Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La nostra Cina (mia e di Tiziano)

La nostra Cina (mia e di Tiziano)

di Siegmund Ginzberg - 19/03/2006

Fonte: unita.it

 

 



Un uomo sta morendo. Con straordinaria serenità racconta al figlio la sua vita, il suo lungo viaggiare, cercare. Ne tira le fila. Quell'uomo, Tiziano Terzani, l'ho conosciuto, era mio amico. I figli, Folco e Saskia, ancora piccoli quando stavamo a Pechino, li ho visti crescere. Anni dopo, venuto a trovarci a New York, Folco avrebbe incantato per sere di seguito i miei, piccoli come erano loro quando li avevo conosciuti in Cina, leggendogli per molte sere di seguito le Cronache di Narnia. Ora sono io ad essere incantato dalla lettura di queste ultime conversazioni con suo padre. La Fine è il mio inizio (Longanesi) è un libro bellissimo. Che ho letto d’un fiato, e mi ha lasciato senza fiato. L'itinerario del mio viaggio e quello di Tiziano si erano incrociati per la prima volta a Pechino, ormai oltre un quarto di secolo fa. Lui è arrivato.


Ma quel che conta è il viaggio, non la destinazione, «come tutti i grandi viaggiatori hanno sempre saputo», ricorda a Folco. Come tutti i grandi viaggiatori era un viaggiatore solitario. Ho il rammarico di non avere fatto alcuni tratti in più in sua compagnia. In Cina ad un certo punto avevamo deciso di scrivere un giallo spionistico a quattro mani, ci avremmo messo tutti i personaggi reali che avevamo conosciuto. Poi lui fu espulso. Più tardi mi propose di scambiare delle lettere, lui dall'Asia, io dall'America. Anche di questo non se ne fece nulla. Ero troppo distratto dalla «destinazione», dal giornalismo quotidiano ad inseguire «i fatti». Non mi ero ancora accorto che, come dice lui a Folco, «nei fatti non trovi la risposta. La trovi in qualcosa di più profondo, che in questo caso è la cultura, la storia, di cui mi sono sempre occupato». È stato Tiziano a contagiarmi nella passione di accumulare libri per «prepararsi» ai viaggi. «Io non andavo mai in un posto senza una piccola bibliotechina di chi aveva viaggiato prima di me, magari un gesuita che ci era vissuto per farsi raccontare l'anima».

«I libri. Sono stati i miei grandi amici, perché non c'è di meglio che viaggiare con qualcuno che ha fatto già la stessa strada, che ti racconta com'era per poter paragonare, per sentire un odore che non c'è più, o che c'è ancora». Tiziano parla di «feticismo del libro». La differenza è che io temo di essere rimasto prigioniero della «preparazione», a scapito del «viaggio».

Apprendo che eravamo cresciuti entrambi poveri di libri. «In casa mia non c'è stato mai un libro, mai». Che il primo libro che aveva visto in casa, grazie ad uno zio rilegatore fu una Storia d'Italia a dispense. Il mio primo libro in italiano era stata l'Enciclopedia Garzanti in due volumi, leggevo le voci in ordine alfabetico. Ora mi sento come il professor K. dell'Autodafè di Elias Canetti, costretto a mettersi in testa ogni mattina i suoi diecimila volumi e scaricarli per andare a dormire sotto i ponti.
Tiziano ha trovato le sue «due forme di minima immortalità», il suo «piccolo momento di eternità», nei figli e nei libri che ha scritto, «nella speranza che tra cinquanta, cent'anni qualcuno ritrovi per caso un mio libro» su una bancarella, come noi abbiamo trovato i nostri. Ne ha scritti due sul Vietnam, ma resta convinto che The Quiet American (il romanzo di Graham Greene) sia inarrivabile («il sogno di tutti era di scriverne un altro così, tutti, tutti scrivevano e non ne uscì niente»). Chissà se saremmo mai riusciti a cavare qualcosa da quel giallo mai scritto sulla Pechino degli anni Ottanta. Certo si prestava. Giornalisti e spioni, veri e finti, tutti quanti a loro volta spiati dal grande fratello cinese, in un gioco che riesce a far ancora scompisciare dal ridere Tiziano morente.

