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L’utopia e la gioventù del mondo. Intervista con il Professor Costanzo Preve

di Luigi Tedeschi - 27/07/2009


1) Il ricambio generazionale è un fenomeno fisiologico, indispensabile alla vita di ogni società. Esso è sempre portatore di elementi di rottura, trasformazione, continuità tra loro inscindibili. Attraverso le nuove generazioni, la società può prefigurare l’immagine di sé stessa nel futuro, può comprendere le proprie potenzialità di sviluppo, così come le carenze del propri o presente. Nella seconda metà del ‘900 sembra essere scomparso quel processo di rottura – continuità che aveva garantito la perpetuazione degli stati europei per secoli, senza che nuovi ordini di valori (che non fossero quelli dell’economicismo cosmopolita), potessero conferire alle società occidentali una loro specifica ragion d’essere nella storia del nostro tempo. Il fenomeno del ’68 ha rappresentato una rottura che ha reciso le radici della cultura europea, data la sua incompatibilità con l’avanzata progressiva di uno sviluppo, sia economico che tecnologico, che annullava sia le specificità culturali dei popoli, sia altre forme identitarie di organizzazione sociale alternative ad un modello capitalista – consumista cosmopolita che diffondesse benessere e consumo generalizzato, uguaglianza e omologazione, libertà ed individualismo. Ma il ’68 non fu un fenomeno accidentale della storia: esso si affermò perché nella società europea occidentale post bellica non c’era rimasto nulla o quasi da conservare. La fine della seconda guerra mondiale coincise col tramonto dell’eurocentrismo e la conseguente emarginazione dell’Europa dalla storia. La ricostruzione post bellica venne compiuta alla luce dei nuovi equilibri politici mondiali. I paesi europei, si adeguarono per amore o per forza ai modelli del bipolarismo mondiale americani o sovietici, in base alle rispettive aree di occupazione. Come retaggio della vecchia Europa rimasero quindi i sensi di colpa (per colonialismo ed olocausto), dal punto di vista culturale, moralismo piccolo borghese quale relitto di antichi valori etici sia civili che religiosi nell’ambito sociale, conformismo omologante, sia individuale che collettivo, in campo politico. Per quanto riguarda l’Italia, la rottura epocale che condusse alla nascita della 2° repubblica coincise con la fine del bipolarismo mondiale e l’avvento del capitalismo globale made in USA. Ma della prima repubblica c’era forse qualcosa da conservare? Forse il falso stato sociale scaturito da compromesso liberal – cattolico – comunista sfociato poi nella palude del partito – stato democristiano, che, attraverso assistenzialismo, clientelismo e corruzione garantì il proprio potere, il capitalismo confindustriale e l’Italia all’occidente? Oggi l’Italia è un paese di vecchi. La continuità del sistema precedente è stata in questi ultimi 15 anni dal riciclaggio in senso liberista dei ruderi ideologici della 1° repubblica. Il ricambio generazionale non può realizzarsi in una società in cui dominano modelli di riferimento globali estranei ad essa. Gli stati europei sembrano ruderi di epoche ormai tramontate, che sussistono per l’inerzia di un tempo che manifesta sempre più il loro vuoto di senso.

Esprimendo in modo chiaro, netto e deciso il tuo rifiuto di ogni nostalgismo per la cosiddetta Prima Repubblica Italiana (1946 – 1992, e cioè dal referendum monarchia – repubblica vinto dalla repubblica al colpo di stato giudiziario extraparlamentare surrealmente chiamato Mani Pulite) tu mi inviti veramente a nozze, consentendomi di chiarire ancora una volta la mia posizione, anche se l’ho già fatto molte altre volte in precedenza, anche all’interno dei nostri dialoghi. Ma si può sempre dire qualcosa di nuovo, e soprattutto di meglio articolato.
