Stato e dissoluzione
di Eugenio Orso - 20/04/2009
La prefazione alla prima edizione di Stato e rivoluzione di Lenin si apre con le seguenti parole:
Il problema dello Stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico.[1]
Era l’epoca dell’affermarsi del capitalismo monopolistico di stato, secondo il Lenin teorico, e l’organizzazione statuale non solo sembrava salda e autorevole, se non decisamente autoritaria, ma rappresentava una fonte di oppressione nei confronti delle masse lavoratrici.
Un’epoca lontana da questo presente, talmente lontana dalle dinamiche del potere che tutti noi scontiamo che persino l’intero impianto teorico leninista – il più significativo e ponderoso della storia del comunismo novecentesco, dopo le opere di Marx e Engels – sembra perdere in buona parte il suo valore.
Sempre secondo Lenin, la società classista si rifletteva nell’organizzazione statuale e la classe dominante dell’epoca – quella borghesia ottocentesca che da tempo è in via di estinzione – ne utilizzava le strutture per realizzare l’oppressione e risolvere a suo favore il conflitto con i subalterni.
Se lo stato era nato per risolvere il conflitto fra le classi e la sua genesi è anche il frutto della necessità di frenare tali antagonismi, lo stesso era diventato in quella fase storica inevitabilmente strumento della classe dominante per affermare il suo potere politico, oltre che economico.
Strumento di oppressione del proletariato e di manifestazione di potenza verso l’esterno, l’organizzazione statuale era da concepirsi, quindi, come un munito fortilizio che doveva essere espugnato in armi per rendere possibili cambiamenti epocali, e per questo la via della rivoluzione sembrava l’unica strada percorribile.
L’attacco allo stato, la presa di possesso dei suoi centri di potere e dei suoi simboli sembrava indispensabile per detronizzare definitivamente la classe che aveva sconfitto i re, gli aristocratici e il clero, e con loro il vecchio ordine.
Il canone marxista si era ormai formato, come accadde per il canone della chiesa in seguito ai primi quattro, travagliati concili ecumenici dell’era cristiana, e i tempi sembravano maturi per il definitivo assalto allo stato borghese[2].
Richiamandosi a Engels, Lenin nell’opera citata discute il cruciale problema della scomparsa dello stato – che tanti tragici equivoci e tante vane attese ha generato nel mondo marxista e comunista del secolo scorso – anzi, della sua futura estinzione in contrapposto all’anarchica abolizione dello stesso, e questo in seguito alla vittoria del proletariato, agli effetti della scomparsa delle classi sociali e della statalizzazione dei mezzi di produzione.
Lo stesso Lenin avvertiva, però, che l’estinzione dello stato non poteva avere significato di un cambiamento vago, lento e graduale, senza lotte e senza innesco del processo rivoluzionario, funzionale – a quel tempo e a detta del “Capo” più illustre dei comunisti novecenteschi – esclusivamente ai disegni borghesi [e revisionisti, mi permetto di aggiungere].
Oggi, invece, per altre vie e sulla base degli interessi privati dei Signori della mondializzazione, lo stato, nella veste liberaldemocratica comune in occidente ma esportabile nel resto del mondo con nuove forme di colonizzazione o con l’uso del tradizionale strumento della guerra, funzionali alla diffusione del mercato planetario e del turbocapitalismo, da tempo è avviato sulla strada di un progressivo e vistoso ridimensionamento delle competenze, trasferite altrove, della definitiva perdita di sovranità [quella monetaria, per fare un esempio eclatante] rischiando di scivolare, seppur lentamente e nella migliore delle ipotesi se la presente crisi sistemica rientrerà almeno in parte, verso l’estinzione.
Da un’altra prospettiva, si tratta della crisi profonda e senza soluzioni della democrazia di matrice liberale, fondata sulla rappresentanza, che caratterizza anche la forma-stato italiana.