Uno di quelli di cui racconta divertito a Folco è Sergei Svirin, già da lui conosciuto a Singapore, di cui si dice certo fosse il capo del KGB a Pechino. E mi fa venire in mente che il mio angelo custode per conto dei servizi sovietici era invece un tale Stanislav Lunev, colonnello del Gru, lo spionaggio militare sovietico, accreditato come corrispondente della Tass.

Me l'ero poi ritrovato corrispondente Tass a New York. Un paio d'anni fa ho visto che ha scritto un libro, Through the Eyes of the Enemy, con gli occhi del nemico, la cui fascetta spiega che si tratta «del funzionario più alto in grado dei servizi militari russi» passato agli americani. Me lo sono fatto arrivare. Sono andato a scorrere il capitolo sui suoi anni in missione in Cina. Dove dice di «aver reclutato», col nome in codice «Zag», il corrispondente del giornale del Pci, Antonio, fonte «estremamente preziosa» per lo spionaggio militare sovietico.

L'informazione decisiva fornitagli da questo Antonio sarebbe stato il testo di un'intervista che aveva avuto con l'allora presidente Li Xiannian, in cui Li si serviva del suo interlocutore per «informare il governo italiano (sic) dei piani della Cina nei confronti dell'Urss». Antonio sono evidentemente io. In effetti gli avevo dato il testo di un'intervista pubblicata qualche giorno prima sull'Unità. Che i suoi superiori avrebbero potuto agevolmente e più tempestivamente procurarsi in una qualsiasi edicola italiana. Anni dopo mi è capitato di parlarne con i miei «angeli custodi» da parte cinese e abbiamo riso a crepapelle. Allora abitavo, come corrispondente dell'Unità, in un siheyuan, una antica «casa di cortile» in piena città tartara, presso il Gulou, la Torre del tamburo, una foresteria gestita dall'ufficio relazioni estere del Pcc, quindi in pratica direttamente dai servizi segreti cinesi. Il colonnello Lunev racconta anche di aver riconosciuto, nel corso di una delle sue visite, tra gli asiatici che giocavano a badminton (il tennis col piumino) nel mio cortile, niente meno che Pol Pot in persona. Per un giornalista avere come compagno di racchetta il più feroce massacratore di tutti i tempi e non accorgersene sarebbe stato certo un «buco» da suicidarsi per la vergogna.

Ma la cosa è altamente improbabile. I cinesi non avrebbero mai esposto in quel modo un ospite così ingombrante. In quel siheyuan ricevevamo molte visite. Diplomatici, giornalisti, studenti italiani e di molti altri paesi. Un giorno Tiziano mi portò a pranzo un diplomatico americano che lui sosteneva fosse il capostazione della Cia. Mi pare si chiamasse Martin.

Ricordo che mi chiese cosa trovasse un comunista italiano in Cina. «Da seguire come esempio assolutamente nulla, da imparare sul mondo moltissimo», gli risposi.

Per Tiziano invece la Cina era stata, sin dal momento in cui aveva deciso di fare il giornalista, e aveva lasciato una promettente carriera di dirigente alla Olivetti per andare a studiare il cinese alla Columbia University a New York, una grandissima passione, forse la più travolgente della sua vita. Non solo un oggetto di indagine giornalistica. Ma una vera a propria storia d'amore. Intensissima, quasi smodata, che riemerge in moltissime pagine del racconto a Folco. «Per questo puoi capire che quando i cinesi mi hanno cacciato mi hanno davvero punito, mi hanno tolto una grande gioia di cui solo l'India mi ha poi ripagato».

