o in quelli arabi retti da regimi laici (l’unità della nazione araba), vuole traslare l’ideale universalistico religioso nell’ideologia della riconquista delle terre arabe all’Islam [16]. Prendendo il potere a Gaza nel 2006, Hamas ha realizzato un obiettivo di grande importanza nel quadro del progetto dell’Islam politico, quello cioè del controllo di un territorio, obiettivo non raggiunto dalla Fratellanza in Egitto. Se Hamas manterrà il potere, Gaza diventerà non soltanto un punto di riferimento ideale, ma una base territoriale della "nazione islamica" nel mondo arabo. E un nodo importante della nuova rete di influenza iraniana. Una rete le cui prime maglie sono state intrecciate nell’Iraq – devastato ancor più che dalle bombe americane, dalle milizie filo-iraniane di al-Sadr e delle Brigate Badr – una consistente parte del quale, in grazia del servizio reso, è stato offerto dagli USA alla diretta colonizzazione della Repubblica Islamica.

Risulta chiaro a questo punto quale importanza abbia assunto la Palestina all’interno della contesa per l’egemonia sul mondo arabo. Per le élites sciite in Iran, per i suoi satelliti mediorientali Hamas e Hezbollah e per la Fratellanza Musulmana, la contrapposizione è tra nazione araba e "nazione islamica" ed è necessario che quest’ultima cancelli la prima: è dunque necessario tanto eliminare ogni movimento politico improntato all’ideologia panarabista – e con esso la coscienza nazionale araba nelle masse – quanto sovvertire quei regimi, laici o no, che sono riconosciuti come depositari dell’identità araba, in primo luogo Egitto e Arabia Saudita. L’improbabile alleanza tra l’Islam politico sciita e il suo omologo sunnita - alleanza con ogni verosimiglianza destinata a rompersi una volta conseguita la disgregazione dei maggiori Stati nazionali arabi – si fonda su questo programma.

E del resto durante il recente attacco di Israele contro Gaza, l'Iran e Hezbollah, con l'evidente consenso di Hamas, hanno scatenato un'offensiva propagandista senza precedenti nei confronti di numerosi regimi arabi, in particolare l’Egitto e l’Arabia Saudita (Nasrallah ha incitato apertamente gli egiziani alla ribellione contro Mubarak): in alcuni casi gli attacchi del regime iraniano e di Hezbollah contro i paesi arabi "moderati" sono stati sicuramente più violenti rispetto a quelli rivolti a Israele. E la stessa Hamas non solo ha ripetutamente affermato (senza mai fornire alcuna prova), sia in interviste sia sul proprio sito, che Abbas, l'Autorità palestinese e Fatah avevano fornito a Israele informazioni a proposito dei movimenti del Ministro dell’interno Said Siam (ucciso da un attacco dell’IDF alla casa del fratello) e su altri "obiettivi sensibili" , ma ha anche accusato, oltre all'Autorità Palestinese, l'Egitto e occasionalmente altri paesi arabi di complicità nel massacro di Gaza, cui avrebbero dato il via libera o che avrebbero addirittura fomentato [17]. La mancanza di reazione da parte dei governi arabi di fronte alla carneficina di Gaza è stata indubitabilmente vergognosa, ma di nuovo dobbiamo osservare che silenzio non significa complicità. Mentre non si comprende in che modo il supporto dell'Iran e di Hezbollah, rumorosissimo ma esclusivamente verbale, abbia aiutato i palestinesi a Gaza, contrariamente a quanto il leader di Hamas Meshaal ha affermato da Teheran dicendo che l'Iran ha avuto grande parte nella "vittoria" su Israele e che Hamas e iraniani avrebbero liberato "insieme" Gerusalemme [18].

L'aggressione sionista contro Gaza ha costituito dunque l'occasione per cementare ulteriormente l'alleanza ormai simbiotica Hamas-Iran, nel quadro del latente conflitto del regime iraniano (per il quale risulta essenziale la "dearabizzazione" della causa palestinese) nei confronti dei Paesi arabi sunniti e/o nazionalisti, e non necessariamente solo di quelli "moderati". La prima vittima della politica anti-araba iraniana, infatti, è stato l'Iraq, alla cui distruzione l'Iran ha dato un apporto decisivo, a partire dalla collaborazione con gli USA nel costruire falsa intelligence sulle presunte armi di distruzione di massa: l'Iraq certo "moderato" non era[19]. Hamas si rivela sempre più un'indispensabile pedina del disegno egemonico regionale persiano, disegno cui è finalizzata tutta l'incessante retorica anti-israeliana del regime iraniano, volta non certo a mettere in pericolo lo stato sionista, bensì a deviare il dissenso sociale e antigovernativo delle masse arabe sul binario del fanatismo religioso e dell’adesione alla leadership di Teheran, quindi, in definitiva, volta ad indebolire la maggior parte dei regimi arabi [20].

