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Un film al giorno: «I magliari», di Francesco Rosi (1959)

di Francesco Lamendola - 08/06/2009


Che cosa ci fa un Mario Balducci da Grosseto in quel di Hannover, negli anni del miracolo economico tedesco (e anche italiano), senza una qualifica di specializzazione, senza nemmeno conoscere la lingua?
Niente; e infatti questa è l'ultima notte che trascorre in Germania: domani rientrerà in Italia, povero come era arrivato, senza aver trovato un lavoro e senza aver guadagnato un soldo. Il destino vuole che, per quell'ultima sera, egli pensi di concedersi una cena decente, in un buon ristorante italiano; e non sa che di lì inizierà un nuovo capitolo della sua vita, breve e promettente, anche se, alla fine, terribilmente amaro.
Nel ristorante fa la conoscenza con il romano Totò, chiamato Totonno, e di un gruppo di emigrati napoletani, tutti lavoratori nel settore dei tessuti. Totonno è il classico individuo dalle vaste ambizioni e dai pochissimi scrupoli, intraprendente, fantasioso, cialtrone: grazie alla sua inesauribile parlantina e alla sua astuzia, si è fatto un nome nell'ambiente dei connazionali che la camorra controlla con sapiente discrezione.
Una delle sue tecniche di vendita preferite è quella di introdursi in una casa in cui vi sia stato un lutto recente, e fingere di aver ricevuto dal morto una ordinazione di vestiti confezionati, per chiedere ai parenti di versare la somma stabilita, dietro consegna della merce; tecnica pressoché infallibile, visto che i poveretti non sono nello stato d'animo di obiettare e, inoltre, se lo facessero, sembrerebbe loro di non rispettare la volontà del caro estinto.
In breve, tra i due sembra nascere un'amicizia, e il romano prende con sé l'ingenuo toscano e se lo porta dietro in una serie di loschi affari di seconda categoria, sempre sfruttando il suo candore e la sua sostanziale onestà («Io qui sono venuto per lavorare; se volevo fare l'imbroglione, me ne restavo al paese mio», sbotterà Mario a un certo punto).
I magliari napoletani lavorano per conto di un certo don Raffaele, che, restando nell'ombra, controlla il monopolio sul commercio dei tessuti e che, a sua volta, è in società con un ricco industriale tedesco, Mayer, che si serve del «lavoro nero» per aumentare le sue già pingui entrate, dietro una facciata di falsa rispettabilità.
Il caso vuole che Mayer abbia una moglie giovane e bella, molto sensuale, tanto irrequieta quanto delusa della vita che conduce, pur apprezzandone le comodità ed il lusso, lei che è di umili origini e che un matrimonio fortunato ha tirato fuori, una volta per tutte, dalla miseria. Tra Mario e la bella signora nasce una simpatia, poi si accende una vera e propria passione; i due diventano amanti, ma di nascosto: Mayer non deve sapere, perché lei non intende rinunciare ai vantaggi della posizione raggiunta.
Quel furbacchione di Totò intuisce che quella relazione gli può tornare utile, e la incoraggia. Frattanto decide di mettersi in proprio, trasferendosi ad Amburgo e portando con sé il gruppetto dei napoletani. Qui, però, incominciano le difficoltà: perché coloro che controllavano il monopolio locale dei tessuti, ossia un gruppo di emigrati polacchi, incominciano a condurre una tenace e sempre più molesta azione di intimidazione, dapprima tagliando le gomme alle automobili dei rivali, infine scatenando un gigantesco pestaggio, interrotto solo dall'arrivo della polizia a sirene spiegate.
I napoletani sono irritati con Totò, che li ha messi nei pasticci e non possiede la stoffa del capo, per cui non li sa proteggere dalle minacce dei polacchi: sentendosi in pericolo, essi decidono di metterlo alle strette e gli pongono l'aut-aut: o  ci penserà lui a sistemare le cose, o ritorneranno a lavorare per don Raffaele.
Totò, ormai con l'acqua alla gola, tenta di servirsi di Mario per imbastire un ricatto ai danni della signora Mayer: o la «grana» per comprare la tregua coi Polacchi, o raccontare della tresca al marito di lei. Ma la donna è furba, intuisce subito quel che bolle in pentola e sventa la manovra: Mayer si mette d'accordo con don Raffaele, il quale si ripresenta ai napoletani, li «perdona» per la loro infedeltà e li riprende al proprio servizio, cacciando ignominiosamente Totò, che perde la faccia davanti a tutti.
Il solo Mario, per uno scrupolo di lealtà, segue l'amico e gli confida il suo dramma interiore; ma Totò lo respinge in malo modo, accusandolo d'ingratitudine, e si allontana in automobile, meditando infaticabilmente  nuovi piccoli imbrogli per risalire la china e conservare l'alto tenore di vita cui, ormai, si è abituato.
