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Caro amico, se ti attanaglia la solitudine, «de te fabula narratur»

di Francesco Lamendola - 14/04/2009


La filosofia ha l'abitudine di pensare per categorie astratte; e, così facendo, succede che perde di vista gli uomini concreti, i problemi concreti, la vita concreta.
In fondo, il sistema filosofico più astratto e più rigido, quello di Hegel, coincide con l'inizio della società massificata: una società ove la stampa quotidiana (oggi affiancata da radio, televisore e rete informatica) ha creato quella curiosa astrazione che si suole chiamare «opinione pubblica» e che è formata, in realtà, da quella minoranza di persone le quali subiscono il quotidiano lavaggio del cervello ad opera dei mezzi di disinformazione e che, in virtù della loro presuntuosa illusione di sapere qualcosa e di aver capito tutto, forniscono al potere - sotto qualunque drappeggio si presenti - la principale base di consenso.
Ma l'individuo, il singolo essere umano, anzi, il singolo uomo e la singola donna (perché anche il concetto di essere umano è, in fondo, un'astrazione), non sono mai stati così soli e abbandonati a se stessi, alle proprie ansie, insicurezze e paure, come al giorno d'oggi; non sono mai stati così scaraventati su un terreno ignoto e minaccioso da un apparato tecnoscientifico che fornisce loro, volenti o nolenti, innumerevoli mezzi per velocizzare il tempo e per produrre sempre più cose e generare sempre più bisogni, ma non si cura minimamente dei fini e, quindi, genera assai più problemi di quanti ne risolva, in una spirale sempre più asfittica e distruttiva.
Perciò, dietro l'apparenza scintillante di un mondo beatamente soddisfatto ed edonista, che le ricorrenti crisi economiche riescono appena a scalfire e che riesce a convivere, imperturbabile, alla consapevolezza che tre quarti del genere umano sono esclusi da un tale Paradiso, vi è una realtà di solitudine sempre crescente, di autentica disperazione, che non trova neppure la voce per levare il suo grido di angoscia.
La durezza dei rapporti umani si è fatta ormai tale, e lo squallore affettivo della società postmoderna ha raggiunto un livello così deprimente, che le persone intimamente soddisfatte della propria vita sono ormai ridotte a una esigua minoranza sempre più in ritirata; e, dietro famiglie in apparenza solide, professioni ben remunerate e stili di vita disinvolti, se non proprio spensierati, si cela una realtà inesprimibile fatta di ansia, delusione, scoraggiamento, amarezza, rabbia, paura e frustrazione, che attende solo l'occasione giusta per esplodere.
Molti di noi sono ormai uomini e donne polveriera, mine vaganti che potrebbero deflagrare in qualunque momento, tale è il carico di dolore e di aggressività che si portano dentro, celandolo accuratamente, il più delle volte, per non sciupare la propria immagine pubblica, lustra e scintillante. Tutt'al più, se ne vanno una volta o due a settimana a scaricare la tensione presso i nuovi sacerdoti della magia nera, gli psicanalisti, specializzati nel rimescolare il fondo tenebroso dell'inconscio; o tentano di allentarne la pressione, concedendosi qualche fuga ricorrente nei paradisi artificiali dell'alcool, della droga o del sesso facile.
Già: il sesso. Per gli uomini, c'è quello a pagamento sulle strade o in qualche appartamentino compiacente, ma sempre con la spada di Damocle di poter contrarre qualche brutta malattia; per le donne (e per molti uomini), quello «senza complicazioni» con il primo che capita, ma pur sempre entro una cerchia relativamente sicura di conoscenze, più o meno occasionali. Un contatto rapido, per non dire fuggevole, giusto quel che serve a scaricare la necessità fisiologica. Poi una bella doccia, e via; come se, con l'acqua, ci si potesse ripulire anche dalla degradante sensazione di essersi buttati via,  senza dolcezza e senza rispetto per se stessi.
