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Gatti romani, suini messicani. Il litigio con la realtà

di Alessandro Giuliani - 21/05/2009

Fonte: benecomune

Nel giardino del mio Istituto, inaspettatamente amena oasi di pace nella confusione, di quelle che solo Roma sa offrire, mi è caduto l’occhio su un superbo esemplare di gatto.  La sua andatura sbilenca , il pelo a chiazze, un orecchio mezzo mangiato parlano di una vita da strada dura e gloriosa, fatta di battaglie e amori, adesso il micione si è ritirato a finire la sua esistenza in un luogo tranquillo e confortevole ma ha ancora nello sguardo la fierezza del guerriero e offre solo un minimo appiglio alle smancerie di “gattare” e “gattari” occasionali.

Questi incontri, un tempo frequenti nella mia città, sono diventati sempre più rari, una politica ‘illuminata’ straordinariamente pomposa ed autoreferenziale ha prima chiamato ‘oasi feline protette’ i luoghi da secoli a maggior densità di gatti (I ruderi di piazza Argentina, Villa Celimontana, i Fori…), poi ha provveduto, su spinta di sedicenti amanti dei gatti alla castrazione degli stessi (così da non creare problemi di sovraffollamento) ed ha infine reso ufficiale il ruolo di ‘gattara’ annegando i pochi felini superstiti in quintali di Kitekat dove una gloriosa stirpe si estingue nell’incoscienza bulimica.

Inutile dire che fino a venti anni fa non si era mai sentito il problema dei troppi gatti che da millenni (la moda dei gatti a Roma risale all’ epoca delle storie sentimentali di Cleopatra prima con Cesare e poi con Marco Antonio) campavano la loro vita libera per la città in perfetto equilibrio ecologico. Le gattare erano delle vecchiette un po’ matte e molto sole che battezzavano i gatti di loro pertinenza con nomi fantasiosi e deliziosamente cinici (mi ricordo una gatta chiamata ‘cechetta’ in quanto priva di un occhio, poi c’era ‘ciancamatta’ (gatto con zampa inutilizzabile) e così via..) con cui capitava di scambiare quattro chiacchiere un po’ stralunate ma spesso interessanti. Peccato che il ‘buonismo istituzionale’ e l’altrettanto istituzionale idolatria della ‘valorizzazione’ abbia messo i suoi perfidi occhi su questo piccolo frammento di mondo sostituendo le ‘gattare spontanee’ con ‘gattare istituzionali’ di tutt’altra natura (solitamente sessantenni acide con velleità ambientaliste, insomma modello anglosassone non romano) che, per un malinteso senso d’amore per gli animali, hanno castrato le povere bestie (così vivono più a lungo, cosa per altro vera ma ben grama vita..) evitando a loro dire il sovrappopolamento (fino ad allora egregiamente tenuto sotto controllo dalla naturale lotta per l’esistenza) e ripagando i felini con regolari distribuzioni di cibo.

 Il risultato è che i mitici gatti romani di strada sono in via d’estinzione e che una delle ultime colonie di gatti romani non castrati, sopravvissuta in un cortile della Garbatella ( studiata dagli etologi dell’ Università, i gatti hanno un comportamento sociale molto simile a quello dei grandi felini e sono naturalmente molto più comodi da osservare..ma, quando sono castrati, addio comportamento spontaneo ed addio studi etologici..) è da poco caduta sotto le ‘forbici’ degli addetti comunali (inutili le lamentele degli studiosi).

Ormai le colonie feline sopravvivono solo grazie ai gatti abbandonati dai padroni, ma se le cose continuano così c’è poco da stare allegri…

Questo aneddoto è a mio parere indicativo della drammatica separazione fra la cosiddetta ‘cultura moderna’ basata sulle categorie e il dato reale, la ‘categoria’ oasi felina denota un amore per i gatti, ed è sicuramente vero che i gatti sono ben contenti di essere nutriti, e chiaramente se i gatti hanno una vita troppo facile e diventano troppi, ahimè il loro numero va ridotto, ma poverini senza ucciderli, sterilizziamoli che è meglio. Così una cosa si trasforma nel suo contrario semplicemente perché le categorie non racchiudono totalmente la realtà ed una concatenazione di considerazioni ragionevoli che perdono di vista l’insieme si traduce nell’orrore e nella stupidità ( a ben vedere la base di tutte le barzellette è l’applicazione rigorosa della logica). Ma la cosa più grave è la manifesta incapacità a discernere tra amore e smania di controllo e l’incapacità di avere un rapporto non disturbato con l’ambiente. Tommaso D’Aquino ci spingeva alla ricerca dell’ ‘Adaequatio intellectus et rei’ a cercare la conformità delle nostre razionalizzazioni con la realtà; qui invece c’è un intelletto spocchioso che della realtà non sa che farsene se non torturarla per farla entrare a forza nelle sue categorie. Proprio come questa triste ed insieme ridicola storia dell’ influenza suina, pardon ‘nuova influenza’…