Nel quadro del nuovo ordine regionale, cioè del progetto israelo-statunitense del "Grande Medioriente", i grandi Paesi dell’area – l’Egitto (ex Paese guida del mondo arabo) e l’Arabia Saudita (il maggiore "istituto finanziario" della Jihad e, fino ad ora, il garante diplomatico dello status quo) – si vedranno contrastare il passo dall’Iran, l’unica potenza regionale in grado, oltre che risoluta a farlo, di sviluppare una sua espansione proto-imperialista. Se i due grandi alleati-vassalli degli Stati Uniti hanno progressivamente perso il loro ascendente sulle popolazioni arabe, l’Iran – con la retorica antiamericana della sua dirigenza, con il suo determinante appoggio a Hezbollah nell’ultimo conflitto tra Libano e Israele, e la poco concreta ma molto enfatizzata "protezione" alla Resistenza palestinese (cioè ad Hamas) – aspira ad assumere la leadership nella regione.

L’espansionismo della Repubblica Islamica dell’Iran, dall’avvento al potere di Khomeini in poi, ha morso come una tarantola nelle regioni in cui l’America è intervenuta a destabilizzare, a colpire, a bombardare: dall’Iraq alla Siria al Libano e, ora, in Palestina. E Teheran può ora approfittare del fatto che la comunità islamica mondiale non ha una dirigenza riconosciuta e puntare alla leadership del mondo musulmano quantomeno mediorientale.

La contraddizione che vedrà Israele, quinta potenza nucleare, fronteggiato ai suoi confini dai satelliti di uno Stato potenzialmente detentore dell’atomica verrà forse risolta non già con la tanto paventata guerra delle potenze occidentali contro l’Iran [21], ma piuttosto con un processo di frantumazione degli Stati nazionali nell’area. L’Egitto è già da tempo minacciato di destabilizzazione dall’ascesa della Fratellanza Musulmana. L’Arabia Saudita, che si è dimostrata riluttante ad aderire alla "guerra al terrorismo" e ha concesso ingenti aiuti finanziari alle fazioni dell’Islam politico militante, è sotto osservazione da parte degli Stati Uniti in quanto alleato non più del tutto affidabile anche a causa dell’atteggiamento negativo di Abdullah verso le basi militari americane. E in questo contesto le manifestazioni sciite iniziate nel febbraio scorso, incoraggiate dal governo iraniano, sono un segnale preoccupante [22]. Per fare del Medioriente quella vasta arena di "libero mercato", che garantisca l’egemonia degli Stati Uniti sulle risorse energetiche e sulle vie di transito dell’energia e la supremazia di Israele sulla gestione industriale delle aree economiche speciali e della manodopera a basso costo, è infine necessario destrutturare le economie forti della regione, quella egiziana che ha una sua autonomia produttiva e quella saudita che cerca di giocare la carta del petrolio su più tavoli anche tramite accordi con le compagnie cinesi. La Repubblica Islamica dell’Iran, il cui espansionismo militare si realizza tramite l’ingerenza nei conflitti locali e, dunque, a danno degli equilibri tra e negli Stati nazionali, è, in questa fase, contemporaneamente un alleato per il progetto globale dell’imperialismo occidentale e un antagonista in alcune guerre regionali, come, ad esempio, nel conflitto libanese. È certo, in particolare dopo la cooptazione dell’Iran a fianco dell’alleanza occidentale contro l'Afghanistan (e potenzialmente il Pakistan), che i nuovi rapporti di forza e i nuovi assetti politico-economici nel Grande Medioriente non potranno essere disegnati senza la partecipazione degli ayatollah iraniani.

Hamas – una fazione settaria (nel senso politico, e non religioso del termine) e indirizzata quanto Israele alla creazione di uno Stato a egemonia mono-confessionale – è, per sua stessa ammissione e per quanto affermano gli stessi organi governativi iraniani (oltre che per quanto emerge dai riscontri oggettivi), in totale simbiosi politica con Teheran [23]. La Gaza di Hamas non potrà che essere una pedina funzionale alla trasformazione del mondo arabo in un teatro di contese regionali e locali da cui dovrà emergere quel Nuovo Medioriente di sfruttamento e miseria di massa e grandi affari per le multinazionali progettato dalle centrali dell’imperialismo.

Scriveva Fabio Damen nel maggio 2006: "Per i proletari palestinesi, già gravati dalla difficilissima condizione economica e da una disoccupazione che investe più del 60% della popolazione attiva, la prospettiva è quella di avere a che fare con un governo sempre più simile a quello iraniano, dove la miseria economica e la fame saranno coniugate con la più brutale delle repressioni qualora la disperazione dovesse generare ribellioni. Esattamente come per i proletari iraniani brutalmente repressi dal governo teocratico di Ahmadinejad, lo sponsor economico e politico del nuovo governo di Haniyeh" [24].

HAMAS: LA SOLUZIONE O IL PROBLEMA?