Ma il bello è che, quando si parla di queste cose; quando si ricorda che la nostra società sta facendo di tutto per eludere la questione essenziale che riempirebbe di senso la vita umana: offrire alle persone un ricco tessuto di relazioni e di interessi, mediante le quali evolvere spiritualmente e raggiungere il proprio equilibrio esistenziale - ciascuno pensa che, sì, forse la cosa è in parte vera (quantunque, via, non bisogna poi esagerare…), ma che lo è sempre per gli altri: per gli altri uomini e per le altre donne.
E invece no, caro lettore, lector suavissime: de te fabula narratur, la storia sta parlando di te, proprio di te e di nessun altro.
Certo, riconoscere una simile morale non fa piacere a nessuno, perché significa ammettere che, per quanto sia possibile darla ad intendere a molti, non si può - tuttavia - nascondere a se stessi il peso del proprio fallimento esistenziale. Sì, il peso: ed è un peso non solo metaforico: è quel senso di profonda insoddisfazione e di profondo malessere che i medici e gli psicologi chiamano  depressione, ma di cui la depressione è solo e unicamente un sintomo.
Si è depressi perché si smarrisce il senso della propria vita, non perché si è soli. Chi ha trovato il proprio equilibri esistenziale, e sia pure faticosamente e provvisoriamente, non soffre di solitudine, perché è in compagnia di se stesso ed è in comunione spirituale con il mondo intero. Non solo: egli si sente abbracciato e accarezzato dall'Essere, si sente confortato e incoraggiato dall'Essere, si sente accompagnato e diretto verso il proprio scopo.
Ma alla solitudine devastante che attanaglia uomini e donne i quali hanno smarrito le ragioni del proprio essere al mondo - peggio: che hanno smarrito l'estrema serietà di quelle ragioni -, nessuna cura potrà giovare realmente, se prima essi non comprenderanno di essersi cacciate in un vicolo cieco, per aver sopravvalutato i beni esteriori e aver lungamente ignorato o tacitato le esigenze più profonde ed autentiche della propria anima, a cominciare dalla sua sete ardente di verità, bontà e bellezza.
Una trentina d'anni fa, con il cosiddetto «riflusso», si è sgretolato il sogno di una generazione secondo il quale la dimensione pubblica, politica dell'esistenza avrebbe soppiantato quella del privato, e che ciò avrebbe portato, automaticamentee infallibilmente, la liberazione non solo dei popoli e delle comunità, ma anche dei singoli individui, da ogni forma di alienazione, di inautenticità e di angoscia.
Le persone che hanno vissuta quella inebriante ed ingenua stagione, hanno poi subito il contraccolpo di un «ritorno all'ordine» che ha significato, in pratica, mettere tristemente nel cassetto tanti sogni di pienezza e di felicità e venire a patti con una realtà sempre più deludente. Per quelle persone, il disagio esistenziale è stato più esplicito (non necessariamente più grande) che per le generazioni successive, perché era ancor vivo, in loro, il nostalgico ricordo di quel magico momento in cui tutto pareva possibile, anche dare la scalata al Cielo.
Un acuto studioso di fenomeni sociali e di critica teatrale, Ugo Volli, aveva colto il momento del riflusso con rara lucidità, scrivendone - fra l'altro - nel volume antologico «Il trionfo del privato» (Bari, Laterza, 1980, p. 131), in cui riportava, ad esempio, questi due lettere, comparse nel 1979 sulla pagina degli annunci del giornale «Lotta continua» (una rubrica che sarebbe stata impensabile, su quel tipo di stampa e con quelle caratteristiche, fino a pochi anni prima):

