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L'era glaciale della cultura

di Massimiliano Parente - 03/06/2009

 
Che cos’è la letteratura oggi in Italia? Non si sa, basta non ci facciano pensare troppo. Mica come quel noioso di Pierpaolo Pasolini, quel noioso di Cesare Pavese, quei noiosi di Tolstoj, di Joyce, di Faulkner. A noi ci piacciono quelli che scrivono così, per andare in televisione, per vincere un Premio Strega, per aver un bollino di intelligenza. Ci piacciono gli autori leggerini, i cantanti e gli attori che sfornano un librino per essere degli “e scrittore”. Chi vorrebbe essere Leopardi? Nessuno. “Chi vorrebbe essere Antonio Moresco?”, come si intitola l’articolo di ieri di Aldo Grasso? Nessuno. E chi vuol essere Aldo Grasso? Chi vuol essere uno che dice: «Gli scrittori, specie quelli che si prendono troppo sul serio, dovrebbero evitare di andare in televisione»? Chiunque. Così come vogliamo essere Paolo Bonolis, Fabrizio Corona, Belen Rodriguez, Stefano Bettarini. Noi gli scrittori veri non li vogliamo proprio vedere, ha ragione Grasso. Devono andare in televisione gli scrittori che non si prendono troppo sul serio, quelli che pensano, come Sandro Veronesi, che un romanzo «è solo un romanzo». Devono andare in televisione quelli come Antonio Scurati, Giorgio Faletti, Andrea Camilleri, Massimo De Cataldo, Gianrico Carofiglio, o meglio ancora, chi non ha scritto nulla: pochi, perché già nell’Ottocento si leggeva nello Zibaldone che «in Italia ci sono più libri che lettori», e anche Aldo Busi osservò che «è difficile trovare qualcuno che non abbia mai scritto un libro, difficile trovarne uno che ne abbia almeno letto uno». Però basta scrivere cose innocue. Insomma, tutti vogliono essere Aldo Grasso, critico non letterario ma televisivo, televisivamente infastidito dalla presenza di Antonio Moresco alla trasmissione L’Era Glaciale di Daria Bignardi, tanto da scriverci sul Corriere della Sera di ieri un bell’elzeviro, dichiarando fin dall’inizio «di Moresco non ne ho mai letto una riga», però se ne stia a casa. Come si permette di rompere l’embargo? Uno scrittore che ha pubblicato quindici opere nell’isolamento più assoluto, romanzi importanti come Gli esordi e il recente Canti del caos, uscito per Mondadori, di oltre mille pagine. Uno scrittore sì, che si prende sul serio come noi insegniamo ancora, forse ancora per poco, nelle nostre scuole, come si prendevano sul serio Dostoevskij o Leopardi o Proust o Gadda o Kafka, morto inedito, o Guido Morselli, morto inedito e suicida. Quest’ultimo lo cita anche Grasso: «come se in Italia un Guido Morselli non fosse mai esistito». Significa: Moresco, sparati. In televisione ci devono andare quelli con cui possiamo identificarci, quelli che non hanno fatto niente e ci stanno per questo, quelli che sono usciti da un reality o che ci vanno per commentarlo, gli opinionisti. Per chi se la fosse persa è stata l’unica apparizione televisiva di Antonio Moresco in sessantun anni, dove lo scrittore ha risposto fin troppo umilmente alle domande della Bignardi, paladina dei valori sovvertiti, a tal punto da averlo messo insieme al rapper Fabri Fibra, mentre di fronte alle mozzarelle rilegate di Pulsatilla o di Antonio Rezza o di Erri de Luca o perfino di Walter Veltroni si dedicano interviste singole e inginocchiate e estasiate e con la bocca aperta a culo di gallina, come ci si inchina di fronte all’ultimo libro di Concita De Gregorio o dell’ultima blogger pornoromantica. Non è che non ci sia una differenza di rango, tra le cose, al contrario. È l’elogio dell’ignoranza, della mancanza di rispetto anche di fronte alla certezza delle opere complesse, frutto di anni di lavoro e di sacrifici, che sono costate una vita. È la spocchia giornalistica che ti fa scrivere «non ne ho mai letto una riga, e d’ora in poi eviterò di leggere i suoi libri» perché non ci piace che qualcuno creda in quello che fa, ci piace tutto ciò che è superficiale, leggero, che non implica un pensiero, che non invada il vuoto televisivo neppure per venti minuti dopo sessantun anni di scrittura. Venti minuti in cui il mondo è andato al rovescio, seppur per sbaglio. In Germania Moresco lo paragonano a Kafka, dodici studenti di dodici atenei nell’arco di una decina d’anni vi hanno scritto dodici tesi di laurea, eppure Moresco non può andare in televisione, neppure una volta, e parlare dei suoi libri, chi si crede di essere? Simona Ventura? Una velina? Un giornalista? Un politico? Moresco ha detto «ho preso così tanti pugni, che se per una volta qualcuno mi fa una carezza non me ne avrò certo a male». Invece no. Ha ragione Grasso, ha ragione Daria Bignardi. Ha ragione anche Cordelli: Bernhard e Beckett non hanno niente da dirci. Ha ragione D’Orrico: Musil non ha più niente da dirci. Hanno talmente ragione, i guardiani della quiete del pensiero, che è giunto il momento di abolire la letteratura dalle scuole: cancellate i valori, insegnate ai vostri figli i valori dell’intrattenimento e della culturina liofilizzata. Insegnategli che tra Dante, Nievo, Verga, Svevo, Pirandello, tra tutti questi coglioni che si prendevano sul serio, è meglio un rapper analfabeta che sbaglia dieci congiuntivi in dieci minuti. Si sente «un supereroe» ma per Grasso non è un guru, il guru è Moresco, questo illuso. Insegnate che Leopardi era gobbo e sfigato, e insegnate a giudicarlo senza leggerne una riga, e se Leopardi resuscitasse ditegli di starsene a Recanati, o invitatelo insieme a Marco Carta. Inserite come testi di studio nelle scuole dell’obbligo i libri di Jovanotti e di Cesare Cremonini. Lo pensa la Bignardi, la quale ha affiancato Fabri Fibra a Moresco come non avrebbe mai fatto con Eugenio Scalfari ma neppure con lo “scrittore” Vinicio Capossela, e lo pensa Aldo Grasso, a tal punto da sostenere che, mentre di Moresco non leggerà mai un libro, se Fabri Fibra «scrivesse un libro, io lo leggerei subito». Non disturbate il manovratore.