La dirigenza dell’OLP, almeno dopo Oslo, aveva di fatto favorito gli interessi della borghesia nazionale palestinese, una borghesia che vive prevalentemente all’estero in Libano, Siria, Egitto, ma anche nei Paesi occidentali, che non divide la sorte di una popolazione confinata nel carcere a cielo aperto dei Territori Occupati ed è quindi più incline ad accettare uno Stato territorialmente mutilato, ma pur sempre uno Stato con un governo riconosciuto e garante della sicurezza delle relazioni di affari in ambito internazionale. Nonostante questo, la grande parte della popolazione ha mantenuto per anni il suo consenso attivo e resistente all’OLP e a Fatah, forse grazie al prestigio conquistatosi dai suoi leader negli anni della lotta armata o forse perché, consapevole della drammatica realtà dei rapporti di forza tra la Resistenza e lo Stato sionista, sperava di ottenere un alleggerimento della quotidiana miseria e del peso degli insediamenti appoggiando la politica moderata di Fatah.

È ora palese per tutti, visto l’aggravarsi continuo delle condizioni di vita in Palestina, l’errore commesso dallo stesso Arafat nel cedere alle pressioni americane e nel confidare in un possibile parallelo cedimento di Israele sul piano del compromesso. Sarebbe però necessario analizzare i motivi che hanno condotto non ad una crescita di consensi verso quella sinistra militante – che pure aveva rifiutato gli accordi "di pace" e che, coerentemente, non li aveva avallati con una partecipazione alle elezioni sotto occupazione – ma all’affermazione di una fazione settaria e reazionaria.

È considerazione ovvia che parte del consenso conquistato da Hamas gli deriva dalla possibilità che ha avuto, anche grazie alla "benevolenza" israeliana, di gestire programmi di assistenza. Si è trattato, di fatto, di un esercizio di potere (da non confondere con una redistribuzione della ricchezza). Le organizzazioni islamiche "radicali" si sono dovunque accollate compiti di assistenza concreta alle popolazioni, sollecitando e ottenendo ovviamente larghi consensi, senza rinunciare a svolgere un ruolo di violenta repressione sociale e politica.

È invece singolare che una forza confessionale sia giunta ad accreditarsi come rappresentanza politica maggioritaria (anche se va ricordato che le elezioni del 2006 hanno interessato circa un terzo dei Palestinesi, essendo esclusi sia i residenti in Israele sia quelli della diaspora) in un Paese di tradizioni laiche e con una forte presenza di formazioni orientate a sinistra.

Il movimento islamista era certamente radicato in una parte della società palestinese ed aveva tratto prestigio dalla scelta di una forma di lotta, quella del martirio dei kamikaze, che tanto è efficace quanto è espressione estrema della rabbia popolare. Ma Hamas è rimasto minoritario fintanto che è esistita una leadership nell’OLP, sì infangata dalla corruzione e dal clientelismo nell’amministrazione, ma capace, pur avendo sottoscritto l’inganno di Oslo, di svolgere un ruolo importante nella mobilitazione popolare della seconda Intifada e di opporre un sostanziale rifiuto alle pressioni israelo-americane nelle fasi successive a Oslo delle trattative "di pace".

Del resto contro il cedimento e l’asservimento dell’ANP, e contro la Road Map e il cosiddetto processo di pace si sono schierati vasti settori della sinistra palestinese: ne è prova l’arresto di militanti delle Brigate al’ Mustafa (Fronte Popolare) e delle Brigate al Aqsa (emanazione di Fatah, poi sciolte d’autorità, su sollecitazione di Israele, dal governo di Abu Mazen [25]) e la violenta repressione da parte dell’ANP delle manifestazioni indette nei giorni precedenti la Conferenza di Annapolis nel dicembre 2007 [26]. Non sappiamo quale seguito abbiano raccolto tra la popolazione queste organizzazioni, ma non è difficile osservare che dispongono di mezzi finanziari incommensurabilmente inferiori a quelli di cui dispone Hamas e non possono contare sul sostegno di un organismo in grado di incidere negli equilibri a livello internazionale.

Il vuoto di direzione politica che si è venuto a creare dopo la morte di Arafat ha spianato la strada all’affermazione elettorale di Hamas, ma ad essa ha in larga parte contribuito, oltre alla coerente assenza di candidati dell’FPLP alle elezioni, l’atteggiamento pragmatico dei sui leader politici che, nel loro programma elettorale, hanno molto sfumato i contenuti ideologici e mistificato la natura essenzialmente fondamentalista del progetto politico (cioè l’intenzione di traslare i precetti della legge islamica nell’ordinamento giuridico dello Stato) [27], così come faranno i Fratelli Musulmani egiziani pubblicando il loro Manifesto [28].