«Vivo una vita di solitudine e disperazione, cerco di affrontare razionalmente tale problema, però non posso risolverlo da solo, non cerco calde pacche sulle spalle o logoranti scambi di manifestazioni nevrotiche, cerco una compagna che mi dia un'amicizia serena. Non ho il telefono, scrivere.»

«Sono una donna 47enne che non riesce più a creare un buon rapporto con i compagni coetanei. Vivo la schizofrenia della contraddizione dei miei anni della mia mentalità giovanile ed aperta. Per ora il mio desiderio è quello di trovare un compagno più giovane di me con cui confrontarmi, discutere e vivere un pezzo di vita tranquilla e dolce. Chi se la sente risponda con annuncio.»

Un uomo e una donna, dunque, di quelli che, nella stagione fra il 1968b  e il 1977, hanno dato l'assalto al Cielo, ma che poi, già nel 1979, si trovano svuotati, delusi, stanchi, con un pugno di mosche in mano e con una enorme solitudine interiore: non tanto, crediamo, perché l'atteso Paradiso in terra non si era realizzato, ma per l'amara scoperta che quella generazione che tanto ha creduto nel pubblico, da arrivare a calunniare ogni forma di privato («narcisismo piccolo borghese», si diceva allora, con disprezzo) non era stata capace di costruire, nel qui e ora, dei rapporti umani soddisfacenti, specialmente nella relazione fra uomo e donna.
Perché mai, altrimenti, un giovane uomo il quale, da come scrive, denota intelligenza, sensibilità e cultura, avrebbe dovuto spingersi a confessare il proprio totale naufragio interiore, e lanciare il suo grido di soccorso come un messaggio affidato alla bottiglia sulle onde incerte del mare? Nessuna delle amiche, delle compagne di innumerevoli cortei, sfilate, manifestazioni, collettivi, eccetera, era  adesso a portata di mano, per salvalo dalla solitudine e dalla disperazione?
E perché mai quella «compagna» battagliera, ormai più vicina ai cinquanta che ai quaranta, avrebbe dovuto accorgersi che nessuno degli amici di tanti discorsi, di tante lotte, di tante speranze, era in grado di capirla; sino a fare esplicitamente l'inserzione per trovare un ragazzo più giovane di lei, col quale cercare un po' di dolcezza e tranquillità, come avrebbe fatto una qualsiasi lettrice borghese di riviste modaiole?
C'è qualcosa che non funziona, in questo quadro: sembra proprio che una intera generazione abbia scoperto, dopo aver denigrato sistematicamente l'aspirazione alla dimensione privata della serenità, della dolcezza e della tranquillità, di trovarsi poi allo sbando proprio sul piano esistenziale e affettivo, assai prima che su quello politico e ideologico.
Non sappiamo se quel «compagno» solo e disperato abbia trovato quel che cercava, o se lo abbia trovato la «compagna» quarantasettenne, che si sentiva più giovanile di tutti i suoi coetanei; a conti fatti, oggi dovrebbero avere entrambi un'età in cui è tempo di fare dei bilanci, più che di aspettare ancora magiche svolte.
Ma quel tipo di delusione esistenziale - la scoperta della solitudine, della disperazione, della impossibilità di comunicare con l'altro, e specialmente con i propri coetanei - possiede una valenza  che travalica la storia delle singole generazioni e rivela una dimensione tipica della modernità (o, a maggior ragione, della post-modernità): lo scacco del singolo uomo e della singola donna davanti a un mondo che sembra costruito a misura delle masse (di consumatori, di elettori, di utenti), non degli individui, delle persone.
Alcuni cercano di sfuggire alla solitudine viaggiando: la società di massa è l'epoca dei viaggi, delle automobili, degli aerei, delle crociere.
Ma, naturalmente, non serve a nulla: perché l'unica geografia che chiede di essere placata è quella dell'anima; e, se quest'ultima non è in pace, non si fa altro che spostare la propria angoscia da un luogo all'altro (o meglio, da un non-luogo ad un altro: tali sono aeroporti, autostrade, alberghi internazionali e via dicendo).
Poco meno di duemila anni fa, lo aveva già detto Seneca, e con esemplare chiarezza:

«Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari [Questa irrequietezza è propria  di un animo malato;  io giudico come primo indizio  di un animo equilibrato il saper restare fermo e raccolto in se stesso].»

Smetteremo di avere paura della solitudine, quando saremo tornati padroni di noi stessi; e ciò avverrà, se e quando avremo ritrovato il senso della nostra missione: che non è quella di vivere alla giornata, ma di concentrare la nostra vita, al fine di comprenderla e di trascenderla.
Allora, e solo allora, torneremo ad essere delle belle persone.
E le belle persone non sono mai sole, perché amano e sono amate, sempre.