Resta ancora una partita da chiarire, quella fra Mario e la sua bella amante. Il sentimento che li lega è di quelli veri, ma  non può reggere alle tensioni della situazione che si è venuta a creare. La donna vorrebbe rimanere con Mario, ma non è disposta a lasciare Mayer e a rinunciare a tutto; l'italiano, dal canto suo, è ben deciso a ritrovare il rispetto di se stesso e non intende fare il mantenuto. Perciò non resta loro che lasciarsi, sia pure con profondo rammarico.
La scena finale, in cui la signora Mayer si allontana con la sua pelliccia e Mario cammina lentamente lungo la banchina del porto, sotto un cielo carico di pioggia, in attesa del treno che lo riporterà - e, questa volta, definitivamente - a casa, è degna di un film di alta qualità; anzi, è veramente una scena da antologia.
Questa è la trama del film di Francesco Rosi «I magliari», il secondo del bravo regista napoletano, girato interamente in bianco e nero e distribuito dalla Titanus nel 1959. Le tre parti principali sono affidate rispettivamente a Renato Salvatori (Mario), Albero Sordi (Totò) e Belinda Lee (la signora Mayer), un terzetto efficiente, ma non bene assortito, a causa della incontenibile tendenza di Sordi a debordare, snaturando la coerenza interna del film e spingendolo costantemente lungo il versante della commedia all'italiana, mentre la sostanza della vicenda sarebbe drammatica.
Renato Salvatori è un immigrato credibile nella sua evidente ingenuità, e forse è proprio questo aspetto del suo carattere che fa scoccare la scintilla fra lui e la moglie di Mayer, abituata alle squallide figure di arrivisti che bazzicano intorno a uomini come Totò e don Raffaele; e che - mantenuta di lusso - ha sposato il marito solo per levarsi dal quartiere popolare di Amburgo in cui è nata e cresciuta.
La notorietà di Salvatori era esplosa nel 1956, con «Poveri ma belli» di Dino Risi, accanto a  Marisa Allasio e Maurizio Arena, ove aveva sfruttato le potenzialità del suo fisico atletico e del suo fascino virile; ma in seguito, sottoponendosi a seri studi di recitazione, era riuscito a dimostrarsi attore versatile e convincente, sottraendosi al cliché del «povero ma bello» che rischiava di soffocarlo definitivamente.
Belinda Lee - il viso angoloso, la bocca grande, lo sguardo sornione e provocante - interpreta felicemente il suo ruolo, uscendo - anch'ella - dal solito copione della maggiorata fisica, ma con poco cervello, che tante volte è stata costretta a interpretare nella sua carriera ricca di alti e bassi. La penultima scena del film, in cui si svolge l'ultimo colloquio tra Mario e la signora Mayer - la quale,  pur essendo innamorata dell'uomo, rifiuta di abbandonare le proprie comodità per seguirlo in Italia -  è ben recitata dalla Lee: più con gli occhi e con la mimica facciale del suo volto mobilissimo, che con la voce. È una delle cose migliori del film.
Appena due anni dopo, nel 1961, sarebbe terminata la vita di questa attrice che è stata forse un po' sottovalutata a livello internazionale, e troppo presto dimenticata; ma nel cui sorriso luminoso e  malinconico pare quasi di cogliere un presentimento di quella fine improvvisa (era nata nel 1935 e aveva, dunque, appena ventiquattro anni quando recitava ne «I magliari»).
Il gruppetto dei magliari napoletani, tra i quali si nota Aldo Giuffré, desta nello spettatore sensazioni contrastanti: a momenti appare un convincente spaccato di quella dolente umanità «sommersa» che lavora in nero; altre volte fa venire alla mente, quasi irresistibilmente, il gruppo dei simpatici e grotteschi sbandati de «I soliti ignoti».
Anche qui, dunque, si oscilla fra due generi cinematografici diversi e fra due linee narrative assolutamente eterogenee e inconciliabili; perché c'è poco da fare: o si parla del dramma degli emigrati sfruttati dalla camorra, o si ride sulla «banda del buco»: tertium non datur.
Alberto Sordi - come al solito - non si limita a fare, ma vuole strafare. Gigioneggia in modo insopportabile dal principio alla fine e si esibisce in alcuni veri e propri pezzi di bravura: come quello in cui, in una delle ultime scene del film, parla tra sé e sé al volante dell'automobile, dopo che Don Raffaele lo ha umiliato davanti a tutti e scacciato dal nuovo «giro» di Amburgo; ma, nel complesso, appare del tutto fuori parte.
Il pur bravo regista non riesce a tenerlo sufficientemente a freno, non riesce a fargli capire che il film non è l'ennesima occasione perché lui possa esibirsi senza freni e fare il mattatore, ma una storia molto più complessa e, nell'insieme, drammatica.
