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L’ideologia del progresso è una profanazione dell'immagine sacra del mondo

di Francesco Lamendola - 03/06/2009


L'ideologia propria della modernità è basata sull'idea di progresso; o, meglio, sulla pretesa autoevidenza dell'idea di progresso. Infatti, il progresso, ossia l'andare avanti, è divenuto sinonimo di positivo; mentre il regresso, ossia il retrocedere, è divenuto sinonimo di negativo. Dalla sfera ideologica si è passati, insensibilmente, a quella etica.
Si dice che l'idea di progresso è figlia della concezione lineare della storia, formatasi col cristianesimo; perché i Greci, legati ad una concezione ciclica del tempo, non possedevano niente di simile. Questa è una mezza verità. È vero, infatti, che col cristianesimo si afferma una concezione lineare della storia, così come nelle altre religioni monoteiste, secondo lo schema: creazione, caduta, redenzione e palingenesi. Ma nel cristianesimo, come nelle altre religioni rivelate, il progresso della storia è un mistero nelle mani di Dio: non è opera dell'uomo; l'uomo può soltanto decidere di collaborarvi, oppure rifiutarlo.
La Rivoluzione scientifica prima, l'Illuminismo poi, operano il distacco radicale da tale concezione del progresso e ne fanno qualche cosa di autonomo, laico, immanente: il progresso è la marcia trionfale della storia umana conforme a ragione, ossia dell'uomo che prende su di sé, tutta intera, la responsabilità del futuro (anche per gli altri viventi, visti in tutto e per tutto come «res extensa» manipolabile a piacere).
Il culmine della «hybris», della dismisura e dell'orgoglio umano, si realizza nella filosofia della storia di Hegel, nella quale Dio è, in sostanza, lo Spirito che si dispiega nella storia stessa e che, mediante il movimento dialettico della tesi, dell'antitesi e della sintesi, realizza «le magnifiche sorti e progressive» (che corrispondevano, nel suo pensiero, press'a poco alla potenza militare e politica dello Stato prussiano). In altre parole, non è l'essere che crea il pensiero, ma il pensiero che crea l'essere.
Marx, da parte sua, non ha fatto altro che mettere sui piedi la dialettica hegeliana, che a suo parere poggiava sulla testa, senza mutare i termini generali della questione e limitandosi a trasferire nella lotta di classe la lotta fra i popoli e gli Stati. Anche per lui il materialismo dialettico sfocerà nel trionfo finale della società senza classi, dove terminerà per sempre lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Nessuna meraviglia che da una tale concezione della storia umana, vista come opera esclusiva della volontà umana e come il frutto di interessi materiali in conflitto reciproco, siano scaturite due apocalittiche guerre mondiali, i campi di sterminio e la bomba atomica.
Eppure, sordo e cieco ad ogni ripensamento e ad ogni autocritica, l'uomo post-moderno procede imperterrito lungo la stessa idea di «progresso», facendo scomparire ogni giorno numerose specie viventi; distruggendo le ultime foreste; immettendo sul mercato alimentare prodotti geneticamente modificati; procedendo alla clonazione di piante ed animali; irrorando la terra con quantità industriali di prodotti chimici, diserbanti, pesticidi, che inquinano le falde acquifere; e destinando superfici agricole sempre più vaste alla coltura di cereali per l'alimentazione di bovini i quali, a loro volta, dovranno fornire quantità sempre maggiori di carne destinata al consumo di una modesta percentuale della popolazione umana.

