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Due modi diversi d'intendere il carisma

di Francesco Lamendola - 14/04/2009


Alla fine di gennaio 2009 l'arcivescovo di Udine, monsignor Brollo, ha vietato ai fedeli di partecipare agli incontri di preghiera e guarigione con il sacerdote ortodosso Gabriele Fiume, torinese, che si tengono ogni mese presso il Centro San Charbel di Feletto Umberto, nella sala riunioni della casa editrice Il Segno.
In effetti, tutti e quattro i vescovi della Regione Friuli Venezia-Giulia hanno firmato una nota pastorale congiunta, nella quale si invitano i fedeli a non partecipare, neppure per semplice curiosità, a tali riunioni, asserendo che vi predominerebbero intenti sensazionalistici e spettacolaristici, i quali sono lontani dalla autentica preghiera ecclesiale.
A giudizio dei quattro vescovi - Brollo di Udine, Ravignani di Trieste, De Antoni di Gorizia e Poletto di Concordia-Pordenone - gli incontri tenuti da padre Fiume, oltre a essere gestiti da un sacerdote di diversa confessione religiosa, quella ortodossa, sarebbero caratterizzati da eccessi ed enfatizzerebbero esageratamente la figura del guaritore e la ricerca del miracolo, mettendo in ombra il fatto che il carisma della guarigione è un dono libero di Dio, come ricorda un documento in merito del Vaticano, che invita i vescovi a vigilare sul fenomeno.
Ci troviamo di fronte, dunque, a un duplice ordine di censura, disciplinare e liturgico. Disciplinare, perché tali incontri di preghiera (a differenza, per esempio, da quelli tenuti dai devoti del Cenacolo della Divina misericordia, presso la Chiesa di S. Paolo, nel sobborgo udinese di Sant'Osvaldo) sono tenuti da persona sconosciuta e, comunque, non autorizzata dalla Chiesa locale. Liturgico, perché in essi si farebbe ricorso a modalità di preghiera e ad esorcismi non conformi alla tradizione cattolica, che sarebbero motivo di disagio e confusione nei fedeli.
Senza entrare nel merito della vicenda, di cui non conosciamo personalmente i termini,  ci sembra che essa rifletta - come altre che l'hanno preceduta, e altre ancora che, certamente, la seguiranno - una ambiguità di fondo della vita ecclesiale, mai affrontata apertamente e mai del tutto risolta, probabilmente perché non risolvibile: ossia la potenziale distonia  esistente fra il concetto e la pratica della fede come fatto organizzato e disciplinato, sottoposto alla gerarchia episcopale; e come fatto spontaneo, assembleare, carismatico, ispirato alla ricerca di un rapporto immediato dei fedeli con Dio.
Nel primo caso, la vita ecclesiale si incanala entro formule e manifestazioni  collaudate nel tempo, controllate a livello pastorale e, insomma, istituzionalizzate; nel secondo, tende a esprimersi in maniera più immediata e spontanea, più assembleare e carismatica.
Non è detto che le due forme debbano entrare in contrasto; ma ciò può verificarsi, nel momento in cui la forma istituzionalizzata dovesse vedere in quella assemblare il pericolo, anche solo potenziale,  di un suo scavalcamento, di una perdita o un indebolimento della propria funzione gerarchica.
In teoria, tutti i credenti sono d'accordo sul fatto che la Chiesa è sia istituzionale, sia carismatica. Le due cose non si escludono e, anzi, risulta chiaramente, dagli Atti degli Apostoli e da altri documenti del cristianesimo primitivo, che non esisteva una netta separazione tra i due momenti della fede, quello della liturgia organizzata e quello del carisma. La stessa preghiera comunitaria, cuore pulsante della vita ecclesiale nelle singole comunità cristiane, poteva esplicarsi in forme non ancora rigidamente istituzionalizzate, ma rifletteva una partecipazione diretta, «dal basso» (come si direbbe oggi) della comunità dei fedeli.
La stessa circostanza che i testi sacri siano stati sottoposti ad un lento processo di selezione e di assestamento, che ha portato alla graduale esclusione dei Vangeli gnostici e di altri testi, prima considerati ispirati (come il celebre «Libro di Enoch»), testimonia il fatto che, per un tempo considerevole, la Chiesa è vissuta in equilibrio tra le spinte assembleari (e carismatiche) provenienti dal basso, e l'esigenza di disciplinare e governare una realtà ancora «in fieri» - e quindi mobile ed elastica -, proveniente dall'alto.
Ora, non crediamo si possa attribuire ad un mero caso il fatto che le sollecitazioni a un rapporto più spontaneo e meno gerarchizzato tra le comunità dei fedeli e l'esperienza religiosa manifestantesi nella preghiera comunitaria, provengano spesso da situazioni «di confine» rispetto alla normativa e alla prassi della Chiesa cattolica.
Ad esempio, Emmanuel Milingo era un vescovo cattolico, ma veniva dall'Africa profonda, ove le forme della preghiera e dell'esorcismo sono figlie di una tradizione diversa da quella della Chiesa cattolica romana; per non parlare della diversa percezione di una regola, come quella del celibato ecclesiastico.