Non pare proprio essere l’adesione della popolazione palestinese all’ideologia dell’Islam integralista la ragione del successo elettorale di Hamas. Giancarlo Paciello riporta quanto diceva, già nel 2004, Feysal Husseini, uno dei leader più importanti della prima Intifada: "L’Europa deve sapere che se come palestinesi non saremo in grado di ripristinare il diritto e di avere un nostro Stato indipendente con Gerusalemme Est come capitale, se non si risolve il problema dei rifugiati e delle colonie, se non si risolve la questione palestinese, l’Europa deve sapere che la nostra leadership sarà l’ultima leadership laica e secolare, verremo spazzati via dalle forze più estremiste del mondo arabo islamico. Io voglio che mia figlia possa liberamente scegliere come vivere e non le venga imposto nessun velo, io stesso voglio vivere liberamente nel rispetto delle regole che uno stato non confessionale sa darsi e nel rispetto della giustizia economica e sociale. Avrei voluto che Israele usasse il potere della logica nel trattare con noi, ha invece sempre usato, durante e dopo le trattative di Oslo, la logica del potere. Siamo stati troppo pazienti, abbiamo creduto o abbiamo voluto credere che alla fine saremmo arrivati al riconoscimento se non della giustizia assoluta, almeno della possibilità di coesistere pacificamente tra due Stati sovrani. Ma ora è difficile crederlo, e a noi non resta che lottare per i nostri diritti" [29].

Hamas si è dunque accreditata, almeno al momento della consultazione elettorale, come l’unica forza politica contrapposta a quello che era di fatto un "autogoverno" coloniale che agiva più per delega degli americani che per mandato popolare, che reprimeva e disarmava le forze della Resistenza, e che gestiva il potere con modalità clientelari.

HAMAS: PER QUALE PALESTINA?

È stato solo in un secondo momento che Hamas, nella pratica di governo così come nella gestione del conflitto con Israele, ha palesato appieno la sua natura di movimento islamista fondamentalista e di pedina dell’espansionismo iraniano [30]. Ed è da quel momento che diviene chiara la strategia israeliana che punta a mantenere Hamas al potere all’interno di una frazione di territorio separata (stroncando così tanto l’unità politica quanto l’effettivo potenziale di lotta della Resistenza), ma combattendola sul piano militare al fine di contenerne l’aggressività (magari con la tregua decennale ipotizzata dallo stesso Hamas) e far cessare il lancio di razzi Quassam che la popolazione civile di Israele non è più disposta ad accettare.

L’intenzione di realizzare progressivamente una islamizzazione della società palestinese, tradizionalmente laica, rimane nascosta da un velo di ambiguità [31]: Hamas, pur dovendo contare sul voto di una parte della popolazione certamente non incline al fondamentalismo, ha avuto modo di operare un condizionamento ideologico "dal basso" attraverso il controllo di gran parte delle strutture scolastiche e delle istituzioni caritatevoli. Ma, per quanto l’obiettivo dell’imposizione della sharia possa essere importante, non è la priorità del suo programma. A ragione molti dei suoi leader affermano che la questione è politica, è cioè quella di conseguire e mantenere il potere liberando il territorio di Gaza dall’occupazione, ma cancellando ogni traccia ideologica e culturale, oltre che naturalmente politica, di ciò che gli arabi palestinesi hanno inteso per decenni con la parola Palestina. Palestina come parte di quel progetto di emancipazione del mondo arabo, "una parte integrante della presenza nazionale araba democratica progressista" la cui lotta di liberazione è "un grande ed ampio movimento storico portato avanti da cento milioni di arabi in una vasta regione del mondo contro le forze della disumanità, dell'aggressione e dello sfruttamento rappresentate dal neo-colonialismo e dall'imperialismo in questa epoca della storia dell'umanità" [13].

La prima battaglia di Hamas non è stata contro Israele, ma contro altri palestinesi. Già nel settembre 2007 i miliziani della Forza esecutiva, la polizia che opera nella Striscia di Gaza, sequestrano sei giornalisti che documentano la pacifica manifestazione in piazza el Katiba [32]. E l’11 novembre dello stesso anno i miliziani islamisti, comandati da Youssef al Zahar, sparano sulla folla che commemora la morte di Arafat, che protesta contro il colpo di stato effettuato da Hamas e contro il suo subordinarsi alle direttive iraniane, e che chiede la costituzione di un governo di unità nazionale: sette morti, 150 feriti [33]. Un anno dopo, la celebrazione della stessa ricorrenza verrà vietata a Gaza, mentre le bandiere della Palestina saranno proibite [34]. Gaza diviene sempre di più realtà a sé, e nel mondo arabo, in particolare in Egitto e Giordania, si comincia a parlare nei media di Emirato Islamico di Gaza: benché legato alla Fratellanza Musulmana – il cui programma parla esplicitamente di un emirato globale – Hamas smentisce di volerne l’istituzione, ma l’intento di dividere la Palestina è chiaro. È anche chiaro che Hamas può consolidare il suo potere solo amministrando stabilmente Gaza, il che implica la stabilizzazione di un "regime" separato.

