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L’equivoco del “razzismo”

di Matteo Pistilli - Luca Rossi - 18/05/2009

 

In tempi di crisi, economica e non, in cima all’ordine del giorno vi è il “pericolo razzismo”. Sia coloro che  muovono il j’accuse contro un presunto ritorno alle “Leggi razziali” promulgate nel ’38, sia coloro che inneggiano alla “difesa etnica”, convergono nella centralità del fattore “appartenenza etnica” nei rapporti sociali. Questa convergenza è perfettamente integrata nel prospettiva dello “scontro di civiltà”, teorizzata in ambienti della “intellighenzia” statunitense e  funzionale all’espansione dell’area economico-politica egemonizzata dagli Stati Uniti. Dai recenti fatti di cronaca si può constatare che il fenomeno su cui si consumano ettolitri di inchiostro e ore di noiosissime trasmissioni, in realtà non è specchio di un pregiudizio di carattere razziale, ma un genere di xenofobia fisiologica nel sistema occidentale imperniato su una visione del mondo materialista, nel quale si usa come criterio di giudizio nei confronti delle persone l’esteriorità (“indossa il chador o no?”; “Porta la minigonna o è coperta sino alle caviglie?”) che esprimerebbe la presunta “integrazione” e la connessa posizione sociale.

Prendiamo come esempio un’aggressione avvenuta a Roma da parte di alcuni italiani nei confronti di un africano, il quale non ha subito insulti e percosse per il fatto di essere straniero, ma per lo status di “morto di fame” che non consentirebbe a quest’ultimo di possedere l’auto alla “moda” (anche questo gli è stato ululato contro), a basso consumo e in grado di correre follemente sulla strada provinciale per poi stamparsi puntualmente contro un palo della luce o un albero. Individui infastiditi dalla presenza di uomini e donne che non raggiungono gli standard di benessere economico e di “stile di vita” dell’Europa “occidentale”, quindi da disprezzare, odiare, perché non rientrano nei parametri culturali imposti dalle multinazionali.  Tutto è riconducibile al paradigma di civilizzazione occidentale (di matrice americana) che nega a priori gli altri modelli, non li assorbe né li integra, semplicemente li distrugge (o con me o contro di me!).

Esemplare la vittoria nella popolare trasmissione “Il Grande Fratello” conseguita da un ragazzo di etnia Rom, grazie al televoto (1 euro ogni sms, mica scemi eh…) di un numero consistente di italioti, per lo più giovani, gli stessi contro cui si scagliano i media, sì, quelli che bruciano il barbone, insultano lo zingaro, deridono la ragazza col velo. Magia! Il Rom con la polo, educato e innamorato viene premiato perché si è “rinnovato”: non è più come quelli che vedi al semaforo o davanti ai supermercati, è “come noi”! Qui la razza o l’etnia c’entra poco o nulla, poiché se fosse così, rimarrebbe ciò che è, uno zingaro, perciò verrebbe escluso, punto e basta.  Nella società-delirio del melting pot, se sei bravo ad uniformarti, ad essere come la massa d’ignavi che popolano discoteche, vestono griffato e mangiano porcherie, puoi essere accettato e diventare famoso (non importa la tua identità, ci sarà sempre un giornalista pronto a mostrare all’opinione pubblica come sei “civile”, “occidentale”), sennò finisci nel girone infernale degli incolti, retrogradi, barbari, reazionari, fascisti, comunisti ecc. Dov’è quindi la “società multirazziale”? Solo nei discorsi pubblici delle autorità (!?) politiche e nella retorica dei media. È eterea. Non esiste alcun interesse a realizzarla, sennò perché si è garantito l’ingresso a milioni di persone? Forse per “preservarne l’identità”? No! È solo altra carne da macello, nelle fabbriche, nei cantieri, come cavie per prodotti chimici. Per favorirne l’inclusione è necessario alimentare la xenofobia, anch’essa artificiale (come il succo d’arancia 20% di frutta), con un messaggio chiaro: “Sei entrato nel mio territorio, qui comanda Zio Sam, lascia perdere la tua cultura e la tua lingua, diventa come me, sarai un perfetto “cittadino del mondo”, però continua a proliferare, ho bisogno di incrementare le nascite, perché l’italiano ha optato per l’etnocidio. L’Italia (quella sulla cartina geografica, non la Patria) ha bisogno di poveri senza diritti che facciano i lavori che i datori di lavoro vogliono pagare sempre meno, cancellando dignità ed etica (alcuni lavori sono fatti da immigrati proprio perché costretti ad accettare livelli di vita ai margini della sopravvivenza). Capisci? Tu non sei altro che una voce di bilancio, una cifra da addizionare o sottrarre, puoi servire sino a quando rientri nel quadro, sennò sei fuori. Lascia perdere l’indignazione degli intellettuali, lo sdegno della comunità internazionale, lo scalpore dell’opinione pubblica… la realtà sta nel puro interesse economico e nel perpetuare l’egemonia degli Usa sulla tua terra”.

È dunque chiaro come i discorsi degli attori politici americanizzati si equivalgano anche quando sembrano in contrasto reciproco: proprio in questi giorni il Presidente del Consiglio Berlusconi, spalleggiato dalla Lega Nord, si dice “contrario alla società multirazziale”. Ma quale “società multirazziale”? Ci sembra utile ripetere che quella che ci viene propinata come tale, altro non è che una società monoculturale, tutta uniformata dallo stile di vita Usa (neanche bisogna citare le esperienze personali che Berlusconi incarna, per esempio, con la squadra di calcio dell’AC Milan, piena di stranieri di ogni provenienza, tutti uniformati dalle logiche dell’intrattenimento) [1].

Dello stesso tenore, ma dal versante cosiddetto opposto, sono i concetti avallati dalle “sinistre”: l’immigrazione per esse è necessaria per “coprire posti di lavoro” e per darci i figli che “non si fanno più”, ed il motivo è tutto “culturale” visto che gli immigrati sono più poveri. Allora, in definitiva, cosa ci dicono le “sinistre”? Che per “preservare il nostro stile di vita” abbiamo bisogno di masse di sfruttati! Ma lasciamo la parola direttamente a Benjamin Barber, ex consigliere di Clinton, politologo della “democrazia partecipativa” e della “interdipendenza”, un vero e proprio campione delle “sinistre” mondiali che sull’Unità dell’11 maggio ha rilasciato un’intervista a G. Bertinetto per difendere l’immigrazione e che è stato ripreso con grandi elogi addirittura nell’editoriale del giornale: “La logica dell’immigrazione è economica.[…] L’economia globale richiede una forza lavoro mobile. […] Non è vero poi che portino via il posto ai già residenti. Vengono a svolgere i lavori offerti dal mercato”.

Appunto, il “mercato”. C’è da aggiungere altro?

 

 

[1] Luca Rossi, Realizzare la società multirazziale come risposta al melting pot: http://www.cpeurasia.org/?read=23684&