L’ultima strage in cronaca, l’immigrato asiatico che a Binghamton, New York, ha ucciso 13 persone, ferite quattro, e poi si è tolto la vita, affonda le sue radici nel sentimento più diffuso nel mondo globale: la solitudine. È infatti questo il dato comune, sempre presente in queste stragi impersonali, spesso contro sconosciuti: l’attacco violento agli altri, con i quali non riesci a comunicare. Li uccidi, perché non sei mai riuscito ad incontrarli. E questo ti impedisce di vivere. Senza l’altro, infatti, la vita dell’uomo perde di senso.
Il lavoro perso, come in altri casi lo scacco scolastico, o la delusione sentimentale, sono solo l’ultima goccia che scatena la disperazione finale. Sotto, c’è il fallimento dell’incontro con gli altri, la solitudine vissuta come condanna ad una vita impossibile, perché priva di quel calore affettivo che è indispensabile nutrimento di ogni esistenza umana.
Quando la psicoanalisi dice che l’Eros, la spinta verso l’altro, è la più potente delle passioni non sta parlando solo della sessualità. Anche Freud lo intuiva quando diceva che lo stesso Eros ispira anche la guerra e la morte, forma rovesciata di incontro con l’altro, quando quello amoroso non è possibile.
Abbiamo bisogno di abbracciare l’altro, di venirne abbracciati. Quando questo incontro affettivo, umano, personale e sociale non si realizza, la personalità si ammala, il rapporto con la vita diventa difficile, e la fantasia della morte, data a sé e/o agli altri, viene vista a volte come unica prospettiva di uscita, oltre che come regolamento di conti con un’esistenza vissuta come troppo crudele.
La durezza e la violenza di queste ribellioni alla solitudine personale ci spiegano, anche, perché giovani e giovanissimi oggi sentano invece così importante il contatto con altri, l’amicizia, e qualsiasi forma di socializzazione, da Facebook, a YouTube, alle mille tribù della rete, a tutte le mode, che sono contemporaneamente fonti di aggregazioni giovanili.
Si dice spesso che questi ragazzi non sanno stare soli, non reggono la solitudine: è vero, e queste stesse stragi, spesso compiute da giovani, precipitati appunto nella solitudine, lo dimostrano. Forse però, liquidando la questione in questo modo, noi ci riferiamo ad un’idea romantica e non attuale della solitudine, che non tiene conto di cosa significhi essere soli nel mondo globalizzato di oggi. Un mondo in cui gran parte delle appartenenze che hanno sempre rappresentato la rete di salvataggio dell’essere umano in difficoltà (la famiglia, l’etnia di origine, la cultura e solidarietà della classe di provenienza, la religione), sono state violentemente attaccate dai modelli dominanti, ed hanno finito per entrare in profonde crisi e trasformazioni. Il solitario novecentesco poteva sempre rifugiarsi in una di queste reti, oggi chi si ritrova solo ha di fronte a sé un mondo che percepisce come impersonale e privo di reale interesse affettivo.
Per questo i giovani sono così attenti a stabilire e rafforzare i loro luoghi e modi d’incontro, reali e virtuali. Per questo chi scivola invece fuori da ogni rete di comunicazione, entra in zone di angoscia intollerabili, come dimostrano le storie di gran parte di questi stragisti suicidi.
L’individuo del mondo globalizzato, anche sotto l’effetto degli idoli collettivi (il successo, la ricchezza facile, l’immagine) tende a vivere «al di sopra» delle proprie capacità e mezzi affettivi. In particolare non considera la forza del proprio bisogno d’amore, dell’altro. Quando si accorge di non poterne fare a meno, a volte pensa che sia troppo tardi, e non accetta più la vita.