E’ bene ricorrere, a tale proposito, alle chiare parole di un “vecchio” liberale intellettualmente onesto che ha meditato sull’argomento, quale è senza dubbio Ralf Dahrendorf:
Questo è il cuore del problema. Le decisioni stanno emigrando dal tradizionale spazio della democrazia. […] Decisioni di vitale importanza non sono più assunte a Montecitorio, o a Westminster, e neanche in Capitol Hill, ma altrove. Per i paesi che hanno adottato l’euro, i tassi di interesse sono stabiliti a Francoforte. Se due grandi industrie vogliono fondersi, devono chiedere il permesso a Bruxelles. La decisione di bombardare Belgrado è stata presa dalla NATO. […] Questo complesso di decisioni, prese al di fuori del processo democratico, fanno oggi apparire la democrazia totalmente impotente. La disponibilità universale e immediata di informazioni, che è la vera essenza della globalizzazione, consente di by-passare le istituzioni tradizionali della democrazia. Ciò solleva domande di enorme rilievo. Sempre le solite tre: come possiamo far valere gli interessi della gente coinvolta da queste decisioni? come possiamo controllarle con un sistema di check and balance? come possiamo assicurarci che la scena internazionale non sia permanentemente dominata da un piccolo gruppo di detentori del potere?La mia tesi è che questi interrogativi rimangono attuali e sul tappeto, ma che le risposte sono scomparse. Oggi non è più possibile dire che la democrazia e le sue istituzioni sono la risposta.[3]
Dahrendorf pone, in effetti, alcuni problemi rilevanti – il processo decisionale al quale il popolo di fatto non partecipa, essendone stato espropriato, il bilanciamento fra i poteri istituzionali e il controllo degli stessi, la concentrazione di tutto il potere effettivo in poche mani – per i quali non vi sono soluzioni rintracciabili nel corpo teorico liberale e liberaldemocratico.
Tornando per un attimo a Stato e rivoluzione, in cui Lenin richiama il Marx della critica senza appello al parlamentarismo, non possiamo non notare come l’istituzione parlamentare, calata nella nostra realtà, abbia degli inquietanti punti in comune con il parlamento della vecchia borghesia che contribuiva ad opprimere i subalterni, soltanto che oggi i parlamenti – a partire da quello europeo – oltre ad essere sempre più “svuotati” di contenuti e sempre meno rappresentativi delle istanze popolari, fanno riferimento a lobby e gruppi di potere che con la vecchia borghesia di Marx centrano poco e ne tutelano gli interessi, particolarmente qui, in Italia, dove le liste sono “blindate” e gli eletti decisi a tavolino da chi controlla i cartelli elettorali.
L’ingegneria istituzionale si sforza, nel presente, di “riposizionare più in basso” uno stato liberaldemocratico chiaramente in crisi, nelle sue funzioni fondamentali e nei delicati aspetti – mai risolti, in verità – del controllo, del bilanciamento fra poteri, della rappresentanza.
Nella più recente esperienza italiana, per fare un esempio, abbiamo avuto modo di notare come il conflitto fra i poteri assuma talvolta le tinte fosche di una guerra fra bande rivali, con il ministro della giustizia del secondo esecutivo di Prodi – Clemente Mastella – che rassegnava in parlamento le dimissioni perché indagato dalla magistratura assieme alla consorte, raccogliendo gli applausi e la solidarietà di gran parte dell’agone politico, compresa buona parte dell’opposizione di centro-destra[4].
Tutto ciò ben testimonia l’irriformabilità di questa democrazia liberale, che rischia di trascinare nel baratro popolo e istituzioni, e porta a concludere che le soluzioni ci sono, in realtà, ma devono essere cercate al di fuori.
Gli anni novanta dello scorso secolo e i primi anni del duemila ci mostrano un quadro in cui le istituzioni statuali liberaldemocratiche sono finite sotto il controllo di poteri esterni, di natura privata, che attraverso i loro camerieri politici locali e i trattati siglati frettolosamente – come quello dell’Organizzazione Mondiale del commercio – hanno favorito il trasferimento del processo decisionale, in relazione a materie di cruciale importanza economica, finanziaria e sociale, nelle sedi più lontane, che sfuggono a qualsivoglia controllo pubblico e popolare.
Non si tratta più delle sole politiche monetaria e dei tassi, o delle famigerate “quote latte” imposte dalle istituzioni sopranazionali europee, ma anche della politica alimentare nel suo complesso.
In Italia, da troppo tempo sentiamo il peso delle imposizioni della Unione Europea, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, che letteralmente stroncano – fungendo non di rado da alibi e da schermo per una classe politica debole, incompetente, corrotta e asservita – qualsiasi possibilità di affrontare con le risorse pubbliche le drammatiche e ponderose questioni sociali che abbiamo davanti.
Dinanzi al dilagare della disoccupazione e della cassa integrazione, non infrequentemente anticamera della perdita del posto di lavoro, le remote autorità europee raccomandano ancora [e, nel concreto, impongono] “moderazione salariale”, “controllo dei conti pubblici” ed altre amenità anti-sociali di questo tipo, mentre i sistemi sanzionatori previsti per gli inadempienti fanno il resto.
