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L’Occidente non capisce. Il velo non è per noi solo simbolo di segregazione. Intervista a Ruba Salih

di Rachele Gonnelli - 09/04/2009

 

La studiosa: «Nell’Islam a periodi di aperture sono seguite a volte
ritrattazioni. Come nell’Iran di Palhevi o nell’Iraq di Saddam dove
c’era sì la scolarizzazione e lavoro, ma si era nella dittatura»

Le chiamano «le femministe di Allah». Loro invece si chiamano «le murshidat», le guide, e usano il velo integrale come una bandiera di libertà. Alcune sono fondamentaliste come Nadia Yassine che in Marocco guida un gruppo semi-illegale al grido di «Allah è femminista». Reinterpretano parti del Corano, in particolare gli hadith ovvero le testimonianze sui detti e la vita del Profeta e delle sue mogli. Considerano la sharja una legge consuetudinaria che, nata in epoca medievale, va storicizzata. «Sono anche loro un aspetto della modernità», sostiene Ruba Salih, antropologa sociale che insegna all’Università di Exeter in Inghilterra e a Bologna e su velo, Islam e modernità ha recentemente scritto il libro «Musulmane Rivelate» edito da Carocci.
Lei che dice, sta migliorando la condizione della donna velata?
«L’interesse per le donne arabe e musulmane nasce in un contesto contaminato, ideologico. Già da prima dell’11 settembre c’era un brutto clima che puntava sull’incommensurabilità delle culture, su un’alterità totale del mondo musulmano, un approccio che è difficile da cancellare. Da allora l’ambito religioso è diventato prevalente, la vera linea di demarcazione, mentre la realtà è fatta di appartenenze multiple. Quando ero piccola a Parma nessuno mi chiedeva se ero musulmana, faceva più discutere il fatto che fossi palestinese».
Vuol dire che è troppo tardi per capirci?
«Intanto bisogna non considerare il velo come simbolo di segregazione. E sapere che nella storia mediorientale ci sono sempre stati periodi di aperture, spesso però seguiti da ritrattazioni: non c’è stato un percorso lineare di progressive acquisizioni. A volte ciò che sembra progresso sono piuttosto delle concessioni, come ultimamente la monarchia wahabita che ha concesso a una donna di ricoprire il ruolo di viceministro in Arabia Saudita. Durante la dinastia Palhevi in Iran i movimenti femminili erano orchestrati per accreditare un modello di donna occidentalizzata, che poi è diventato il modello da abbattere. Nell’Iraq di Saddam c’era stato un certo femminismo di stato con alti livelli di scolarizzazione e accesso alle professioni ma era una dittatura. Hezbollah e Hamas hanno una dinamica interna con un forte protagonismo femminile».
Ma le donne nei paesi musulmani rivendicano diritti?
«Lo hanno sempre fatto. In Egitto dagli anni Venti. In Palestina hanno partecipato in massa al primo grande sciopero sotto il Mandato britannico. In Algeria invece dopo la lotta di liberazione sono state rimandate a casa e ora stanno affrontando una fase nuova».
Le musulmane di oggi, scolarizzate, colte, rivendicano il velo.
«L’islamismo è un movimento che mescola universalismo e fede. Il velo - l’hijab - è un segno distintivo insieme estetico e identitario che accompagna la donna in uno spazio pubblico. Le donne in tutti i diversi contesti hanno sempre trovato una strategia per negoziare le dinamiche più oppressive. A me interessa individuare i meccanismi per cui ad un certo punto ad un processo che avviene dal basso si innesta un processo riformatore dei governi e dei regimi».
Quando scatta la riforma?
«In Marocco è successo con il nuovo codice di famiglia. È stato dopo i gravi attentati di Casablanca e Rabat nel 2000. Le infiltrazioni dei gruppi islamisti radicali hanno scosso il re e gli hanno fatto prendere una decisione attesta da decenni. In ballo c’era la natura dello Stato. La monarchia ha visto un pericolo e ha impresso una svolta ricollocando la sfera religiosa in un suo ambito. Sui diritti delle donne si stabilisce in effetti che tipo di modernità si vuole. È una cartina da tornasole».
Lei dice che l’islamismo guadagna popolarità con l’insicurezza economica. È come dire che le donne non sono le prime ad essere ricacciate a casa in tempi di crisi?
«C’è una traiettoria ambivalente di fronte a fenomeni come gravi crisi, guerre o shock. Alle donne viene spesso chiesto di dare un contributo ma anche di preservare l’autenticità dei valori, garantire che il sistema non sarà scosso. Così è stato in Egitto alla fine degli anni Ottanta quando dovendo uscire di casa per andare al lavoro hanno deciso di indossare il velo per rassicurare gli uomini che ciò non avrebbe minacciato la costruzione culturale della famiglia. Il velo non è allora semplice oppressione ma un simbolo, di modestia e di ordine morale, e come tale viene utilizzato. Poi fortunatamente nel vissuto della gente la realtà è molto più ibrida che nelle dichiarazioni d’identità. La speranza è questa».