Scrive Jacques Brosse, geniale poligrafo ed enciclopedista, nel suo libro «La magie des plantes», Editions Albin Michel, 1990;  traduzione italiana di Valentina Palombi, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, pp. 143-47):

«Dai tempi di Eschilo, non abbiamo cessato di progredire. Nella sua epoca, il terreno del sacro, le terre vergini erano ancora immense; nel corso dei secoli esse si sono costantemente ridotte, tanto che oggi non esiste più  alcuno spazio per il sacro e che di conseguenza, la terra stessa è divenuta più piccola. Un tempo l’intero mondo era sacro così come erano sacri gli avvenimenti della vita umana, poi, con i campi di cereali è nato il territorio profano, un terreno che viene spogliato,  bruciato, devastato  per far spazio alle coltivazioni, uno spazio in cui lo spirito non ha più posto, esclusivamente materiale, utilitario, uno spazio profano, se non profanato, dato che, per farsi perdonare questo furto sacrilego, ci si preoccupa di metterlo sotto la protezione degli dei, di santificarlo. Da questo momento a esso sarà contrapposto lo spazio sacro, quello degli dei, quello del tempio (profano vuol dire ciò che è fuori del tempio), ma questa superficie riservata non è altro che lo spazio originario, naturale, illimitato, che è stato necessario delimitare per impedire  che l’altro sconfinasse restringendolo sempre di più. L’idea stessa di limite è nata dal campo, dato che questa forma di proprietà degli uomini, che in origine era  collettiva, è ben presto diventata privata, vale a dire che gi altri ne sono stati privati. Più tardi, i limiti diverranno frontiere che separeranno i territori privati degli Stati, dove i nemici si affronteranno. Seguendo l’esempio del campo, il tempio e il suo recinto  diverranno la proprietà privata del dio. Oramai non c’è più un solo spazio in cui gli dei e gli uomini si incontrano, bensì due: uno appartiene agli uomini, l’altro resta degli dei. Quest’ultimo è il tempio, in senso proprio ciò che è stato ritagliato, sottratto (al profano), la porzione di spazio, delimitata dall’augure nel cielo e sul suolo, che appartiene al divino; i tempio è solo secondariamente l’edificio che verrà edificato su quest’altura selvaggia, ma innanzitutto è un’estensione protetta di natura selvaggia che l’uomo non può violare se non vuole essere punto con la morte. Talvolta quest spazio è rappresentato da un unico albero, un albero gigantesco, la cui nascita viene fatta risalire alle origini, che con il suo fogliame offre riparo a un intero villaggi i cui abitanti lo venerano come un dio protettore, come nel caso della ceiba dell’Africa nera e del Messico, e dei pipal indiani; esso è inoltre l’immagine di quel giardino dell’Eden in cui nacque innocente l’uomo.
Questo bosco sacro, in cui si può penetrare solo dopo essersi purificati, è sopravvissuto fino ai nostri giorni, nel cuore della civilizzazione,  nei recinti che conservano intatti degli alberi pluricentenari intorno ai templi taoisti, scintoisti o buddisti dell’Estremo Oriente e anche nelle recinzioni consacrate  che circondano ancora alcune nostre chiese di campagna, all’interno delle quali i fedeli volevano essere sepolti, e da cui ebbero origine i nostri cimiteri. Anche i nostri parchi nazionali, le riserve naturali di ogni tipo, in cui s spera d conservare intatto il patrimonio zoologico e vegetale di un passato altrove scomparso, derivano dal bosco sacro;  qui siamo in presenza di un’interessante rinascita laica di uno spirito autenticamente religioso, come hanno implicitamente compreso  le nazioni di lingua inglese che li chiamano “santuari”.
Come il tempo, come lo spazio, anche la pianta divenne a poco a poco profana, o piuttosto anche in questo caso ci fu una separazione: da un lato le piante sacre, dall’altro quelle profane; da un lato le piante utili, dall’altro le erbacce. Il modello delle piante profane è stato il cereale.  È sorprendente in effetti che nessun cereale sia spontaneo, originale;  sono tutti nati dalla trasformazione elle graminacee selvagge  eseguita dall’uomo attraverso selezioni successive e innumerevoli ibridazioni (vedi il grano, il mais). Dunque non si rata già è più di vegetali del tutto naturali e, lungo questa strada, quando l’uomo non sarà più trattenuto dalle sue credenze religiose, s giungerà alla fabbricazione d veri e propri mostri, incapaci di sopravvivere fuori dall’ambiente sempre più artificiale creato dall’uomo.  Possiamo vedere i discendenti ei primi cereali oggi, nei nostri campi, dove riescono a svilupparsi solo imbottiti di fertilizzanti chimici e di ormoni perla crescita, protetti da diserbanti selettivi e da pesticidi di tutti i tipi,  no più pericoloso dell'altro per la salute del suolo, e dell’uomo. “Ma - come dice un mio amico contadino - non si può fermare il progresso”.
