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Un mondo senza più esseri umani sarebbe migliore o peggiore dell'attuale?

di Francesco Lamendola - 20/07/2009

 


Che cosa accadrebbe se gli esseri umani scomparissero dalla scena e lasciassero il campo libero alle altre specie viventi?
Se lo era chiesto, in termini poetici e filosofici, Giacomo Leopardi nel suo «Dialogo di un folletto e di uno gnomo», nelle «Operette morali»; per rispondere: non accadrebbe assolutamente nulla, anzi, la maggior parte delle altre specie animali non se ne accorgerebbe neppure.
Se lo sono chiesti, più recentemente, Bob Holmes, collaboratore della rivista «New Scientist», e Alain Weisman, professore universitario e saggista scientifico, autore del libro «The World without Us» («Il mondo senza di noi»).
Quest'ultimo si è soffermato sugli aspetti specifici del mutamento che la scomparsa dell'uomo e delle sue opere avrebbe sulla vita complessiva del pianeta; il primo, invece, ha svolto una riflessione di carattere più generale, e ha fatto una sorta di bilancio globale suoi pro e i contro della presenza umana all'interno della Biosfera.
Riportiamo una sintesi della riflessione di Bob Holmes, apparsa, con il titolo «La Terra senza di noi», su «Internazionale»  del 12 gennaio 2007 (e riportata nella antologia letteraria di Giorgio Bárberi Squarotti, Gianna Grego e Valeria Milesi «Incontro con il testo»; Bergamo, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2008,  vol. «Racconto e romanzo», pp. 596):

«Gli esseri umani sono senza dubbio la specie più invadente mai vissuta sulla Terra. In poche migliaia di anni ci siamo appropriati di più di un terzo delle terre emerse, occupandole con le nostre case, i nostri campi e i nostri pascoli. Secondo alcune stime, ormai controlliamo il 40 per cento della capacità produttiva del pianeta. E ci stiamo lasciando alle spalle un bel disastro: praterie arate, foreste rase al suolo, falde acquifere prosciugate, scorie nucleari., inquinamento chimico, specie invasive, estinzione di massa. E ora anche lo spettro del cambiamento climatico. Se potessero, le altre specie con cui dividiamo la Terra ci caccerebbero senza esitare.
E se il loro desiderio si avverasse? Cosa succederebbe se tutti gli esseri umani che vivono sulla Terra - almeno 6,5 miliardi - fossero deportati in un campo di rieducazione in una galassia lontana?
Escludiamo l'idea di un flagello che ci spazzi via, se non altro per evitare la complicazione di tutti quei cadaveri.. Abbandonata di nuovo a se stessa, la natura comincerebbe a riprendersi il pianeta: i campi e i pascoli tornerebbero a essere praterie e foreste, l'acqua e l'aria si purificherebbero dalle sostanze inquinanti e le strade e le città diventerebbero polvere.
"La triste verità è che il paesaggio migliorerebbe notevolmente una volta usciti di scena gli esseri umani", sostiene John Orrock, un biologo della conservazione del "National center for ecological analysis and synthesis" di Santa Barbara, in California. Ma i segni dell'umanità sparirebbero del tutto o abbiamo modificato a tal punto la Terra che anche tra un milione di anni si troverebbero le tracce di una società industriale ormai estinta?»

