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I popoli si liberano dalle dittature quando son loro a volerlo, non quando piace ai circoli liberali

di Francesco Lamendola - 21/05/2009


 liberal_moron.jpg image by cwillow894

Sì, lo vedo, Sabina: questa volta ti ho fatta proprio arrabbiare.
Non ti è andato giù che io abbia definito la democrazia un sistema politico come un altro, con i suoi pregi e i suoi difetti; il quale, se può dare discreti risultati in determinati tempi e luoghi, non è però esportabile indiscriminatamente, specie in quelle parti del mondo che hanno costruito dei percorsi storici molto diversi da quello dell'Occidente.
Né hai digerito il fatto che io abbia affermato che la democrazia, come ogni altro sistema di governo, deve essere storicizzata, poiché essa è il risultato di un determinato sviluppo politico, economico, sociale e culturale dell'Occidente, ma non è l'Alfa e l'Omega della storia umana, verso cui tutto il mondo debba incamminarsi quanto prima.
Forse perché sei rimasta colpita dalle vicende della leader democratica Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, che proprio in questi giorni sta subendo un grottesco processo da parte della giunta militare birmana: ufficialmente per violazione degli arresti domiciliari (aveva ricevuto la visita di un americano di religione mormone, tale John William Yethaw, giunto a casa sua nuotando attraverso le acque di un laghetto); ma, in realtà, per toglierla di mezzo politicamente, alla vigilia di un referendum che dovrebbe perpetuare, attraverso un cambiamento puramente formale, il proprio potere.
Come posso definire la democrazia un sistema politico come un altro, mi domandi, se per essa sono pronte a dare la vita persone belle e generose come Aung San Suu Kyi? Non mi sembra di essere stato un po' troppo cinico, mi chiedi?
Poi, contesti alla radice il mio ragionamento sul fatto che il pensiero democratico si basa su una duplice aporia di fondo: su un errore antropologico, perché esso ipotizza una uguaglianza non solo morale, ma anche di capacità e di attitudini, degli esseri umani; e su un errore psicologico, perché suppone, a torto, che gli uomini tendano, per loro natura, alla verità e alla libertà.
Tu mi contesti che, invece, secondo te, i diritti di cui la democrazia si fa portabandiera, sono veramente diritti naturali e inalienabili; e, accusandomi di simpatizzare implicitamente per i peggiori movimenti reazionari, come quello della Vandea nel 1793, contesti la mia affermazione che quei diritti non sono affatto naturali, così come non è affatto naturale la democrazia.
Partiamo dalla obiezione di fatto; poi passeremo a quella di principio.
Dunque, cominciamo con il dramma del popolo birmano oppresso da una brutale cricca di militari che disprezzano la democrazia, tanto è vero che stanno perseguitando in modo pretestuoso, in spregio ai sentimenti dell'opinione pubblica mondiale, Aung San Suu Kyi e la sua Lega Nazionale per la Democrazia.
Premetto che quel Paese, fin dal 18 giugno 1989 (cioè da vent'anni giusti) ha deciso di sostituire il proprio nome, ricevuto dai colonizzatori inglesi, di Burma (in italiano, Birmania), per assumere quello di Myanmar: e il fatto che più o meno tutti i media occidentali continuino a chiamarlo con il vecchio nome la dice lunga sull'arroganza etnocentrica non solo degli ex dominatori britannici (i quali, poveretti, dovendo gestire un impero che ricopriva un quarto delle terre emerse, era già tanto se ricordavano la denominazione che avevano assegnato alle sue sterminate province), ma anche della democratica e liberale opinione pubblica occidentale, la quale nemmeno sembra accorgersi dell'arroganza intellettuale con cui si pone davanti a vicende come questa.
Ma entriamo nel merito.