Questo termine, progresso, ha fato la sua comparsa nella nostra lingua abbastanza tardi - il primo a impiegarlo fu Rabelais - ma la sua attuale accezione è ancora più recente; infatti risale »il grande fermento che si impossessò degli animi nel diciottesimo secolo e che doveva portare alla Rivoluzione francese. Lo sviluppo di questo concetto seguì il percorso che condusse al razionalismo limitato e presuntuoso, allo scientismo del diciannovesimo secolo. È allora che la fede nel carattere illimitato del progresso prende il posto della fede nell'infinito, portando alla rottura con una tradizione fino ad allora ininterrotta, e con ciò a rifiutare molte conoscenze che non si accordavano più con il nuovo spirito. Se, nel pensiero dei suoi promotori, il progresso avrebbe dovuto essere tanto intellettuale, se non spirituale, quanto materiale, oggi sappiamo che il peso della materia finì con il prevalere, Ogni nuova scoperta scientifica fu utilizzata solo in vista di un accrescimento della produzione che procurava; nel complesso la direttiva che s'impose autonomamente fu lo sfruttamento più completo possibile delle risorse del pianeta che allora, con un ingenuo ottimismo, si immaginava fossero inesauribili.  La nuova condizione dell'uomo poneva quest'ultimo come unico soggetto di fronte ad un mondo composto unicamente di oggetti, e dunque lo incitava ad abbandonarsi all'avidità sfrenata.
Queste tappe successive si riflettono in quelle che a poco a poco modificarono le relazioni  dell'uomo con il mondo vegetale. Nel diciottesimo secolo, i botanici che eseguivano le prime ibridazioni sistematiche pensavano ancora di commettere degli atti empi contro il Creatore. Tali scrupoli furono invece del tutto estranei ai loro successori che, a partire dalla metà del secolo successivo, seppero mettere a profitto una migliore conoscenza dei processi naturali  per modificarli. Si cominciò a parlare con fierezza della "creazione di nuove razze". La scoperta di Mendel delle leggi fondamentali della genetica che, sebbene risalisse al 1869, non fu conosciuta che nel 1900, e la teoria delle mutazioni formulata nel 1900-03 da de Vries fornivano i dati teorici che permisero, nella botanica applicata, in agronomia, come in orticoltura, uno sviluppo straordinario del "miglioramento" delle piante per mezzo di una vera e propria programmazione.
Per quanto questo nuovo passo nell'assoggettamento del mondo vegetale possa essere stato esaltante, non bisogna dimenticare alcune delle sue conseguenze che, del resto, non si rivelarono che molto più tardi. La priorità assoluta accordata alla produzione si risolve talvolta a svantaggio del consumatore: il gigantismo dei fiori e dei frutti diminuisce infatti in ugual misura il loro profumo e il loro sapore; si cominciò a produrre delle rose- cavolo e delle fragole-pomodoro, le cui qualità per quanto riguarda l'odore o il gusto si erano frattanto volatilizzate. Oggi, nei cataloghi dei vivaisti e degli orticoltori, si parla meno del sapore dei frutti che vengono proposti che della loro attitudine a essere commercializzati; del loro "eccellente aspetto", della loro "lunga conservazione", della loro capacità di sopportare lunghi spostamenti, tutte qualità che interessano sicuramente  il produttore e il rivenditore, ma per nulla il consumatore. Oggi non si può fare ameno di riconoscere che molti prodotti destinati a prevenire le malattie delle piante e che vengono ordinariamente usati sono "altamente tossici per l'uomo", e si sospetta che alcuni siano perfino lievemente cancerogeni. Senza dubbio, le semenze trattate con dei derivati organici del mercurio  che servono a proteggerle dagli animali predatori durante il loro immagazzinamento, i limoni e gli aranci ricoperti  di difenile anticrittogamico, i frutti delle nostre terre che vengono ricoperti di una pellicola di prodotti chimici per garantire loro una lunga conservazione, solo raramente provocano dei gravi infortuni tali da far scattare l'allarme; eppure i residui dei prodotti tossici, che penetrano persino nella linfa e che si diffondono in tutti i tessuti, possono essere molto pericolosi, in quanto i loro effetti non si manifestano che quando essi si sono accumulati nell'organismo.