Mi permetterai però di iniziare da un possibile dissenso, non tanto concettuale o storiografico, quanto di “sensibilità”, dovuto certamente alla forza inerziale delle nostre rispettive provenienze politiche, come è noto diverse se non opposte. Si tratta di quello che tu chiami il complesso di colpa europeo per il colonialismo e per l’olocausto, che tu metti insieme facendo capire che intendi accostarli, e considerarli omogenei. Mi permetto di dissentire. Non li considero omogenei, ma questo non certamente per ragioni pregiudiziali di “sinistra”, ma grazie ad un ragionamento autonomo. Oggi il colonialismo e l’olocausto non sono elementi simbolici omogenei di un comune senso di colpa inespiabile dell’Europa. È invece tutto il contrario. Rifiutare il colonialismo, sia pure nella forma largamente simbolica e figurata della storiografia (penso ad Angelo Del Boca) significa non certo rifiutare la nuda esistenza di fatti irreversibilmente accaduti, ma rifiutare il presupposto di superiorità occidentalistica sul resto del mondo ed i cosiddetti “barbari da civilizzare”. Ora, è questo il presupposto di superiorità occidentalistica che sta dietro, sopra e sotto alla nostra subalternità all’americanismo imperiale, che ha trasformato la stessa NATO (e quindi anche noi italiani) in mercenariato globale per le guerre geopolitiche dell’impero USA. È invece diverso il caso dell’olocausto. Lo sterminio degli ebrei da parte di Hitler e dei suoi alleati (trascuro qui sia il numero delle vittime che i gradi di intenzionalità, elementi che dovrebbero essere lasciati alla libera discussione degli storici, e che invece sono “tabuizzati” dal Politicamente Corretto a direzione ideologica sionista) è effettivamente impiegato per rafforzare l’inespiabile senso di colpa degli europei, e quindi per rafforzarne la loro incorporazione occidentalistica subalterna. E quindi, se proprio non vado errato, anticolonialismo ed “olocaustismo” non sono omogenei, ma sono addirittura opposti. In un caso si ha un rafforzamento simbolico della continuità del suprematismo occidentalistico e della sua “missione di civiltà”, e nell’altro caso si ha invece la perpetuazione di un senso di colpa intergenerazionale che porta alla totale impotenza progettuale europea. E con questo, chiudo provvisoriamente, per ragioni di spazio, un tema che meriterebbe ben altro ampliamento.
E veniamo ora al tema che ci interessa, quello del bilancio ragionato del periodo della prima repubblica italiana (1946 – 1992). Lo stiamo facendo, però, non certo in un laboratorio storiografico protetto, ma all’interno di una crisi politica devastante (estate 2009). Da un lato, un Paperonismo Puttanesco di un Uomo-Viagra circondato di tette e di culi, dall’altro un Golpismo Giudiziario a base moralistico-ipocrita che intende pur sempre rovesciare con l’arma degli scandali sessuali un risultato elettorale uscito dalle urne, attraverso una diretta americanizzazione della politica fino ad oggi ignota all’Europa (del tipo: rovesciare Clinton perché ha fatto sesso orale con un’arrampicatrice sociale consenziente). La miseria di quanto sta avvenendo è tale che ogni persona moralmente integra deve chiamarsi fuori da questa merda, e smettere di tifare per l’Uomo-Viagra contro il Golpismo Moralistico, o viceversa. Intellettuali, professori universitari, giudici, insegnanti, giornalisti, sono per il Golpismo Moralistico. Negozianti, primari, pensionati securitari, casalinghe teledipendenti, clientele meridionali sono per l’Uomo-Viagra. Il nostro dialogo ha molti presupposti, ma uno di essi è fondamentale: entrambi ci teniamo rigorosamente fuori da questa oscena e degradata pantomima.
Il presupposto metodologico per il bilancio (per te negativo) che tu mi inviti a fare sta a mio avviso nella distinzione fra tre diversi piani del discorso:
1) La rammemorazione soggettiva dell’esperienza personale e generazionale del periodo 1946 – 1992, che di per se non ha assolutamente nulla a che fare con il livello politico superficiale della prima repubblica italiana, e che concerne tutti gli italiani che hanno oggi più di cinquant’anni. Una simile rammemorazione è inevitabilmente autobiografica e quindi narcisistica (del tipo “come eravamo”), ma non può essere evitata, anche perché la stessa storia orale (oral history) l’ha legittimata come fonte storica integrativa.