Tanti anni dopo, non ho ancora ben capito perché l'abbiano espulso. Ne abbiamo talvolta parlato. Ne parla molto con Folco.
Ho l'impressione che non l'abbia mai capito neanche lui. Perché era troppo curioso? Perché si impicciava in storie di spionaggio come la straordinaria vicenda di Shi Beipu, l'attore dell'Opera di Pechino (M. Butterfly, il titolo con cui fu portata in scena in America) che aveva sedotto un diplomatico francese facendosi passare per donna e facendogli persino credere di avergli dato un figlio? Perché, da grande attore che è sempre stato, si travestiva da cinese, portava i grilli nel taschino del cappottone cinese, e faceva impazzire i suoi custodi, seminandoli ad ogni viaggio? Perché le sue magnifiche inchieste sulla distruzione di Pechino antica e il Tibet avevano arruffato i responsabili in alto loco? Perché il suo caso fu usato da una delle fazioni che si contendevano il potere per mettere in difficoltà l'altra? L'unica cosa certa è che, da uomo di passioni estreme che era, non glie l'ha mai perdonata.

La Cina fu forse la sua maggiore delusione, in quello che definisce ad un certo punto come «un secolo di spaventose delusioni». Aggiungendo che «anche per questo oggi c'è questo grande disorientamento». Tiziano è spietato nell'elencare la sue delusioni. Deluso dal Giappone. Deluso persino dal nuovo amore India: «Come, vado in India e trovo questi che...?! Tu vedessi il giorno che annunciarono la loro bomba atomica!

Pareva, Dio Bono, che fossero arrivati sulla luna, Apollo 13. La gloria dell'India!». Deluso dal ripetersi delle delusioni: «Lo vedi? Sempre la stessa storia». Deluso da tutto quello che è successo dopo l'11 settembre: «Era un'occasione straordinaria di ripensare a tutto... un'occsione buona, mi pareva, perché era così enorme quello che era successo e c'era stata una presa di coscienza così grande...». E invece la si è sprecata con le guerre.
Deluso dalla politica («ho smesso di scrivere pezzi di politica»). Ma con un «testamento» che ad ogni pagina gronda di politica anche più di Lettere contro la guerra. Deluso dal giornalismo, ridotto a «fare spettacolo». Ma per poi dedicare quasi tutto quello che dice a Folco al perché ha voluto fare il giornalista, e raccomandargli di «controllare i dettagli», perché «basta un dettaglio sbagliato e tutto perde la sua credibilità» («Questo è il giornalismo?» «Questo è il vero giornalismo»). Deluso, lui passionale estremo, dai fanatismi e dagli estremismi, «sbagliati in tutti i casi», anche tra ascetismo ed edonismo: «La Via di mezzo, sempre». «Devi capire cos'è il filo di questo racconto. È il cercare - tra tutta l'illusione della politica, della scienza che dovrebbero risolvere i problemi, per cui ci si impegna, si scrive, si tenta di cambiare l'opinione degli altri - per poi renderti conto che non serve a niente». Ma al tempo stesso inguaribilmente ottimista, tanto da voler continuare a dire con l'ultimo filo di voce la sua («Voglio parlare!»). Contraddittorio? Forse. Ma con un filo che lega il tutto: «Vorrei che il mio messaggio fosse un inno alla diversità, alla possibilità di essere quello che vuoi».

Ho visto che c'è chi è portato a leggere anche questo libro di Terzani come un ragionamento sui grandi temi del senso della vita e della morte. C'è anche tutto questo. Il capitolo finale, di sconvolgente bellezza, è un inno all'unità della nostra vita con la natura, di forza paragonabile alle poesie filosofiche di Tommaso Campanella. È un abbraccio ai suoi cari, a noi tutti, all'umanità, al pianeta, al cosmo.

Ma, come tutti i grandi testi letterari, può essere letto anche in molte altre maniere. Non credo gli dispiacerà che il suo vecchio compagno di viaggio abbia scelto una lettura più prosaica e forse limitata, partendo da dove i nostri sentieri si erano incontrati, nel «paese di mezzo», sulla «via di mezzo», per dirla con le sue parole.