La separazione rende impossibili eventuali trattative per la costituzione di uno Stato palestinese, e, contemporaneamente, la Resistenza ne esce notevolmente indebolita. Rafforzati ne escono semmai i piani imperialistici. È innanzitutto in questo senso che dobbiamo definire Hamas una fazione settaria, in quanto impegnata a impadronirsi e a mantenere il potere in un territorio limitato, ma destinato a porsi come base e punto di riferimento per l’affermazione dell’Islam politico nel mondo arabo. Decretando in questo modo la fine della lotta di liberazione nazionale palestinese, favorendo di fatto – anche se inconsapevolmente - , a medio termine, il progetto imperialista di destabilizzazione globale dell’Asia, e ponendo le basi per un ritorno ad un ordinamento sociale reazionario di avvilimento e sfruttamento delle popolazioni mediorientali. Bell’antimperialismo! Anche perché non risulta che i governi islamici sostengano i diritti dei lavoratori contro quello delle multinazionali. Il governo iraniano, sponsor di Hamas, attua una feroce repressione contro qualsiasi forza progressista e di sinistra [35] e contro i movimenti dei lavoratori [36], e l’ondata di privatizzazioni e concessioni alle multinazionali straniere in atto non è certo sintomo di una politica anticapitalista. Del resto la proprietà privata è un pilastro della visione sociale islamista, tanto sunnita che sciita [37]. E questo modello di antimperialismo, dopo aver collaborato con le forze occupanti americane alla distruzione dell’Iraq e al genocidio del suo popolo (dopo l’attentato alla moschea sciita di al Askariya a Samarra vi sono stati più di 3000 morti in tre notti a Baghdad ad opera del Mahdi Army), viene ora cooptato dagli Stati Uniti nella guerra contro l’Afghanistan e nell’aggressione per destabilizzare il Pakistan.

HAMAS: LA FORZA DELL’IDEOLOGIA, O L’IDEOLOGIA DELLA FORZA?

Coerentemente con la sua funzione e i suoi scopi, Hamas consolida il suo potere su Gaza con azioni di polizia nei confronti della popolazione riluttante ad aderire al modello sociale islamico [38] e, soprattutto, con una guerra a tutto campo condotta contro i militanti e simpatizzanti di Fatah, di FPLP e FDLP, ma anche della Jihad Islamica.

Bassam Saleh, candidato indipendente al Parlamento Europeo nelle liste dei Comunisti Italiani, riferisce: "Hamas predica la resistenza ma disarma una gran parte del popolo che altre organizzazioni avevano armato per difendersi dagli attacchi israeliani. […] L’articolo di Angela Lano, merita una attenzione particolare, quando parla della persecuzione dell’ANP contro i militanti di Hamas, parla di squadroni della morte alla sud americana. Avrei desiderato che dicesse, anche per diritto di cronaca, dei 650 militanti di Fatah uccisi, per mano delle brigate Qassam e dalla forza esecutiva di Hamas. Che parlasse dei militanti gettati dal 15° piano. Di sequestri di intere famiglie, solo perché appartenenti a Fatah. Che spiegasse perché ha fatto un massacro [12 morti, decine di feriti, ndr] alla prima commemorazione di Arafat ed ha vietato la seconda!! [39] Avrei voluto leggere qualcosa della situazione delle donne di Gaza, e l’aumento dei delitti d’onore. O perché si bruciano i negozi che vendono i CD, DVD ecc.. O perché il ministro dell’educazione decreta di bruciare un libro di racconti palestinesi, per il solo motivo che alcuni brani parlano di sesso" [40]. Ancora prima dell’attacco israeliano, diverse fonti parlano di incursioni e pestaggi dentro l’Università [41], di minacce e aggressioni ai fedeli diretti alla Mecca e intimidazioni alla stampa [42].

E ancora Bassam Saleh: "L’inaudita violenza praticata dai militari di Hamas, a Gaza, in quei giorni di giugno, contro le forze di sicurezza nazionale, preoccupa la stragrande maggioranza dei palestinesi, per due ragioni: la prima perché mette allo stesso livello (di violenza) Hamas e le stesse forze di sicurezza; la seconda, (che è peggio), strumentalizzare la religione con diverse Fatwa, (decreto religioso) che permettono ai militari di Hamas di uccidere i loro fratelli senza rimorsi o pentimenti, il che fa entrare il conflitto palestinese in un vortice senza fine, che assomiglia alla follia irachena. In questi due mesi la forza esecutiva, e le Brigate di Al Qassam, non si sono fermate nel perseguitare i militanti e i quadri di Fatah - tanti sono stati arrestati torturati e uccisi – ma sono andati oltre, uccidendo un compagno del Fronte Popolare e lanciando una offensiva persino contro i militanti della Jihad Islamica (più di sette morti in un giorno) per non parlare delle aggressioni armate contro feste di matrimonio in diverse città o contro i cantanti popolari, per il semplice fatto di cantare canzoni popolari, o alzare la bandiera di Al Fatah accanto alla bandiera palestinese. E’ questa la sicurezza tanto cantata da Hamas?" [43].