Dagli inizi della coltura dei cereali alla nuova agricoltura chimica sono passate alcune migliaia di anni - l'intera storia dell'umanità - ma ciò nonostante la seconda era contenuta nella prima come l'albero nel seme.  Dal punto di vista da cui ci poniamo qui, il progresso si è manifestato con un, dapprima lento, poi sempre più rapido, sempre più irresistibile e infine inesorabile deterioramento dei rapporti tra l'uomo e la natura.  L'alleata di un tempo è divenuta la nemica, la potenza rivale che bisogna dominare, addomesticare, ridurre in schiavitù, senza che l'uomo prenda mai coscienza che ciò è una palese assurdità e anche una completa aberrazione, poiché, che lo voglia o no, egli non ha mai cessato di far parte della natura, le deve tutto e non può vivere senza di lei. Alcuni ammettono volentieri tutto ciò per poi replicare: se l'uomo fa parte della natura, anche il progresso, che in fin dei conti è un prodotto dell'evoluzione, ne fa parte. I grandi rettili dell'era secondaria, che improvvisamente si sono estinti senza lasciare altra traccia che alcune ossa nel terreno, non erano forse parte dell'evoluzione? A ben vedere, questo è un ragionamento specioso, perché in fin dei conti chi, se non l'uomo, si è distinto dalla natura, se ne è proclamato il proprietario con diritto di vita e di morte su tutti gli altri esseri viventi?
Se ora egli vuole sopravvivere, dovrà almeno tentare di rispettare, se non è più capace di amarla, la vita in quanto tale, la vita in tutte le sue manifestazioni. Poiché tutto è solidale nella natura, gli animali sono solidali con le piante, e l'uomo lo è con gli uni e molto di più con le altre […].
Da millenni tuttavia, l'espandersi dell'agricoltura ha avuto come effetto la distruzione crescente della vegetazione, e in particolare delle foreste. Se il disboscamento è stato una necessità vitale per le popolazioni che si sviluppavano in zone in cui le foreste occupavano la maggior parte del terreno, oggi è ancora più nocivo poiché si accompagna a uno sfruttamento delle foreste eccessivo e devastatore che, nelle regioni tropicali dell'America del Sud e dell'Africa ad esempio, ha già provocato irreparabili danni biologici.  Ma anche altrove, un po' ovunque nel mondo, si assiste ai deplorevoli e irreversibili fenomeni  di desertificazione e di erosione dei suoli.
Eppure, in un avvenire ormai prossimo, noi avremo sempre più bisogno delle piante. L'alimentazione a base di carne è ecologicamente dispendiosa, dato che richiede spazi troppo vasti che potrebbero essere impiegati in modo migliore e soprattutto rappresenta un enorme spreco. "Dall'erba medica al vitello e dal vitello all'uomo, non si utilizza che un milionesimo dell'energia solare primitiva", e gli stessi tecnici, che in genere non sono degli idealisti sentimentali, ci annunciano che tra non molto l'umanità sarà vegetariana o scomparirà.
Fortunatamente, il numero delle piante utili è forse sufficiente a soddisfare i nostri bisogni. Si ritiene che le specie vegetali in tutto il pianeta siano all'incirca ottocentomila, ma soltanto duecentocinquantamila di loro sono catalogate; quanto alle piante di cui sappiamo utilizzare le proprietà, esse non sono che poche centinaia, mentre i nostri antenati ne conoscevano migliaia. Nel 1942, l'invenzione della penicillina ha dimostrato in modo lampante quante risorse imprevedibili nascondeva ancora il mondo vegetale. In ogni modo, le più brillanti scoperte dei ricercatori non potranno avere che degli effetti estremamente limitati finché non avremo compreso profondamente che cosa è la vita dea pianta, finché non avremo imparato a conoscere di nuovo che cosa è in sé l'essere vegetale.»

Secondo questa interpretazione, dunque, non solo i parchi naturali, ma gli stessi giardini non sono che l'immagine sbiadita della condizione originaria del rapporto fra l'uomo e il sacro, quando l'intera vegetazione era vista come proprietà divina. L'uomo poteva usufruirne e mangiarne i frutti, ma non già considerarsene il padrone; inoltre, l'utilizzo della terra e dei suoi beni - primo fra tutti, l'acqua - era riservato all'intera comunità, non al singolo individuo.