In effetti, quest'ultima domanda riflette ancora una insopprimibile presunzione antropocentrica: perché è chiaro che, fra un milione di anni, non si troverebbe più alcuna traccia della nostra civiltà industriale.
Le nostre concentrazioni urbane, la nostra rete stradale e ferroviaria, la metropolitana, i grattacieli, le fognature, le centrali idroelettriche, per non parlare della rete informatica: tutto questo non durerebbe più di qualche decina o qualche centinaio d'anni: un batter di ciglia, sulla scala dei tempi geologici.
Le scorie radioattive delle centrali nucleari, e le centrali stesse, qualora venissero abbandonate bruscamente dal personale che le serve, costituirebbero un problema più duraturo: ma, anch'esso, finirebbe per risolversi in qualche migliaio di anni.
No: fra un milione di anni non resterebbe assolutamente nulla della nostra civiltà industriale; al massimo, resterebbe qualche raro resto fossilizzato o qualche minuscolo frammento di materiale artificiale durevole (chiodi, bulloni d'acciaio), miracolosamente conservato in fortunatissime circostanze geologiche.
Sia quando ci comportiamo da animali da preda incoscienti e devastatori, sia quando ci lasciamo sopraffare da scrupoli e sensi di colpa, noi umani manchiamo di senso delle proporzioni: esageriamo enormemente la portata delle nostre azioni, cosa a cui siamo portati dalla nostra tipica «forma mentis» dominata da attivismo e utilitarismo.
Nel nostro recente articolo: «Non sono gli altri a turbare le nostre vite: facciamo tutto da soli», consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice), avevamo sostenuto che il più delle volte siamo portati a esagerare gli effetti concreti del nostro agire, perché resta sempre valida la legge fondamentale, secondo la quale è l'assenso della nostra coscienza che consente alle azioni altrui di agire in modo efficace su di noi; e, se noi neghiamo tale assenso, la nostra anima non potrà subire alcuna influenza, sia essa positiva o negativa.
In quella sede, la nostra riflessione si era svolta prevalentemente sul piano della dimensione morale; ma, se da essa ci spostiamo sul piano della realtà fisica, considerato nei tempi lunghi della storia della Terra e non su quelli brevissimi della storia umana, la conclusione cui saremo portati ad arrivare sarà alquanto simile. Noi crediamo di essere grandi, nel bene come nel male: ma non è vero, perché, comunque, su scala biologica e geologica siamo decisamente poiccoli. Accanto ad una sequoia della California, che può vivere anche 1.000 anni, o ai piedi di una montagna che può rimanere inalterata per milioni di anni, l'uomo è una creatura modesta.
I disastri ecologici provocati dall'uomo e dalla civiltà tecnologica - deforestazione, inquinamento atmosferico, distruzione di specie viventi, piogge acide, buco nello strato di ozono, effetto serra - sono gravissimi per l'immediato; ma la Terra possiede risorse per medicare le proprie ferite e per rimarginarle interamente nel corso del tempo. Di tutti i danno sopra elencati, l'unico realmente irrimediabile è quello dell'estinzione delle specie viventi. Tuttavia, la storia della Terra ha conosciuto numerose estinzioni di specie viventi, anche se dovute a fattori naturali e non all'azione distruttiva di una singole specie a danno delle altre; ed esse non hanno impedito che la vita continuasse a prosperare.
La verità è che, se l'intera umanità scomparisse da un giorno all'altro, la stragrande maggioranza delle altre specie viventi non se ne accorgerebbe neppure. Non se ne accorgerebbero gli insetti, se non in senso positivo: come le api, che ritroverebbero la strada dell'alveare per la scomparsa delle interferenze elettromagnetiche nell'atmosfera; o come le rondini e altri uccelli migratori, che potrebbero riprendere i loro spostamenti, modificati a causa dell'inquinamento dei luoghi di nidificazione estiva e di riproduzione.
Le chiazze di petrolio e di nafta disperse in mare dalle petroliere, poco alla volta verrebbero scomposte e riassorbite; e così le nubi di gas velenosi che stazionano sopra le nostre aree industriali, e che i venti trasportano poi ovunque.
Gli unici esseri viventi che soffrirebbero dalla nostra scomparsa sarebbero alcune specie animali domestiche, le quali, tuttavia, non tarderebbero a rinselvatichirsi e a prosperare, come i cani e i cavalli (e ne abbiamo già diversi esempi storici); mentre le piante selezionate dall'uomo ad uso alimentare o industriale, non più sostenute artificialmente nella loro lotta per la sopravvivenza, cederebbero il passo alla vegetazione spontanea, che le ingoierebbe completamente. Prive di concimi chimici e di protezione contro gli organismi parassiti, esse dovrebbero retrocedere con la stessa rapidità con cui hanno potuto avanzare, nelle ultime centinaia di anni. La foresta, la savana, la prateria, si prenderebbero la solenne rivincita sul paesaggio vegetale antropizzato.
Il ferro, cemento, l'asfalto, la plastica, il vetro, per non parlare del legno lavorato, verrebbero distrutti dagli organismi demolitori nel giro di alcuni anni, decenni o secoli: la natura non ha fretta, solo gli uomini ne hanno.
La carta e i circuiti elettronici sono destinati a durare ancora meno: per cui tutte le nostre opere letterarie, musicali, pittoriche, architettoniche; tutti i trattati scientifici, i teoremi geometrici, gli sforzi del pensiero umano, andrebbero perduti inesorabilmente, in un tempo sorprendentemente breve.