Assassinii, torture, esecuzioni extra-giudiziarie sono testimoniate da varie fonti palestinesi, dalle ONG locali e dalle agenzie di stampa [44], oltre che da organismi internazionalmente riconosciuti [45]. Il 2 febbraio l’agenzia Ma’an ha pubblicato un elenco dei nomi di 181 abitanti di Gaza assassinati o "gambizzati" dalla milizia di Hamas nei giorni dell’aggressione israeliana [46]. In varie sedi i dirigenti di Hamas hanno ammesso tanto le esecuzioni extra-giudiziarie (qualificando le vittime come "collaborazionisti", naturalmente, non come oppositori politici) quanto l’assassinio di civili [47].
Difficile credere agli appelli di Hamas all’unità, impegnata com’è nel dividere la Palestina e la sua gente!

RESISTENZA UNITA CONTRO L’OCCUPAZIONE O PALESTINA UNITA NELLA RESISTENZA?

Hamas, come la Jihad Islamica e come le altre organizzazioni integrate nell’OLP, è impegnata nella lotta armata. Qualunque forza che combatta contro l’occupazione e per la fine del dominio coloniale di Israele in Palestina è di fatto una forza resistente. In questo senso dobbiamo considerare unita la Resistenza. Diversa è la valutazione che di queste organizzazioni si può e si deve dare riguardo al loro ruolo quali effettive rappresentanti del popolo palestinese, e alla parte che esse assumono nella conduzione della guerra di liberazione nazionale, cioè quali obiettivi strategici si pongono: non è la combattività che definisce la qualità rivoluzionaria di un’organizzazione, ma il suo programma politico.

Mustafa Barghouti, medico e segretario del movimento progressista al-Mubadara, chiarisce: "La situazione che si è creata tra Hamas e Fatah ha certamente contribuito a creare un grande problema. Ora scoprono che si sono fatti la guerra per la conquista di un’Autorità che non esiste. Un’autorità che esiste solo nelle loro teste. Di fatto noi siamo tutti sotto occupazione" [48].

Hamas e Fatah, in quanto forze politiche, non possono però sfuggire alla necessità e alla logica del negoziato. Non si può prevedere l’esito dei colloqui che riprenderanno tra qualche giorno al Cairo, si può solo sperare che pongano adeguate premesse per un governo di unità nazionale in grado di indire le previste elezioni nel gennaio 2009 e di mettere un argine alla prospettiva della guerra civile. Ma, anche se, come è davvero auspicabile, sarà fermata la deriva che rischia di portare alla disgregazione della Palestina, non pare destinata a cambiare la strategia di Hamas che intende favorire il disegno egemonico iraniano, né cambierà la strategia imperialista che vuole impedire il processo di emancipazione dei popoli del Medioriente e tagliare la strada verso uno sviluppo autonomo ai Paesi della regione.

Se, dunque, il compito di dare una prospettiva alla Resistenza non può essere demandato all’ANP, ormai collusa con le politiche imperialiste e determinata a reprimere in Cisgiordania i movimenti a favore della Resistenza, nemmeno può essere affidato esclusivamente ad una fazione settaria e vincolata alle direttive iraniane, per quanto maggioritaria nelle elezioni. Resta evidente che l’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese è a tutt’oggi l’OLP, dal 1967 organo di coordinamento politico delle formazioni palestinesi [49]. Gli equilibri al suo interno, così come una necessaria nuova strategia per la lotta di liberazione, verranno, ci auguriamo, ridisegnati sulla base del contributo che ciascuna forza combattente avrà saputo dare alla Resistenza nazionale. Una Resistenza che troverà compiuta e storica legittimazione nel corso di un processo capace di realizzare l’unità nazionale, restituendo, possiamo solo sperare, alla Palestina il posto che le compete nel quadro del processo di emancipazione dei popoli arabi e di emblema dei movimenti rivoluzionari internazionali.

QUALE SOLIDARIETA’ INTERNAZIONALISTA?

Penso che sia il caso di tornare a riflettere sul piano dell’analisi politica, magari penalizzando i contenuti emozionali che suscita lo spettacolo (per noi!) del massacro che si sta compiendo a Gaza, ma riportando in primo piano le ragioni che ci fanno essere radicalmente oppositori del sionismo e radicalmente "sostenitori" della causa arabo-palestinese.