Vuoi sapere se faccio il tifo per Aung San Suu Kyi e se mi auguro la fine del regime di dittatura militare che grava su quel Paese del sud-est asiatico? Certo che sì; solo, ho paura quando i media occidentali orchestrano le loro moralistiche campagne contro questa o quella dittatura (moralistiche, perché, fino a quando le dittature servono gli interessi dell'Occidente, nessuno le trova scandalose: e così è stato anche per Saddam Hussein prima maniera, per chi non abbia la memoria corta), allora sento odore di guerra.
Oh, per carità: guerra umanitaria, guerra sacrosanta, guerra per por fine a tutte le guerre, alla fame, al sottosviluppo, e chi più ne ha, più ne metta. Non si disse che anche la guerra degli Stati Uniti d'America contro l'Afghanistan era una guerra «gentile», nobile, disinteressata, dove gli aerei non sganciavano bombe, ma sacchi di generi alimentari? Ma insomma sempre guerra; e, oltre a mietere un numero impressionante di innocenti, non si è mai visto che tali operazioni militari non si siano risolte nel saccheggio spudorato delle materie prime o nell'acquisizione di posizioni strategiche di vitale importanza per i generosi «liberatori».
«Timeo Danaos - Sabina - et dona ferentes»: temo i Greci, cioè i moderni campioni della democrazia muscolare, anche quando portano doni. Questo mi ha insegnato la storia degli ultimi decenni, e finora non ho visto smentita una tale interpretazione dei fatti.
Ricordi il tam-tam che si fece, una quindicina d'anni fa, per preparare l'opinione occidentale all'idea di un «intervento umanitario» in Somalia, e liberare quel paese dalle bande dei signori della guerra? Non passava giorno, che i telegiornali non ricattassero il pubblico con le immagini raccapriccianti dei bambini somali morenti di fame; ma, poi, si è ben visto di che genere fosse l'intervento umanitario voluto dagli Stati Uniti e dalla N.A.T.O., Italia compresa: la quale ultima, come ex potenza coloniale e come ex socio in affari del dittatore Siad Barre ai tempi del governo Craxi, avrebbe pur dovuto vedere un po' più lontano degli altri, in quel dannato pasticcio.
O forse - chissà - qualcuno in Italia ci vedeva anche troppo bene; tanto è vero che Ilaria Alpi e Milan Hrovatin sono stati fatti sparire per sempre, allorché la loro inchiesta sul traffico d'armi con la Somalia stava per farsi un po' troppo imbarazzante.
Hai mai visto, Sabrina, gli Stati Uniti e gli altri Paesi democratici, muoversi contro una dittatura per puro desiderio di liberare dal suo giogo qualche popolo lontano? Credi che il governo dell'emiro del Kuwait, per ripristinare il quale fu scatenata la prima guerra del Golfo, nel 1991, fosse un governo democratico, o, comunque, più democratico di quello iracheno di Saddam Hussein? Era un governo democratico quello del Sud Vietnam, all'epoca del massiccio intervento statunitense in Indocina, o non piuttosto un governo militare corrotto e senza scrupoli? Era un governo democratico quello che i Sovietici rovesciarono, quando invasero l'Afghanistan nel 1979, e per ripristinare il quale gli Americani finanziarono generosamente un certo Osama Bin Laden e i suoi guerriglieri, che allora erano dei «combattenti per la libertà»?
Al contrario, la storia del secondo dopoguerra è piena di episodi in cui le potenze democratiche hanno favorito e installato delle dittature, alcune delle quali particolarmente brutali e sanguinarie, in ogni angolo del globo: dal bestiale gorilla Pinochet in Cile, nel 1973, il cui «golpe» CONTRO il governo democratico di Allende venne finanziato dalla C.I.A.; al cruento macellaio Idi Amin Dada, sponsorizzato dalla Gran Bretagna per cacciare Milton Onbote dal governo dell'Uganda; al delirante cannibale Bokassa, sedicente imperatore dell'Africa Centrale, che da Parigi riceveva, per via aerea, casse di Champagne sotto ghiaccio per brindare ai propri fasti sanguinosi.
