Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Gabriele Sandri e Alessandro Di Lisio, morti di maladivisa

Gabriele Sandri e Alessandro Di Lisio, morti di maladivisa

di Alessandra Colla - 17/07/2009

 

Ecco, ho coniato un neologismo (credo) — maladivisa. Non credo di doverlo spiegare, basta pensare alla malasanità e il concetto è chiaro.
Gabriele Sandri e Alessandro Di Lisio sono morti entrambi di maladivisa, dunque. Il primo perché a indossare la divisa era uno che non ci aveva capito niente; il secondo perché la indossava lui, la divisa, in nome e per conto di uno Stato che invece ci capisce troppo.

Il risultato è che due ragazzi sono morti, e per uno ci sono i funerali di stato e per l’altro invece il suo assassino non paga. Forse a questo punto bisognerebbe parlare anche di malagiustizia, o di doppiopesismo — insomma di malcostume tutto italiano.

Dal di fuori, cioè da persona che mai si è interessata di calcio e dei fenomeni ad esso connessi, qualche volta mi è scappato un commento benpensantista — “basta con questi ultras, fate intervenire la polizia!”. Ma non intendevo così: non sparando ad altezza d’uomo, non da una parte all’altra di un’autostrada, non al lunotto di un’auto che se ne stava già andando verso una domenica di calcio come tante e che invece sarebbe diventata diversa — ah quanto! così diversa che per uno dei ragazzi che stavano in quell’auto sarebbe stata l’ultima. Ora il padre di Gabriele Sandri dice che si vergogna di essere italiano, e non sono mancate le critiche a questo sciagurato che ardisce provare sgomento nei confronti di un Paese — il suo! — che dopo aver fatto scempio di suo figlio nella persona di un poliziotto, ora fa scempio perfino della memoria di suo figlio nella persona di un magistrato.
Ha ragione, il padre di Gabriele Sandri. E gli si dovrebbe immenso rispetto per la vergogna che prova, e che è indice dell’amore e della fiducia nutriti finora (a ragione? a torto?) per il suo Paese che gli fa così male. Invece no. Si preferisce tollerare gli appelli di Tonino Di Pietro, le canzoncine di Matteo Salvini e perfino le sventatezze di Carla Bruni in Sarkozy (che Marianne se la tenga ben stretta, se lo vuole) — la quale come ha detto un mio amico fa infinitamente più bella figura nuda e muta piuttosto che vestita e parlante.

Dal di fuori, cioè da persona che in famiglia non ha esempi di carriera militare e che per inclinazione non ama né le divise né il militarismo in genere, non ho mai amato le guerre e non ho mai plaudito a nessun intervento bellico né dell’Italia né di nessun altro paese. A maggior ragione non mi sono mai piaciuti gli imbellettamenti delle “missioni di pace”, laddove il fatto stesso di mandare i nostri ragazzi in armi ad affiancare le guerre altrui è un insulto al concetto di sovranità nazionale — vorrei dire anzi che è un oltraggio di quelli che vanno lavati col sangue, addirittura, ma poi mi ricordo che l’Italia non è più uno Stato sovrano e mi resta addosso soltanto un’immensa tristezza.
In Afghanistan, in divisa, adesso ci sta il figlio di certi miei amici: un ragazzo che ho visto nascere, che ho cullato quando piangeva e che ho fatto giocare quand’era un bambino. Tutte le volte che c’è maretta da quelle parti mi viene da pensare a lui, e anche se non condivido una virgola del suo impegno laggiù so che se gli accadesse qualcosa ne soffrirei, e molto.

È anche per questo che ritengo indispensabile e più ancora inderogabile il ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan. Non perché adesso è morto un ragazzo, ma perché nessuno dei nostri ragazzi dovrebbe essere lì a rischiare di morire o a morire davvero per difendere, invece dell’Italia o di quel che ne resta, gli interessi di una potenza straniera che dell’Italia e della sua gente ha fatto strame in tempi abbastanza recenti da potersene ricordare senza sforzo.

Che la terra sia lieve a questi due ragazzi italiani morti di maladivisa, e che la loro morte possa servire a qualcosa.