Poi, con l'invenzione dell'agricoltura, l'uomo incominciò a considerare la terra come un bene da sfruttare razionalmente, nella misura più ampia possibile; per fare posto alle colture, iniziò a distruggere le foreste, e, delimitando i campi, introdusse la pratica ed il concetto della proprietà privata.
In quella fase sorsero i boschi sacri, come il famoso Bosco di Diana, presso il Lago d'Averno, descritto da Virgilio nel VI canto dell'«Eneide», al cui interno sorgeva il tempio d'Apollo (e l'Antro della Sibilla cumana): quasi come un risarcimento nei confronti della divinità per tutte le superfici che continuamente venivano messe a coltura e sfruttate esclusivamente in base a un criterio di tipo economico.
Audacemente, Jacques Brosse istituisce una diretta filiazione tra la nascita dell'agricoltura, mediante la selezione dei cereali, e la manipolazione genetica oggi in voga tra gli agronomi, che scaraventa sul mercato alimentare mondiale quantità industriali di vegetali creati in laboratorio, con le tecniche più disinvolte: l'una è compresa nell'altra, egli dice, come l'albero è in potenza nel seme.
Così è incominciata la profanazione della natura, nel senso etimologico della parola: quello di rendere profano, ossia di porre qualche cosa al di fuori del tempio, al di fuori dell'area di pertinenza del sacro.
Conosciamo assai bene l'obiezione fondamentale che si suole muovere alla proposta di tornare ad una visione sacrale della natura, o anche solo alle obiezioni alla manipolazione genetica di piante e animali: ossia che l'aumento esponenziale della popolazione mondiale non consente anacronistici sentimentalismi, e che ogni ettaro di terra arabile deve essere sfruttato per sfamare gli esseri umani e sopperire alle loro necessità.
Certo, l'aumento vertiginoso della popolazione mondiale, negli ultimi cento anni, pone dei problemi drammatici; eppure, anche in questo caso, basta osservare un grafico dell'incremento demografico sul nostro pianeta, dall'inizio della storia a noi nota, per rendersi conto che l'«esplosione» dell'ultimo secolo non è in contraddizione, ma perfettamente in linea con l'andamento precedente, nonché con le sue premesse ideologiche.
Se tutta la terra non è che un immenso campo a disposizione dell'uomo, da sfruttare illimitatamente e senza riguardo alcuno per gli altri viventi, come meravigliarsi di essere arrivati a questo punto? Gli effetti sono assolutamente coerenti con le premesse.
Senza contare che la sistematica distruzione delle ultime foreste vergini, e a maggior ragione la pratica della manipolazione genetica sugli alimenti, non hanno nulla a che fare con l'esigenza di sfamare una popolazione  mondale in continuo aumento; ma, al contrario, sono il risultato di una politica alimentare basata sul consumo smodato di carne, specialmente bovina, da parte dei popoli del Nord del pianeta, ossia di meno del venti per cento della popolazione mondiale (cfr. il nostro precedente articolo «Difendere le ultime foreste del pianeta per salvare il bene inestimabile della biodiversità», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Ecco, allora, che il «peccatum originalis» della modernità, quanto più si esaminano le cose con occhio spassionato e libero dai condizionamenti della odierna Vulgata scientista, retrocede nel tempo di migliaia di anni, con buona pace di Rousseau e del mito illuminista del «buon selvaggio», tipico mito consolatorio escogitato dalla ragione calcolante e strumentale per lavare la propria cattiva coscienza.
La storia dell'umanità è piena di disastri ecologici provocati dall'uso dissennato delle risorse naturali, molto prima della Rivoluzione scientifica e della sua naturale conseguenza, la Rivoluzione industriale. Non è affatto vero che i popoli nativi e le società pre-moderne sono, di per sé, rispettosi dell'ambiente naturale e saggi amministratori dei suoi frutti. I popoli agricoltori del Sud-Ovest degli odierni Stati Uniti d'America ridussero una regione fertile a uno sterile deserto, per lo sfruttamento eccessivo che fecero della fertilità del suolo.