E non dimentichiamo il signore e la signora Marcos, nelle Filippine, truci dittatori che hanno oppresso e derubato il popolo filippino sotto l'ombrello compiacente dello Zio Sam; o i generali indonesiani che, all'epoca di Suharto, trucidarono in una notte mezzo milione di comunisti e mandarono a casa il governo democratico del presidente Sukarno. Ma l'elenco potrebbe continuare per pagine e pagine, per cui mi fermo qui.
Infine, mi dispiace farti osservare che l'argomento etico è poco pertinente, laddove sostieni che la democrazia non è un sistema politico qualsiasi, visto che per essa sono pronte a dare la vita belle persone, come Aung San Suu Kyi: perché sappiamo troppo bene che anche i seguaci di regimi non propriamente simpatici sono pronti a fare altrettanto. Possiamo pensare tutto il male che vogliamo delle S.S. naziste, ma non che difettassero di idealismo e di coraggio. Dispiace ammetterlo, forse: ma è così, su questo non si discute.
E quanto alla Vandea, scusami, ma le etichette non mi fanno né caldo né freddo: può darsi che quei contadini fossero, politicamente, dei reazionari; ma si sa cosa hanno fatto i loro «illuminati» avversari del Governo rivoluzionario, al grido di «libertè, fraternité, egualité»: un genocidio senza precedenti, costato un milione di morti.
Veniamo alle tue obiezioni di principio circa i diritti naturali dell'uomo e del cittadino e circa la naturale eguaglianza degli uomini, non solo morale e giuridica (che sottoscrivo), ma anche politica (che rifiuto). E qui è necessario chiarirsi bene sul significato delle parole.
Dico «naturale» una cosa, un costume, un comportamento, i quali siano osservabili in natura, non come eccezione, ma come regola; e dico «non naturale» una cosa che, invece, sia il frutto di una convenzione umana, per quanto - eventualmente - nobile e disinteressata.
Ora, un esame anche frettoloso del mondo della natura, ci mostra che nessun diritto è «naturale» di per se stesso; neanche quello che a noi, figli della tradizione occidentale, sembra (e a ragione) il più sacro di tutti: il diritto alla vita. Nel mondo vegetale e animale non vi è ombra di un tale diritto; e non se ne trova traccia neppure nelle culture umane, compresa quella occidentale, almeno fino agli ultimi tre o quattro secoli. Voglio dire che, se un bambino moriva di infezione o una madre moriva di parto, fino a tre o quattro secoli fa - e anche meno, nella società contadina - nessuno si sognava di gridare allo scandalo; nessuno chiamava la morte una ladra; nessuno agitava i pugni contro Dio: e ciò per la buona ragione che la vita era considerata un dono, non un diritto.
Ma, mi dirai, una cosa è la morte naturale (per malattie, catastrofi, ecc.), un'altra e ben diversa è la morte provocata dalla mano dell'uomo. Certo: ma bisogna vedere se questo secondo genere di morte sia davvero artificiale, nel senso di non naturale. Per affermarlo, bisognerebbe dimostrare che sia le guerre, sia il potere di condannare a morte esercitato dai tribunali, sono fatti innaturali; il che non è affatto semplice come credi.
Ma, al di là di come vogliamo considerare la cosa sul piano filosofico, resta l'evidenza che, sul piano storico, gli uomini non hanno mai visto la morte violenta come qualcosa di innaturale. A Licaone, che gli afferra le ginocchia e lo implora, piangendo, di risparmiargli la vita (nel XXI canto dell'«Iliade»), Achille risponde che tutti devono morire, e gli immerge la spada nel petto, mentre quello ancora lo sta supplicando.
E, se non ti persuade questo esempio, spostiamoci nell'ambito della cultura giudaica, radice del cristianesimo, e vediamo come, nel Pentateuco, la legge mosaica prescriva, senza tanti giri di parole, «occhio per occhio, dente per dente, vita per vita». Uccidere non era cosa che facesse scandalo, così come non lo faceva in Grecia.