2) Il vero e proprio bilancio politico-storiografico della prima repubblica italiana, riducendo ove possibile al minimo l’interferenza soggettiva personale, ma cercando di individuarne i fondamenti sociali ed ideologici principali.
3) Il giudizio storico sulla seconda metà del novecento inteso come fenomeno globale, certamente in parte coincidente con la prima repubblica italiana, ma da tenere ben distinto da essa, in particolare nel suo rapporto contrastivo con gli ultimi vent’anni (1989 – 2009). Premetto subito che darò un giudizio totalmente positivo sul primo punto, totalmente negativo (e quindi coincidente con il tuo) sul secondo, ed invece parzialmente positivo sul terzo. Ma discutiamone con ordine.
Per quanto riguarda il primo punto, ringrazio Dio (o il Caso, o tutti e due) per essere nato in Italia nel 1943. Ho evitato di essere fra i milioni di morti del grande macello suicida che i libri di storia chiamano Prima Guerra Mondiale. Ho evitato, come non ha potuto fare mio padre, la guerra coloniale in Etiopia del 1935. Ho evitato, come non ha potuto fare il mio zio paterno, di morire in Russia nel 1942 in una guerra ideologica di aggressione al comunismo, di cui continuo ad avere un giudizio storiografico globale positivo (al netto di errori e di orrori, da me presi debitamente in considerazione). Ho evitato nel 1943 di essere messo nella tragica situazione di dover scegliere una delle due parti in una guerra civile, che soltanto dopo la sua fine fu sacralizzata moralmente con la distinzione fra Caduti per la giusta causa e Caduti per la causa sbagliata. Ho evitato il decennio degli anni Cinquanta, definito da Franco Fortini i Dieci Inverni. In compenso, ho “imbroccato” (e ne sono pienamente consapevole) il benedetto periodo delle aspettative crescenti, dei viaggi facili, del facile reperimento di un lavoro stabile e sicuro, della vivacità culturale, del gratificante agonismo ideologico (sia pure in un contesto dettatoci dalla generazione precedente, cui fummo costretti a conformarci), di un quadro internazionale benedetto, in quanto bipolare (sia pure rigido e manipolato) e non ancora imperiale, e soprattutto (lo ripeto) della stabilità e della sicurezza del lavoro (niente call-center ed altre simili porcate di oggi). In definitiva, perché non dovrei essere consapevole, a posteriori e vedendo l’oggi, di avere “imbroccato” una finestra storica sostanzialmente felice?
Passando all’argomento che più ti preme, e cioè al bilancio storico-politico della prima repubblica italiana (1946 – 1992), devo dire di avere letto alcune sintesi (ne ricordo tre: Accame, Lanaro e Crainz), ma di preferire per ragioni di spazio esprimere qui direttamente la mia opinione. Sono d’accordo con te che non c’è niente da rimpiangere (se non la giovinezza e l’epoca storica delle aspettative crescenti e della rivoluzione, in realtà oggettivamente impossibile ma ritenuta soggettivamente possibile). E come potrei rimpiangerla, non avendo mai fatto parte dei cortigiani della classe politica che ne ha formato la costituzione materiale, non importa se al centro, a sinistra o a destra? Come potrei rimpiangerla, non avendo mai fatto parte di quelle due metà complementari che erano i pidocchietti democristiani assunti per diritto divino nella televisione di Bernabei e gli intellettuali “organici” del mastodonte manipolato PCI? Come potrei rimpiangerla, conoscendo il modo in cui, con la scusa degli “opposti estremismi”, regnavano i servizi segreti USA, gli anarchici volavano dalla finestra presi da “malore attivo” e degli allucinanti deficienti uccidevano giornalisti con un colpo di pistola alla testa in nome della classe operaia fordista della catena di montaggio?