I governi nazionali si adeguano sempre alle direttive, in buona sostanza, non ultimo quello italiano in carica.
Si può “sforare” il rapporto deficit/ P.I.L., idealmente stabilito in passato al tre per cento, ma, per restare “virtuosi”, solo di qualche decimale di punto, chiaramente insufficiente al fine di poter reperire nuove risorse a sostegno delle industrie in crisi e per alimentare i così detti ammortizzatori sociali, estendendo l’azione pubblica di soccorso anche a fasce di popolazione non protette.
Davanti alla crisi, lo stato sembra essere come una vecchia tigre dagli artigli spuntati, perché non ha più la forza d’intervenire con misure risolutive a soccorso del sistema produttivo – che in fondo dovrebbe ancora rappresentare una forma di proiezione di potenza verso l’esterno, oltre che fonte di sostentamento e lavoro per la popolazione – niente di più della pallida ombra di quella aggressiva costruzione statuale che era saldamente nelle mani, secondo il Lenin di Stato e rivoluzione, del capitalismo monopolistico.
Se interviene, lo fa con palliativi, in modo volutamente frammentario, aggirando le spinose questioni della necessità delle nazionalizzazioni a tappeto [a partire dalle banche private, naturalmente] quale primo passo che potrebbe portare da una vera socializzazione, dell’intervento diretto in campo economico come ai tempi dell’IRI, sostituendosi così ad un fallimentare e troppo “finanziario” privato, e del recupero – irrinunciabile in tali frangenti –di una piena sovranità monetaria.
Quando Berlusconi e il suo super ministro del tesoro, Giulio Tremonti[5], si vantano di aver soccorso i livelli medio-bassi di reddito in difficoltà, abolendo l’ICI sulla prima casa, oppure di aver avviato a risoluzione il problema degli “incapienti” con l’elemosina della social card, sono in aperta malafede e perfettamente coscienti della loro impotenza – se non anche della mancanza di volontà d’intervenire seriamente – davanti al disagio sociale che dilaga, perché la sostanza e le dimensioni delle manovre necessarie per affrontare l’emergenza sociale in corso devono avere il placet dei citati organismi sopranazionali, rappresentanti degli interessi di settori della classe globale ben più forti e invasivi di quelli espressi dal gruppo di potere berlusconiano.
In Italia, la politica indigena ha raggiunto da tempo un compromesso con l’invasiva Global Class dopo l’orchestrato sfascio di Tangentopoli e la “purga” di Mani pulite, scambiando i pezzi pregiati dell’industria pubblica e facendosi portatrice di politiche liberiste e globalizzanti – delle quali esempi qualificanti sono la riforma delle pensioni di Dini e l’introduzione del precariato, con la legge Sacconi e il pacchetto Treu – in cambio del mantenimento e dell’estensione dei propri privilegi, nelle fasi economiche espansive, o comunque non di crisi in un paese che dall’inizio degli anni novanta non cresce più, ed anche nelle contingenze molto negative come quella attuale.
La riduzione dell’autonomia e delle reali competenze del vecchio stato nazionale in salsa liberaldemocratica, in un periodo di aperta e crescente difficoltà, e il duplice peso che grava sulla schiena della maggioranza della popolazione italiana, rappresentato dall’esercito degli “occupati” in politica e dagli appetiti dei Signori della mondializzazione che manovrano dal remoto, rischiano di diventare intollerabili e di provocare un’estesa protesta, che potrà assumere forme e seguire strade al momento attuale imprevedibili.
Ciò che deve essere chiaro a tutti è che questa combinazione esplosiva di progressiva impotenza delle istituzioni statuali ad affrontare positivamente i problemi concreti – dalle infrastrutture alla scuola pubblica, dalla disoccupazione di massa al costo delle utenze domestiche – e di pressione di grandi interessi privati che si appropriano, direttamente o indirettamente, delle risorse collettive[6], potrà comportare un esito diverso da quello ipotizzato fino allo scadere della metà di questo decennio.
Non la “scomparsa” dello stato liberale in un orizzonte temporale di lungo periodo, sostituito progressivamente nelle sue funzioni e competenze da una sorta di governo mondiale oligarchico – come era e potrebbe essere ancora nelle intenzioni di alcuni settori americani e occidentali della classe globale – ma la sua dissoluzione in tempi brevi e con il rincrudire della crisi, sotto la spinta di distruttivi riots ed estese insurrezioni spontanee che mineranno le stesse basi del vivere civile.