Non possiamo, acriticamente a mio avviso, fare nostra la bandiera di un movimento politico come Hamas, il cui programma dichiarato è la costruzione dello Stato islamico in Palestina, e dunque combatte per il prevalere di un potere religioso all’interno della Palestina più che per una causa di liberazione nazionale arabo-palestinese: commetteremmo lo stesso errore commesso all’epoca della rivoluzione iraniana, quando la sinistra mancò di distinguere tra le forze autenticamente rivoluzionarie e l’organizzazione clericale-reazionaria di Khomeini che ha prevalso sul campo e preso il potere massacrando le forze progressiste e di sinistra.

Non è stato errore da poco. Dal pregiudizio ideologico solidificatosi attorno a questo "errore di valutazione" la "sinistra" ha poi mutuato un giudizio prevenuto e disinformato sulla guerra in Iraq, giudizio che ha permesso di accreditare dirigenze settarie, colluse quando non apertamente dirette dalle centrali imperialiste e/o dalla Repubblica Islamica dell’Iran, quali rappresentanti del popolo iracheno, isolando la vera Resistenza nazionale. Un errore che ha contribuito ad aggravare il prezzo pagato dalla popolazione irachena e che ha procurato ulteriori e profonde divisioni in seno agli stessi movimenti comunisti in Occidente.

L’errore, oggi, potrebbe avere una conseguenza più grave, quella cioè di contribuire a liquidare definitivamente l’idea stessa di una Palestina emblema e cuore della nazione araba necessariamente e irriducibilmente in contraddizione con il disegno imperialista americano e sionista (ma anche europeo) di balcanizzazione e ricolonizzazione del Medioriente. Un’entità statuale più o meno – pur sempre poco - estesa, magari formalmente indipendente, ma retta da un potere teocratico, non opporrebbe alcun freno all’espansione della democrazia mercantile capitalista in Medioriente, andrebbe semmai ad agevolare il processo di spartizione delle aree di influenza tra imperialismi maturi e il proto-imperialismo iraniano fin tanto che questo rimarrà utile, e dunque tollerato dagli Stati Uniti.

L’unico antagonista possibile all’avanzata imperialista resta l’opzione, suscettibile di rinascita, dell’unità araba.

Insomma, altra era la Palestina che abbiamo sostenuto in questi anni – Palestina libera, Palestina rossa – rispetto allo staterello islamico che Hamas persegue come suo fine!

Resta comunque inalienabile il diritto del popolo palestinese a combattere contro l’occupazione e l’occupante con tutti i mezzi e attraverso tutte le rappresentanze politiche che si sceglie, e resta indiscutibile per noi il vincolo etico e politico a sostenerne la lotta di resistenza. Ma sarebbe a mio avviso più corretto affiancarci a quei movimenti che non hanno disconosciuto il fine originario di una Palestina libera, araba e socialista, evitando polemiche, in questo momento sterili, sull’adeguatezza personale dei suoi dirigenti e tenendo nella giusta considerazione gli appelli all’unità tra le forze resistenti lanciati dall’FPLP, dall’OLP e dalla sinistra di Fatah.

Gli antimperialisti greci hanno saputo portare a termine un’azione di concreta solidarietà con il popolo palestinese bloccando nel porto di Astakos un carico di munizioni americane dirette a Israele [50]. Per gli antimperialisti italiani, la priorità penso debba essere quella di sviluppare una altrettanto concreta e coordinata lotta contro le basi militari USA e NATO nel nostro Paese.

Valeria Poletti


NOTE

1 – "La sola soluzione possibile, per risolvere il conflitto storico tra Israele ed il popolo palestinese, è la creazione di un solo Stato democratico su tutta la Palestina storica precedente al 1948. Ma attualmente ciò è impossibile da realizzare. È perciò necessaria una tappa intermedia che consiste nella creazione di uno Stato palestinese indipendente nelle frontiere del 1967, cioè su tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, con Gerusalemme capitale. E applicando il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi".
(Ahmed Saadat, in Senza Censura, n°20 – luglio 2006) http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc06_2005.htm.