La prima repubblica italiana fu a tutti gli effetti, politicamente, una semicolonia proconsolare occupata da un impero contro un altro, che non ha mai neppure saputo produrre un equivalente patriottico e nazionale come il benemerito generale francese De Gaulle. Dovendo ad ogni costo “dare dei voti” (in fondo, li ho dati per trentacinque anni), promuoverei soltanto Togliatti ed Andreotti. Il primo almeno credeva nella inevitabile vittoria storica del socialismo sul capitalismo, mentre il secondo difendeva con la sua aria da gattamorta democristiana spazi minimi di manovra in Medio Oriente. Non riesco a stimare Almirante, Berlinguer e Craxi, ma lo spazio mi impedisce qui di motivare le mie ragioni. E tuttavia, persino queste tre mediocrissime figure sono superiori ai tre “diadochi” Fini, Bertinotti e D’Alema, tre figuri della seconda repubblica formatisi tutti e tre negli apparati ideologico-politici della prima repubblica. Nel linguaggio filosofico di Heidegger, la prima generazione era ancora portatrice di una “metafisica” (intesa come valori in cui si credeva ancora), mentre la seconda generazione è portatrice soltanto di una “tecnica” (intesa come pura e semplice gestione manipolativa di un potere interamente deideologizzato). Ma non perdiamoci con gli alberi, e cerchiamo di considerare soltanto la foresta.
Il 1958 è certo stato un anno importante della nostra storia recente. Si tratta dell’anno che gli storici dell’economia individuano come l’anno dell’inizio del cosiddetto “miracolo economico”, l’anno in cui per la prima volta dal 1861 gli occupati dell’industria superano per numero i contadini, ed  infine l’anno del debutto di Celentano, Mina e De Andrè. Ma si tratta di una storia della modernizzazione, non della storia degli apparati politici della prima repubblica.
Analogamente, il 1968 non è per nulla un anno “politico”, come tu sembri suggerire. Le strutture politiche restano praticamente intatte di fronte alle manifestazioni studentesche (1968) ed operaie (1969). Il Sessantotto (da non confondersi con gli eventi differenziati e disomogenei dell’anno 1968) resta come data simbolica di instaurazione di un’etica liberalizzata, superficialmente antiborghese e profondamente ultracapitalistica, che oggi dopo più di quaranta anni, vediamo interamente dispiegata nella sua forma più odiosa e disperante. Si tratta dell’individualismo senza freni, in cui la contestazione di allora è divenuta norma conformistica per l’oggi. Di politico c’è poco, almeno nel senso stretto del termine.
In quegli anni, tuttavia, si consolidò quella che chiamerei la “votomania identitaria ossessiva” degli italiani, frutto del bipolarismo DC – PCI, che è sopravvissuta a quegli anni. Prendiamo le percentuali dei votanti nelle ultime elezioni europee del giugno 2009. Cominciamo dal Lussemburgo (91 per cento) o dal Belgio (90 per cento). Qui è evidente che queste percentuali da incubo riflettono gli interessi economici di gruppi di interpreti, traduttori, impiegati, albergatori, autisti, prostitute, eccetera, al servizio degli apparati burocratico-parassitari di Eurolandia. Passiamo poi alla Germania (43 per cento) ed alla Francia (40 per cento). Qui si ha a che fare con normali paesi europei semisovrani, i cui cittadini manifestano la loro sostanziale giustificata indifferenza per Eurolandia. Abbiamo poi l’Olanda (36 per cento) ed il Regno Unito (34 per cento). Qui si ha a che fare con paesi solo formalmente europei, in realtà americanizzati e collegati direttamente all’impero USA. Ma passiamo al Portogallo (37 per cento), alla Spagna (44 per cento), ed alla stessa Grecia, che pure è abbondantemente sussidiata dai contributi europei all’agricoltura (52 per cento). È evidente che persino nell’area mediterranea l’Europa è percepita (correttamente) come l’Eurolandia dei banchieri e della globalizzazione liberistica. Bene, passiamo ora all’Italia, dove troviamo un demenziale e sbalorditivo 66 per cento. Ma ti rendi conto: il 66 per cento! Come spiegarlo?
Si spiega come eredità votomaniaco-identitaria di massa bipolare della prima repubblica, allora DC contro PCI, oggi Amici di Berlusconi contro Nemici di Berlusconi. Non c’è altra spiegazione. Dopo un ventennio (e quale ventennio) la votomania identitaria, con contorno isterico di giudici, giornalisti ed intellettuali (aiuto, i populisti!! Aiuto, i comunisti!!) è restata praticamente identica. Di qui dobbiamo partire.