Il rischio di una deriva inarrestabile non potrà non riguardare anche l’Italia della falsa pax berlusconiana, della decadenza dello stato di diritto e dei forti squilibri fra i gruppi sociali, se non sorgerà in questo paese una vera opposizione politica e sociale organizzata, al di fuori del circuito sistemico e della claque parlamentare liberale e democratica, in grado di contenere e indirizzare positivamente, nel senso della costruzione del nuovo, la rabbia e la disperazione dei nuovi e dei vecchi esclusi.
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[1] Scritto nell’agosto-settembre 1917 e pubblicato per la prima volta in opuscolo nello stesso anno.
[2] A differenza dei cristiani – giunti al potere con il vittorioso Costantino, quando erano ancora una minoranza a rischio di repressione – i quali stabilirono regole, dogmi e libri ammessi in funzione del mantenimento e del consolidamento del potere esercitato in seno all’impero, nel caso del comunismo novecentesco di matrice marxista, prima è stato definito il canone, in particolare ad opera di Engels e Kautski interpretando a volte liberamente o “adattando” il pensiero originale di Marx, e poi vi è stato l’accesso al potere, in un solo paese, come conseguenza della rivoluzione russa.
Uno svantaggio non da poco, a ben vedere, che non è estraneo alla breve durata del “socialismo realizzato” in Unione Sovietica, se la confrontiamo con il respiro bi-millenario della Chiesa di Roma e la diffusione del cristianesimo.
[3] Ralf Dahrendorf, Dopo la democrazia. Intervista a cura di Antonio Polito, Editori Laterza, Prima edizione 2003
[4] Siamo ormai abituati al degradante spettacolo di una magistratura che cerca di influire pesantemente sul quadro politico e sugli equilibri parlamentari attraverso le inchieste, le fughe di notizie e gli avvisi di garanzia, di una politica che risponde cercando di mettere il morso ai giudici e tutto questo mentre centinaia di migliaia di cause, in cui attori e convenuti, denunciati e parti civili non contano perché anonimi cittadini, languono nel dimenticatoio dei ritardi, dell’incuria, dei rinvii e delle prescrizioni.
La stessa “guerra fra le procure” alla quale abbiamo assistito nel 2008, quale episodio di conflitto fra politica degli affari e magistratura dei privilegi e fra le stesse componenti della magistratura, non è che l’avvisaglia di un generale scollamento istituzionale e di un malcostume incancrenito che potrà essere definitivamente risolto soltanto con un cambio di sistema e una “pulizia” generale.
[5] Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l’imprevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni. [Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Mondatori, Prima edizione del marzo 2008]
Con ogni evidenza e date le misure anti-crisi messe in campo dal governo Berlusconi, del quale Tremonti è il ministro più importante oltre ad essere raffinato scrittore, sembra ormai chiaro a tutti che questo ultimo ha definitivamente ceduto alle minacce – e forse alle lusinghe – dei demoni.
[6] Concedendo “vitto e alloggio” alla politica di professione che li serve – come accade con tutta evidenza in Italia, in cui il fenomeno è macroscopico – e di riflesso ai questuanti legati ai gruppi politici e alle loro burocrazie.
A tale proposito si veda Il costo della democrazia [Cesare Salvi e Massimo Villone, Mondatori, II edizione del 2005], nel quale i due autori, all’epoca senatori e dunque non “sovversivi” ma uomini di sistema a tutti gli effetti, tirano le somme, con tabelle e numeri alla mano, per quantificare l’esercito di “occupati” in politica nel nostro paese e i costi che generano.
Dai parlamentari europei ai consiglieri delle comunità montane, comprendendo nel novero anche i destinatari di incarichi e consulenze nel settore pubblico allargato, il totale che Salvi e Villone presentano ai lettori è di ben 427.889 unità, con un costo complessivo annuo stimato, per l’epoca, fra i tre e i quattro miliardi di euro.
Possiamo agevolmente supporre che una sorta di “tendenza naturale espansiva”, se lasciata libera di esplicare i suoi effetti, porterebbe a superare di molto l’intollerabile e ingiustificata soglia del mezzo milione di unità, con un’ulteriore proliferazione dei costi di “vitto e alloggio” nel pieno della crisi.
Un plauso a chi, pur facendo parte della politica sistemica, non è riuscito a far tacere la propria coscienza.