E i Maori della Nuova Zelanda, che non erano agricoltori ma cacciatori, condussero il Moa gigante all'estinzione; senza contare che, quando ebbero esaurito le risorse della selvaggina, scatenarono una serie di incessanti guerre tribali, allo scopo di rifornirsi di carne umana. Si ha ragione di sospettare che il cannibalismo fu la ragione dell'estinzione della popolazione preesistente dell'arcipelago, quella dei Moriori. L'ultimo banchetto collettivo documentati avvenne nel 1835, a spese dei pacifici abitanti delle isole Chatham, che vennero sterminati fino all'ultimo a messi in pentola dai Maori.
E allora?Bisogna forse pensare che l'uomo debba rinunciare all'agricoltura, che debba rinunciare a ogni forma di progresso, per ristabilire gli equilibri compromessi fra sé e l'ambiente in cui si trova a vivere?
Posto in questi termini, il problema apparirebbe assurdo fino quasi al comico, se non fosse, invece, altamente drammatico. Evidentemente, non si tratta, né può trattarsi, di questo.
Il fatto è che la colpa originaria dell'uomo, se così vogliamo chiamarla, non è stata l'aver proceduto allo sfruttamento delle risorse naturali; ma il modo in cui lo ha fatto, e soprattutto la filosofia da cui è partito: una colpa, a ben guardare, che si è consumata innanzitutto all'interno del suo mondo di valori, e solo in un secondo momento, gradualmente, ai danni dell'ambiente esterno.
Come si narra nel mito biblico della Genesi, la Terra era un giardino messo da Dio a disposizione dell'uomo. Egli poteva goderne liberamente, ma rispettando un limite ben preciso: quello della creatura che riconosce il primato del suo creatore.
Il termine stesso di «risorsa», adoperato abitualmente per designare le potenzialità economiche dell'ambiente naturale, tradisce l'attitudine rapace, egoistica e incontinente dell'uomo di fronte alla natura, incapace di vedere in essa altro che un magazzino da cui prelevare a piacimento tutto ciò che gli serve, e una immensa discarica nella quale riversare incessantemente i prodotti di scarto del suo lavoro.
Recuperare il senso del sacro, pertanto, non significa rinunciare all'agricoltura, e nemmeno all'industria e alla tecnica; ma rivedere radicalmente il posto dell'uomo sia nel sistema della natura, sia di fronte all'Essere dal quale deriva e al quale aspira a ritornare. Riconoscere questo doppio legame, con l'Essere e con tutti gli altri enti, vuol dire, per prima cosa, rinunciare alla filosofia presuntuosa e irresponsabile del dominio e dello sfruttamento illimitati, per ritornare a una visione del proprio futuro che sia compatibile con le esigenze degli altri viventi, e che rifletta la doverosa subordinazione dell'uomo stesso nei confronti dell'Essere.
L'uomo non è il padrone di nulla, neanche del metro quadrato di terra che servirà ad accogliere le sue spoglie mortali: questa è l'idea centrale che deve sostituire la sciocca pretesa di essere il signore del creato. Di conseguenza, egli deve riconoscere sia la legittima presenza di tutti gli altri viventi, sia il dovere morale di rendere conto ad una istanza superiore dell'uso che sta facendo di ciò che la natura gli offre.
Arriverà il giorno in cui l'uomo guarderà all'uccisione dell'animale così come, oggi, egli guarda all'uccisione di un proprio simile: con orrore e disgusto; perché arriverà il giorno in cui egli comprenderà che ogni creatura vivente è un suo simile.
E arriverà il giorno in cui egli riscoprirà l'importanza di sedersi a tavola ringraziando e benedicendo il suo Creatore, come facevano i nostri nonni: perché comprenderà che non lui è l'autore del cibo che mangia e che lo nutre; che non lui è Dio.
Quando ciò avverrà, anche i comportamenti dell'uomo verso la natura saranno improntati a un maggiore senso di responsabilità; e la deforestazione selvaggia, la manipolazione genetica, la clonazione, gli appariranno per ciò che in realtà sono: un peccato contro l'Essere, non meno che un delitto contro gli altri viventi e contro se stesso.
E sarà egli stesso a decidere di astenervisi; se pure rimarrà ancora del tempo per raddrizzare la rotta, prima che il sistema della natura subisca delle ferite irreparabili.
In questo senso, e solo in questo senso, è vero quello che sostengono le filosofie scientiste e materialiste della modernità: che l'uomo stringe fra le sue mani il proprio destino, e che a lui solo compete la scelta fra la sopravvivenza e l'autoannientamento.