Nell’attuale fase storica del capitalismo oligarchico integrale, la democrazia non esiste più, neppure nella vecchia forma della democrazia rappresentativa costituzionale. La costituzione viene violata quando è ritenuto necessario, come avvenne in Italia nel 1999 per la guerra aerea (ma sempre guerra fu!) contro la Jugoslavia, fatta per ragioni di insediamento geopolitico USA nei Balcani (Camp Bondsteel). Il ricattabile ex-comunista D’Alema fu l’uomo giusto per farla. Doveva accreditarsi, e lo ha fatto. La prima repubblica italiana non fu abbattuta per via elettorale, ma con un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, con asfissiante coro moralistico del circo mediatico ed universitario. Finirà così anche la seconda, legata al nome di Silvio Berlusconi? A tutt’oggi non posso saperlo. Leggendo un maligno articolo di Adriano Sofri (La Repubblica, 19-06-09) sembra di capirlo. Adriano Sofri, il mandante dell’omicidio del commissario Calabresi, l’apologeta dei bombardamenti umanitari e del sionismo assassino, rappresenta bene la degenerazione politica dell’estremismo sessantottino di “sinistra”, ed il suo articolo (che consiglio caldamente di leggere), mostra alla luce del sole la natura antidemocratica e golpista di questa classe intellettuale. Craxi fu detronizzato per le tangenti (che prendevano tutti, ed anzi prendevano più ancora di lui), Berlusconi deve essere detronizzato per la sua senile sensibilità verso culi, tette e carne fresca di puttanelle disinibite. Questo è il far politica nell’Italia di oggi. È possibile uscirne?
Non certo con questa cultura politica. Non certo con questa classe politica di amministratori cinici. Non certo con questo circo mediatico di venduti alla cupola ideologica imperiale. Non certo con questo clero universitario che si orienta in base alla nuova religione del Politicamente Corretto (ne sunteggio qui i dogmi: il Populismo come unica categoria politologica multiuso, che esprime il suo odio verso il popolo vero e proprio, sostituto simbolicamente da gay, femministe e migranti; l’Antifascismo cerimoniale in assenza completa di Fascismo; la religione olocaustica della unicità imparagonabile di Auschwitz, con assoluzione contestuale di Hiroshima; la sacralizzazione eterna della dicotomia Destra/Sinistra; infine, la religione interventistica dei Diritti Umani a segnalazione mediatica esclusiva). Non si vedono infatti i soggetti politici organizzati che potrebbero fare da base storica ad una uscita da questo incubo tragicomico.
Passando al terzo punto, che a mio avviso è più importante dei primi due, ci si può chiedere se è legittimo dire che l’ultimo ventennio è stato peggiore del quarantennio precedente. È evidente che in questi giudizi c’è un’ineliminabile elemento psicologico e generazionale personale, e tuttavia continuo a ritenere legittima questa domanda. Già all’inizio dell’ottocento, in polemica contro la filosofia della storia di Hegel, c’è stato qualcuno che ha detto che è impossibile paragonare le varie epoche storiche, perché “tutte sono egualmente vicine a Dio”. Io non lo penso. Alcune sono più vicine a Dio ed alcune più lontane, sia per chi crede in Dio sia chi (ed è il mio caso) con questa parola intende il significato complessivo dell’esistenza umana nel tempo, tempo che è il luogo della progressiva presa di coscienza della sua natura solidale e comunitaria. In questo senso non ho paura di dire apertamente che il ventennio recente è stato peggiore del quarantennio precedente, e non certo per la mia insignificante persona di pensionato benestante, ma per l’intera umanità.
E perché lo dico? Lo dico perché condivido nell’essenziale una recente formulazione di Alain de Benoist, contenuta in un’introduzione ad una antologia della rivista francese Rébellion. Parlando del nemico principale oggi, de Benoist ne elenca cinque: il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, ed infine gli Stati Uniti sul piano geopolitico. Non si poteva dire meglio. Ora, il ventennio recente è peggiore del quarantennio precedente perché ha rafforzato tutte e cinque queste orribili realtà (con il solo rilievo che personalmente, con Eugenio Orso, penso che la vecchia borghesia sia stata sostituita da un nuovo mostro, una sorta di global upper class post borghese).