Un interrogativo cui è più difficile rispondere, ovviamente, è quello relativo al giudizio da dare sul significato della scomparsa dell'uomo dal nostri pianeta: un evento ipotetico, ma non impensabile e, anzi, abbastanza probabile in tempi brevi, e assolutamente certo in tempi lunghi. È assolutamente certo, infatti, che l'uomo scomparirà, come sono scomparse, nel corso delle ere geologiche, tutte le antiche specie viventi; si tratta solo di vedere se sarà una scomparsa catastrofica e improvvisa, dovuta alla sua stessa follia (ad esempio, mediante un conflitto atomico), oppure lenta e graduale, per cedere il posto a una specie intelligente più evoluta.
In ogni caso, il punto centrale su cui occorre riflettere è che l'uomo non costituisce l'alfa e l'omega della creazione: essa esisteva prima di lui, e continuerà ad esistere dopo di lui.
Questa considerazione non è accettata o mette seriamente in imbarazzo coloro i quali vi vedono una smentita delle proprie convinzioni religiose, in base alle quali il mondo sarebbe stato creato appositamente per gli umani, uniche creature dotate di intelligenza e libero arbitrio e, pertanto, uniche creature veramente degne di sopravvivere.
Anche la semplice riflessione che, in base a un elementare calcolo statistico, nell'Universo esistono innumerevoli altri mondi abitati da razze intelligenti, crea disagio e moti istintivi di ripulsa presso un tale genere di persone. Nelle religioni monoteiste, in particolare, la grande maggioranza dei fedeli parte dal presupposto che il mondo sia stato creato per fare da scenario alla marcia trionfale dell'uomo, al quale Dio avrebbe accordato uno statuto ontologico preferenziale, innalzandolo al di sopra di tutte le altre creature viventi. I cristiani, ad esempio, sono convinti che Gesù Cristo sia venuto sulla Terra per redimere gli uomini e soltanto gli uomini: nei Vangeli, infatti, non si parla del destino finale delle altre specie viventi.
Tuttavia, e anche se siamo consapevoli di dire qualcosa che potrebbe scandalizzare certe anime pie, non ci sembra che quella antropocentrica sia l'unica maniera di vivere il fatto religioso, né l'unica maniera di leggere i testi sacri delle diverse religioni, comprese quelle rigorosamente monoteiste. Se in esse si parla di una rivelazione fatta agli umani in vista della loro redenzione, non si deve però escludere - né in via di principio, né in via di fatto - che una redenzione possa esistere anche per le altre creature viventi (cfr. il nostro precedente articolo: «Esiste, per gli animali, una possibilità di redenzione dalla sofferenza?», sempre sul sito di Arianna).
Né l'ammissione dell'esistenza di innumerevoli altre razze intelligenti nell'Universo dovrebbe contrastare, di per sé, con il riconoscimento della dignità dell'essere umano, dotato di intelligenza e di libero arbitrio.
La verità è che noi siamo troppo ignoranti, oltre che troppo presuntuosi, per poterci esprimere con sicurezza in merito alla supposta superiorità della specie umana rispetto alle altre.  Ne sappiamo veramente troppo poco per tirare delle conclusioni: perché, ad esempio, i delfini sembrano manifestare una innata benevolenza verso gli esseri umani, che manifestano porgendo loro aiuto quando si trovano in procinto di annegare? Eppure, il fatto è stato osservato molte volte nel corso della storia (cfr. F. Lamendola, «Il delfino d'Ippona, triste parabola dell'antropocentrismo», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Dunque, tornando al nostro interrogativo iniziale: un mondo senza più esseri umani, sarebbe migliore o peggiore dell'attuale?
L'unica risposta onesta ci sembra essere questa: noi non abbiamo gli strumenti per decidere una questione del genere, a meno di precisare meglio il significato di termini come «migliore» e «peggiore», e, pertanto, come «bene» e «male».
E poi: bene per chi, male per chi?
Se assumiamo il punto di vista delle altre specie viventi, non vi è dubbio che dovremmo concludere che la scomparsa dell'umanità sarebbe un bene; sarebbe un male, solo se ci limitiamo al punto di vista della nostra stessa specie.
Se, poi, volessimo innalzarci al di sopra di una prospettiva puramente soggettiva, e tentare di ragionare in funzione del Bene in sé e del Male in sé, allora, probabilmente, dovremmo rispondere che non lo sappiamo.
L'essere umano, infatti, è un enigma e una sfida: può volare verso l'alto, nelle rarefatte regioni spirituali, dimostrandosi generoso, leale, giusto e compassionevole; ma può anche sprofondare verso le regioni più infere, trasformandosi in una creatura maligna e insensatamente crudele.
A questo punto, se esistono un Bene in sé ed un Male in sé - e noi lo crediamo -, l'uomo dovrebbe riscuotersi dalla nebbia morale in cui si è abituato a brancolare, e riscoprire la propria vocazione alla trascendenza, cioè al Bene, manifestazione dell'Essere dal quale tutto proviene (anche il male, certo: ma come occasione di un bene ulteriore, e non come fine a se stesso).
Cosa che non può fare, sino a quando continua a pensarsi orgogliosamente isolato dalla famiglia dei viventi, come se possedesse un arcano diritto su di loro; ma che potrà fare, se sarà abbastanza saggio da mettere la propria intelligenza in armonia con la totalità del creato, e non al servizio di disegni egoistici, ai danni delle altre specie viventi o, all'interno della sua stessa specie, ai danni dei propri simili.