Certo, lentamente e faticosamente, la cultura occidentale ha superato queste posizioni e, nel corso dei secoli, è giunta - ma di recente, e non ovunque - all'idea che la vita è sacra in se stessa; di più: che esistono dei diritti fondamentali in ogni essere umano, che andrebbero rispettati sempre e comunque, tra i quali quello di non essere sottoposto a tortura nel corso di una inchiesta giudiziaria (ma vallo a dire a George Bush junior, e a quei milioni di americani che lo hanno eletto la prima volta  - se pure non si è trattato di una frode - e lo hanno rieletto anche la seconda volta, pur sapendo benissimo come la pensava, tanto sulla pena di morte, quanto sul rispetto dovuto ai prigionieri di guerra e sulla dignità intrinseca della persona umana).
Dunque, possiamo arrivare alla conclusione che i diritti della persona non sono affatto naturali, ma storici: sono il frutto, cioè, di una certa evoluzione del pensiero umano; anzi, a essere precisi, di una parte soltanto, e certamente minoritaria, del genere umano.
Questo non significa che li si possa prendere sottogamba o che li si possa revocare, come nulla fosse: nossignore. Anche se ci sono volute alcune migliaia di anni per elaborarli, e diversi secoli per instaurarli, ora essi sono entrati a far parte del nostro bagaglio culturale e spirituale; e, per noi, rinnegarli equivarrebbe a sprofondare volontariamente nella barbarie.
Non dobbiamo, però, cadere nell'ipocrisia di pretendere che essi siano poi così evidenti, dato che noi stessi li abbiamo appresi solo ieri; né in quella forma di arroganza che consisterebbe nel pretendere di imporli, «ipso facto», a tutto il resto del genere umano.
Noi occidentali, ad esempio, ci scandalizziamo per le mutilazioni genitali femminili nel Paesi islamici ove domina la Sharia, e più ancora per la pratica indiana del sacrificio delle vedove sulla pira funebre del marito.
Ebbene, Sabrina, non fraintendermi: anch'io mi auguro che tali usanze vengano abbandonate il più presto possibile; ma non credo che il modo migliore per farlo sia quello di trattare da barbari e da selvaggi quei popoli: proprio noi occidentali che, in anni relativamente recenti, ne abbiamo fatte di tutti i colori, dai campi di sterminio alle bombe atomiche sulle città indifese.
Lo stesso ragionamento vale, a mio avviso, per i diritti politici.
In Svizzera, come sai, fino a non molti anni fa, alle donne veniva negato il diritto di voto: eppure non mi sembra che quel fatto, di per sé, autorizzasse chicchessia a definire i cittadini elvetici come incivili e meritevoli di disprezzo.
So che questo esempio ti farà particolarmente infuriare, ridestando i tuoi ardori femministi: ma questi sono i fatti. Una società può essere civile ed evoluta, eppure non condividere l'idea che tutti i suoi membri possano avere voce in capitolo, in eguale misura, circa la conduzione del governo. Non parliamo dell'uguaglianza giuridica: che tutti i cittadini siano considerati uguali davanti alla legge, è un principio acquisito, nella nostra cultura (anche se non è affatto un principio naturale, nel senso che dicevamo prima): ma votare, essere eleggibili al Parlamento, divenire ministro o capo dello Stato, questa è un'altra faccenda.
Anche se la cosa ti scandalizza, potrei farti un lungo elenco di persone che non riterrei adatte ad esercitare i diritti politici, fra quelle che conosco; ammetto, però, che è un problema estremamente complesso, per non dire insolubile, quello di stabilire i criteri che dovrebbero presiedere all'esclusione o all'inclusione dei cittadini in questione.