D'altra parte, vi sono anche stati - e vi sono tuttora - dei casi nei quali è proprio dal cuore profondo della «provincia» cattolica che emerge, con sconvolgente immediatezza, l'evento carismatico, fino ad entrare in conflitto con la Chiesa istituzionale.
Tale il caso di un oscuro frate dell'Italia meridionale,  povera e arretrata: genuina espressione di una religiosità rurale, ma anche di un autentico misticismo, che i suoi superiori non compresero e che fu oggetto di aspre e mortificanti restrizioni proprio da parte di quel clero, fornito di una cultura universitaria e internazionale, bene rappresentato dalla figura di padre Agostino Gemelli. Essi non credevano ai carismi di quell'umile frate, al suo potere di guarigione, alla sua lotta diuturna con il demonio, e men che meno erano disposti a credere alla realtà soprannaturale delle sue stimmate; ma la massa dei fedeli ebbe invece, fin da subito, la percezione che padre Pio da Pietrelcina fosse un uomo di Dio, un santo.
È un fatto, pertanto, che il popolo dei fedeli sovrabbonda di persone carismatiche, di profeti, di visionari (nel senso nobile della parola), di mistici, di guaritori; l'avanzare della modernità, della cultura scientista e materialista, e il diffondersi dei meccanismi socio-economici della cosiddetta globalizzazione non ne hanno rallentato per niente il ritmo, non ne hanno limitato affatto l'espansione.  A dispetto del dilagare di telefonini e computer, simboli di una tecnologia sempre più invasiva  e di una mentalità materialista e pragmatista  sempre più diffusa, non sembra che diminuisca il numero dei credenti che si scoprono dotati di carismi, e che intendono offrirli alla comunità cui appartengono.
Di fronte al moltiplicarsi di tali manifestazioni, la gerarchia cattolica tende a reagire con estrema cautela, per non dire con malcelata diffidenza; ed, entro certi limiti, è anche giusto e naturale che sia così. Non tutte le pretese manifestazioni carismatiche sono, in realtà, autentiche; ve n'è una parte che proviene da forme di isterismo o da altre cause naturali, e che potrebbe alimentare forme di religiosità morbose ed estreme.
Prudenza e diffidenza, comunque, non dovrebbero partire da una esclusione pregiudiziale del soprannaturale, come invece, non di rado, avviene. Vi sono vescovi, da tempo, che dicono apertamente di ritenere superata la dottrina relativa agli angeli e ai demoni; vi sono teologi e scrittori cristiani, i quali sostengono apertamente  che la credenza nel Diavolo ha fatto il suo tempo,  e che il concetto stesso di miracolo deve essere sottoposto a una profonda revisione, in modo da sfrondarlo da ogni sedimentazione «mitica» (nella loro presunzione scientista, essi ignorano perfino che il mito non è affatto sinonimo di favoletta, ma una forma di sapere di dignità pari a quella della tanto decantata scienza occidentale moderna).
Si ha, pertanto, la sensazione che la mentalità laica, razionalista e positivista, sia largamente penetrata nella cultura cattolica «alta» e si sia solidamente insediata presso i vertici della gerarchia; mentre la devozione popolare rimane tuttora disponibile all'apertura verso il soprannaturale nella realtà quotidiana, di cui le manifestazioni carismatiche sono il segno visibile.
In un certo senso, è come se si configurasse l'esistenza di due Chiese: una gerarchica, imbevuta di cultura laica, sospettosa verso ciò che devia dalla norma; ed una assembleare, legata alla tradizione, aperta alle manifestazioni soprannaturali della Chiesa invisibile, ossia all'azione di grazia dello Spirito Santo.
C'è bisogno di ricordare che anche Bernadette Soubirous, inizialmente, non venne creduta nemmeno dal proprio parroco (che poi divenne un suo strenuo difensore); e che l'autenticità dei carismi di Padre Pio venne pienamente riconosciuta dalla gerarchia ecclesiastica  soltanto dopo la morte di lui?
A questo punto, ci sembra di poter dire che quello che è in gioco, è l'accezione del concetto stesso di «carisma», nei suoi riflessi sull'andamento della vita ecclesiale.
Il termine «carisma» deriva dal greco χάρις, che, originariamente, significa «dono», ma poi, in ambito cristiano, passò a significare «grazia» e quindi, nel Nuovo Testamento, designa sia la salvezza portata agli uomini da Dio per mezzo di Gesù Cristo, sia il dono di una vita spesa al servizio del prossimo. Il credente che riceve il dono della salvezza, ossia il carisma della grazia, era invitato a distribuire i doni che da essa derivano.
San Paolo elenca questi doni, che il credente ha ricevuto da Dio e che è, a sua volta, esortato a  diffondere, per amore dei fratelli (nella Prima Lettera ai Corinzi, capitolo 12; e nella Lettera ai Romani, capitolo 12). Si tratta dell'apostolato, della guarigione,  della profezia, della glossolalia (conoscenza soprannaturale di lingue straniere), dell'esorcismo, nonché della fede medesima, considerata anch'essa come dono gratuito di Dio.
In 1 Cor. 12, 4-11, l'Apostolo delle genti così si esprime:

«Ci sono diversi doni, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono vari modi di servire il Signore, ma uno solo è il Signore. Vi sono molti tipi di attività, ma chi muove tutti all'azione è sempre lo stesso Dio. In ciascuno, lo Spirito si manifesta in modo diverso, ma sempre per il bene comune. Uno riceve dallo Spirito la capacità di esprimersi con saggezza, un altro quello di parlare con sapienza.  Lo stesso Spirito ad uno dà la fede,  a un altro il potere di guarire i malati. Lo Spirito concede a uno la possibilità di fare miracoli, e a un altro il dono di essere profeta. A questo dà la capacità di distinguere i falsi spiriti dal vero Spirito, a quello il dono di esprimersi in lingue sconosciute, e a quell'altro ancora il dono di spiegare tali lingue. Tutti questi doni vengono dall'unico e medesimo Spirito. Egli li distribuisce a ognuno, come vuole.»

Si tratta, perciò, di sapere se la Chiesa istituzionale odierna riconosce ai carismi la stessa funzione che ad essi riconosceva la Chiesa delle origini; se è tuttora disposta confrontarsi, non solo a livello teologico, ma anche a livello pratico e immediato,  con la sfida del soprannaturale; se crede ancora nella funzione profetica, che, attraverso l'azione dello Spirito Santo, si esplica per voce di singoli credenti, come un possente squillo di tromba che - per usare le parole di San Paolo - viene pur sempre dall'unico Spirito di Verità.
È chiaro - lo abbiamo già rilevato - che esiste il rischio di confusioni, di eccessi, di fraintendimenti,  che possono turbare le coscienze dei fedeli.
Ma è altrettanto chiaro, ci sembra, che un arroccamento della gerarchia su posizioni di diniego preconcetto recherebbe con sé un pericolo non certo meno esiziale per la vita ecclesiale: la dispersione di quanto più prezioso, unico e benefico, la grazia divina possa elargire alle comunità, per mezzo dell'opera dei singoli fedeli.
La gerarchia, pertanto, non dovrebbe mai smarrire il senso di quella solenne dichiarazione di Gesù Cristo, tramandata da Matteo, 18, 19-20:

«E ancora, vi assicuro che se due o tre di voi, in terra, si troveranno d'accordo su ciò che debbono fare e chiederanno aiuto nella preghiera, il Padre mio che è un cielo glielo concederà. Perché se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro.»