Senonché, proprio qui emerge la debolezza fondamentale de «I magliari»: film irrisolto e in bilico fra almeno tre generi diversi: la denuncia di stampo neorealista, la commedia all'italiana ed il "noir" stile «Dédée d'Anvers» di Yves Allégret, del 1948, cui forse sono ispirati i begli esterni del porto di Amburgo, con le banchine umide di pioggia e le navi in movimento, mentre una folla di marinai e prostitute si muove avanti e indietro, senza pace, come formiche in un formicaio.
Rosi, cosceneggiatore insieme Suso Cecchi d'Amico e Giuseppe Patroni Griffi, oscilla per tutti i 107 minuti della pellicola fra la denuncia sociale, il genere a lui più congeniale (come avrebbe mostrato con «Salvatore Giuliano», del 1961, «Le mani sulla città», 1963, «Uomini contro», 1970, e «Il caso Mattei», 1972), la storia sentimentale a sfondo drammatico, e, appunto, la commedia all'italiana, che qui appare incongrua e decisamente fuori luogo.
La linea naturale di sviluppo del film avrebbe voluto che al centro rimanesse la vicenda degli emigranti sfruttati dalla malavita, e sia pure in forme paternalistiche; e, su questo tema centrale, si sarebbe dovuta innestare la storia d'amore - impossibile fin dall'inzio, e perciò profondamente malinconica - fra l'italiano povero ma onesto e la tedesca ricca e insoddisfatta.
Il narcisismo di Sordi, incapace di adattarsi a fare da comprimario e avido di avere le telecamere tutte per sé, ha stravolto questo copione, assolutamente coerente e lineare, innestandovi i temi e gli umori del genere commedia, che stridono con l'insieme della vicenda; e stridono ancor di più le intemperanze recitative dell'Albertone nazionale, sempre a caccia di primi e primissimi piani, per sfoggiare la sua inesauribile mimica e la sua «verve» da avanspettacolo, senza pudori e senza alcun senso del limite.
Che dire, perciò, di questo film piuttosto lungo, che alterna momenti di commovente sincerità ad altri di puro intrattenimento; e che fino all'ultimo non si riesce a capire dove voglia andare a parare, se sul versante serio e impegnato o su quello della facile risata (come nella scena in cui, per vendere dei tappeti, Totò lusinga e quasi seduce una matura e pienotta cameriera tedesca, dopo aver finto di essere stato vittima di uno strappo muscolare alla schiena)?
La bravura del regista e soprattutto degli interpreti, la sobrietà della fotografia e il ritmo quasi documentaristico del montaggio (che ricorda i successivi film di Rosi, particolarmente il memorabile «Le mani sulla città», interpretato dal bravissimo Rod Steiger) sono tutti elementi a favore di questa pellicola, di cui poco si è parlato dopo il primo momento, e che oggi sembra un po' caduta nel dimenticatoio, o meglio, nel Limbo dei cineforum e dei circuiti riservati a pochi intenditori.
Il fatto della difettosa coerenza interna, per le ragioni che abbiamo cercato di esporre, non spiega tutto. Molto concorre, indubbiamente, il vizio nostrano di sottovalutare la nostra produzione cinematografica, per correre sempre dietro alle ultime novità di Hollywood, siano pure prodotti ridicolmente commerciali.
Un altro vizio tipicamente italiano è quello di sopravvalutare il ruolo degli attori, per cui un film come «I magliari» rischia di essere ricordato dal pubblico soprattutto per l'interpretazione di Sordi, ossia proprio per ciò che costituisce il suo principale elemento di debolezza; destino capitato anche ad altri lungometraggi, se nel cast degli attori figurano dei beniamini delle platee, come Sofia Loren o Nino Manfredi.
Prima di emettere una valutazione, pertanto, bisognerebbe chiarirsi un po' tutti le idee - critica e pubblico - su che cosa debba essere un film e su quali caratteristiche debba possedere, per potersi dire pienamente riuscito.
Con buona pace dei fanatici del neorealismo, non è scritto su alcuna tavola della Legge che un film, per essere valido e artisticamente apprezzabile, debba fare della denuncia sociale e mostrare le iniquità e le bassezze del mondo borghese; che, insomma, debba essere esplicitamente «impegnato» in senso ideologico (e di quale colore, è inutile dirlo).
Però, è certo che un film - così come un quadro, una poesia, un romanzo o un brano musicale - deve possedere una coerenza interna e un equilibrio, una proporzione fra le varie parti che concorrono a realizzarlo: è un bel film se vi riesce; non lo è se non vi riesce.
Se un film incomincia con la denuncia sociale - come «I magliari», con la scena iniziale di Mario che viene arrestato dalla polizia al posto di Totò, che gli ha sottratto il passaporto proprio per sfuggire alla cattura - e poi, invece, si lascia prendere la mano dagli «a solo» dell'ineffabile Albertone, per poi ondeggiare tutto il tempo fra le due cose, bisogna riconoscere che è un film mancato: né carne, né pesce.
Peccato, perché aveva tutte le carte in regola per essere un gran bel film.