Il problema, però, rimane: lo faceva notare già Platone, allorché affermava di non capire come mai il lavoro di fabbricare scarpe sia riservato ai ciabattini, o quello di cucinare i cibi sia riservato ai cuochi, mentre alla conduzione degli affari di governi tutti i cittadini si sentono perfettamente in grado di applicarsi con la necessaria competenza. Misteri della democrazia! Anzi, più che di misteri, qui si dovrebbe parlare di autentici miracoli…
Ad ogni modo, stiamo attenti a non demonizzare gli altri sistemi politici. Gli Svizzeri non erano degli Orchi, benché negassero il diritto di voto alle loro mogli e alle loro figlie; e non credo, onestamente, che quel diniego avesse il significato di un disprezzo generalizzato, quanto piuttosto del riconoscimento di una distinzione dei ruoli tra il genere maschile e il genere femminile. Si può non condividere questo punto di vista, ma non lo si deve nemmeno drammatizzare.
Allo stesso modo, non è detto che i sistemi di governo non democratici siano, di per sé, malvagi e criminali: malvagità e crimini possono essere perpetrati sia sotto le bandiere dei totalitarismi, sia sotto quelle delle democrazie. Certo, in queste ultime esiste un controllo sul governo - almeno teorico - che, in quelli, manca, per definizione; ma ciò non vuol dire che le democrazie vadano immuni dalla tentazione di calpestare i diritti fondamentali della persona. Ti ricordo, Sabina, che negli Stati Uniti d'America la pena di morte è voluta e approvata dalla stragrande maggioranza della popolazione: come lo è nel poco democratico Iran e nella poco democratica Cina.
Mi chiederai, arrivati a questo punto, che cosa mi aspetti o che cosa mi auguri dal futuro.
Te lo dico subito: mi attendo e mi auguro qualche cosa di più e di meglio della democrazia; non qualche cosa di meno e di peggio.
Non ho alcuna simpatia per i militari birmani, né per gli ayatollah iraniani; e nemmeno per i Talebani dell'Afghanistan.
Ma non ho simpatia nemmeno per i Crociati della democrazia, specialmente quando scatenano guerre con una ipocrisia che è pari solamente alla loro arroganza: perché sappiamo bene tutti quanti che, a quei signori, poco o nulla importa dei diritti dell'uomo, e molto, invece, importa del petrolio e delle quote di mercato… specialmente nel settore della ricostruzione edilizia e industriale, dopo che loro stessi hanno distrutto, a suon di bombe «liberatrici» (qualcosa ne sappiamo anche noi Europei, dopo il passaggio delle «fortezze volanti» nel 1942-45), case, fabbriche, strade e ponti.
Credo che ogni popolo si debba liberare da solo dei propri governi, nel momento in cui matura la convinzione che essi sono iniqui e che non rispondono al bene dei rispettivi Paesi. I circoli «liberal», governi e media compresi, possono pensare quello che vogliono; possono simpatizzare, anche, per la causa della libertà e dei diritti umani: ma non altro.
La grande sfida del terzo millennio sarà, appunto, la ricerca di un sistema politico che oltrepassi la democrazia, ma con umiltà e flessibilità: che non si ponga, cioè, come il punto d'arrivo obbligato, inesorabile e uniforme, per tutte le società umane.
Perché anche la migliore forma di governo, quando viene imposta con la forza, risulta odiosa e suscita più contraddizioni di quelle che, eventualmente, sarà in grado di appianare. E questo principio si applica anche alla democrazia, esattamente come si applica a qualsiasi altra forma di governo.
Questo, almeno, è quanto ho imparato dalla riflessione sulla storia recente e sui grandi miti, più o meno «progressisti», delle ideologie politiche ottocentesche e novecentesche.
Te lo raccomando, del resto, quel genere di «progresso» che avanza a colpi di genocidio: come è avvenuto in Vandea nel 1793, nella collettivizzazione forzata delle campagne russe all'epoca di Stalin, o con la Rivoluzione culturale cinese, o - ancora - nella Cambogia dei Khmer rossi di Pol Pot…
Eppure, non è forse vero che ciascuno di quei governi era nato sul fondamento, almeno all'inizio,  di una pretesa genericamente democratica, e sull'affermazione dei sacri diritti «naturali» dell'uomo, a cominciare da quello di emanciparsi dallo sfruttamento del proprio simile?
Vale atque vale, Sabina; conserva te mihi.