2 – "L'accordo non prevede alcun impegno da parte di Israele sui principali punti del contenzioso: le frontiere della futura entità palestinese (ancora non si parla di Stato), il futuro delle colonie d'insediamento ebraiche, la sorte dei rifugiati palestinesi, la ripartizione delle risorse idriche, lo statuto di Gerusalemme. Gli accordi di Oslo sono solo una cornice vuota che i protagonisti si ripromettono di riempire progressivamente per mezzo di accordi successivi, scaglionati nel tempo. In compenso, Yitzhak Rabin ottiene la cessazione dell'Intifada che, malgrado la ferocia della repressione e le numerose perdite inflitte ai ribelli (circa 1500 morti, decine di migliaia di feriti, migliaia di arresti) non era riuscito a domare per cinque anni. I promotori della rivolta depongono le pietre. E non domandano altro che l'istituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, a cui credevano che gli accordi di Oslo avessero spianato la strada. Quanto a Yasser Arafat, accettava una scommessa azzardata. Certo, otteneva il riconoscimento formale dell'OLP come rappresentante del popolo palestinese, e quello, implicito, delle aspirazioni nazionali da essa incarnate, il ritorno dei feddayin nella loro terra natale e una limitata autonomia su alcune porzioni di territorio. E ancora, pur non avendo alcuna garanzia di poter raggiungere i propri scopi allo scadere del periodo transitorio di cinque anni, aveva ottenuto l'assicurazione che tutto era negoziabile, persino lo statuto di Gerusalemme, argomento sempre considerato fuori discussione. Si affidava quindi alla reciproca buona volontà, alle misure tese ad abbattere la diffidenza tra i due popoli nemici e alla 'distensione’ degli israeliani. Veniva quindi attaccato, da una parte, per il suo 'buonismo’, dall'altra per il suo 'tradimento’. Ma aveva forse altra scelta, quando l'OLP, esiliata a Tunisi, ghettizzata dal mondo arabo e privata di fondi dai Paesi produttori di petrolio per essersi schierata con Saddam Hussein durante la crisi del Golfo, mal tollerata dagli Stati Uniti e dalla maggior parte delle potenze occidentali, era ormai allo stremo delle forze? (Éric Rouleau in Le monde diplomatique – novembre 2000)

3 – http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forum
s&file=viewtopic&t=13460.


4 – "Quanto agli obiettivi: combattere il male, schiacciarlo, e vincerlo cosicché la verità possa prevalere; le patrie ritornino ai loro legittimi proprietari; la chiamata alla preghiera si oda dalle moschee, proclamando l’istituzione di uno Stato islamico. Così il popolo e le cose torneranno ciascuno al suo posto legittimo. […] Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam sino al giorno del giudizio. […] Questa è la regola nella legge islamica (shari’a), e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’Islam fino al giorno del giudizio". (dallo Statuto del Movimento di Resistenza Islamico – Hamas – 18 agosto 1988 – http://www.cesnur.org/2004/statuto_hamas.htm.)

5 – "Olmert […] ha accusato direttamente Netanyahu di aver contribuito a rinforzare Hamas liberando il suo fondatore, lo sceicco Ahmad Yassin, all’epoca del suo mandato come primo ministro. […] Netanyahu ha permesso ad Hamas di insediarsi, gli ha dato vita, ha liberato lo sceicco Yassin e ha dato al movimento la possibilità di prosperare". (Sheera Claire Frenkel, Olmert, Netanyahu clash over Hamas – Jerusalem Post – 13 febbraio 2007 – http://www.jpost.com/servlet/Satellite?pagename=JPost%2FJPAr
ticle%2FShowFull&cid=1170359844280.)


6 – [Israele] "ha aiutato Hamas in modo diretto e indiretto per usarla come antagonista dell'OLP", dice Tony Cordesman, l'analista per il Medio Oriente del Center for Strategic studies (Richard Sale, Analysis: Hamas history tied to Israel – UPI, 26 gennaio 2006). [Sale è l'inviato speciale esperto di terrorismo dell'agenzia UPI]
"Secondo il settimanale israeliano Koteret Rashit (ottobre 1987), 'le associazioni islamiche e le università erano state sostenute e incoraggiate dall'autorità militare israeliana’ incaricata dell'amministrazione (civile) di Gaza e della West Bank. 'Esse (le associazioni islamiche e le università) erano state autorizzate a ricevere finanziamenti in denaro dall'estero’". (Hassane Zerouky, Hamas è una creazione del Mossad – 26 gennaio 2009 – http://scienzamarcia.blogspot.com/2009/01/hamasmossad.html)
"Yassin fu condannato all'ergastolo nel 1991 da un tribunale israeliano, per aver ordinato il rapimento e l'uccisione di due soldati. Lo sceicco fu quindi scarcerato nel settembre 1997 da una prigione di Tel Aviv in uno scambio di detenuti, due presunti agenti del 'Mossad’ arrestati ad Amman dopo che avevano goffamente attentato alla vita di Khaled Mashaal, il capo dell'ufficio politico di Hamas. Una settimana dopo la sua liberazione, lo sceicco fece un ritorno trionfale a Gaza accolto come un eroe da circa 15 mila palestinesi". (Chi era Yassin – http://www.articolo21.info/110/notizia/chi-era-yassin.html)

7 – Dean Andromidas, Si stanno scoprendo le radici israeliane di Hamas, in Executive Intelligence Review – 18 gennaio 2002
http://www.coordinamentorsu.it/doc/altri2003/2003_0118hamas.htm

8 – "Una delle cause imputate alla sconfitta di Fatah è la corruzione contrapposta alle figure oneste, affidabili ed impegnate nell’assistenza delle classi subalterne del movimento di Hamas. Ma nessuno racconta come questa si è sviluppata.
La corruzione sistemica è una conseguenza diretta degli accordi di Oslo.
Oslo ha stabilito un sistema in cui l’Autorità Nazionale Palestinese è diventata c