Insomma qualsiasi epidemia d’influenza provoca dei morti, questo è assodato, se poi i morti siano causati esclusivamente dall’influenza o da qualche concausa è impossibile (ed anche tutto sommato inutile) stabilirlo. Ogni anno una o più ondate influenzali attraversano il mondo e chiaramente qualcuno muore; questa influenza di provenienza messicana non fa eccezione, come non fa eccezione il fatto che ci sia un focolaio che proviene da un’altra specie animale (in questo caso i suini) e che, partendo da un ben preciso luogo d’origine, si diffonda in tutto il mondo per poi estinguersi naturalmente.

Allora dov’è il problema? Perché ci siamo dovuti subire le immagini di messicani con la mascherina e una generale aria da tregenda? Perché il direttore dell’ OMS ci spiega che siamo ad un livello di allarme vicino al massimo? Perché anche il presidente degli Stati Uniti si fa vedere preoccupato e dice che si stanzierà un miliardo di dollari per la ricerca? Perché il sito di ricerca bibliografica dell’ NIH aggiorna gli specialisti (non i poveri ingenui, i ricercatori e i medici) ora per ora sulle nuove sequenze virali? Ci aspetteremmo quanto meno monatti in giro per le strade con il loro lugubre scampanellio, morti in ogni casa, lacrime e rabbia, preghiere e bestemmie … niente di tutto questo per fortuna, anzi a qualcuno esce detto che i morti non sono mille ma sette, che questa è un’influenza addirittura più lieve delle altre.

 Ogni zona del mondo tira fuori le sue specialità regionali, l’UE quel misto di ipocrisia e ‘politically correct’ di cui è maestra pregando di togliere l’aggettivo suina all’influenza, per non turbare gli allevatori …. gli Stati Uniti la mitologia della tecnica risolutoria a base di finanziamenti agli scienziati (ma che dovranno poi studiarsi ?), poi chiusure di aeroporti, barriere, proclami un po’ ovunque.

Orrore e raccapriccio, anche i miei amici più colti e smaliziati mi chiedono dubbiosi ‘Ma senti tu che lavori all’ Istituto, che ci dici possiamo stare tranquilli ..?’ Che guaio, che guaio, San Tommaso dove sei ? Perché nessuno si preoccupa di adeguare il suo intelletto ai dati di fatto? Perché abbiamo litigato con la realtà?

E’ come con i gatti romani, la presenza di regole per ‘impedire il contagio fatte ‘per il bene dei cittadini’ impongono delle procedure fisse ed immutabili (chi se ne frega delle contingenze, Cartesio ci ha spiegato che sono degli accidenti, l’importante è l’idea..), per cui l’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, si dovrebbe occupare della salute a livello planetario) deve dire che si è in presenza di una epidemia globale (che importa se è sempre successo, globale è e bisogna dirlo) che corrisponde ad un allarme elevato. Molto sciocco ed anche da ridere se non fosse che stiamo assistendo alle prove (riuscite) del controllo globale del mondo (dei ricchi) basato sulla paura della morte, sull’idolatria della scienza che poi tanto viene a salvarci, una squallida caricatura degli aspetti più deteriori delle religioni ma senza l’amore che salva, solo la gestione del terrore e la promessa di soluzione. Se poi in mezzo ci piazziamo anche la vendita di un farmaco o di un vaccino perché no , ma questo non è l’aspetto peggiore, l’aspetto peggiore, come con i gatti romani, è la distanza abissale dal dato di fatto, dalla realtà nuda e cruda.

Antidoti ? A seconda dei gusti ne consiglierei due (che però funzionano meglio se presi contemporaneamente) :
1) un bel ripasso di statistica di base

 2) la lettura dei racconti della grandissima Flannery O’Connor, una scrittrice cattolica americana del dopoguerra che sulla realtà che irrompe a distruggere le categorie precostituite ha scritto delle cose eccelse.