Nonostante i suoi aspetti antropologicamente ripugnanti, che spesso portavano coloro che lo conoscevano bene dall’interno ad uscirne in modo neoliberale (due soli esempi italiani: Lucio Colletti e Massimo Caprara), il vecchio comunismo storico novecentesco (di cui accetto comunque il principio della comparabilità storica sia con il liberalismo sia con il fascismo – si rassicuri de Benoist!) ha pur sempre funzionato come freno (katechon). Contro l’aziendalizzazione integrale del mondo della vita degli uomini. Recentemente l’acuta filosofa italo-francese Michela Marsano ha analizzato dettagliatamente l’estensione del modello antropologico dell’azienda capitalistica in tutti gli aspetti della vita umana. La forma politica del liberalismo favorisce in tutti i modi questo orrore antropologico, e per questo è il nemico principale, molto più di qualunque forma di cosiddetto “populismo”, di veterocomunismo (Corea del Nord) o di presunto fascismo (Birmania, Sudan, eccetera). Una cultura che non riesce più neppure ad individuare il nemico principale è destinata all’estinzione, lamentosa, testimoniale o ridicola.
Oggi i due più grandi statisti del mondo, che Dio e Allah li preservino a lungo, sono il venezuelano Chavez e soprattutto il meraviglioso iraniano Ahmadinejad, uscito fortunatamente vincitore dalle recenti elezioni, contro cui è stata “montata” una rivoluzione arancione di tipo Ucraina e Georgia, per fortuna fallita. Nel momento in cui scrivo non so ancora se il Golpismo Moralistico riuscirà o meno ad abbattere l’Uomo-Viagra, che ricordo essere stato votato dalla maggioranza degli italiani (non da me, certo, ma dalla maggioranza dei votanti). Il modello culturale italiano maggioritario, detto in modo telegrafico, è la somma di Confindustria + Centri Sociali, e cioè l’unione di Padoa Schioppa, Scalfari e Marcegaglia da un lato, e Vendola, Bertinotti e Luxuria dall’altro. Aziendalismo nel tempo di lavoro, sballo e droga nel tempo libero. Chi non ha ancora capito che si tratta di elementi complementari e non di opposti, deve essere esortato ad occuparsi di pesca con la lenza e di raccolta di francobolli, e non di filosofia e di scienze sociali. E tuttavia, il discorso è appena incominciato. Bisognerà approfondirlo più avanti. Il circo corrotto degli intellettuali mediatici di passerella non ci aiuterà certamente, ma ci silenzierà. Tuttavia, meglio così.

2) La età giovanile oggi viene in una condizione esistenziale in cui predominano incertezza e nebulosità circa il futuro, data la mancanza di prospettive nel campo lavorativo, sociale e nella vita affettiva. Domina la precarietà esistenziale, intesa come eterna instabilità del presente, assenza di obiettivi stabili nel tempo. E’ evidente che il sistema economico globale di ispirazione liberista ha generato una cultura, una psicologia, una antropologia umana basata sulla precarietà. L’economicismo domina la vita delle masse: se precaria è la vita economica, precaria è anche l’esistenza. In realtà, al di là delle problematiche economiche del nostro tempo, è la condizione umana ad essere di per sé stessa precaria: precaria, in quanto di breve durata, è la vita dell’uomo in rapporto alla storia (per non parlare delle ere geologiche), precario è il tempo presente, incalzato sempre da un futuro imminente che muta continuamente le condizioni del presente, precarie, perché limitate, le possibilità umane di trasformazioni dello stato di cose presenti, dato l’inevitabile condizionamento delle realtà storiche e geografiche in cui all’uomo è dato di vivere, fallaci e precari si rivelano spesso gli obiettivi raggiunti, perché vanificati e smentiti da successivi eventi non prevedibili. Ma niente e nessuno può distogliere l’uomo dalla sua aspirazione perenne alla stabilità, intesa come una dimensione futura che gli consenta di superare i limiti e i condizionamenti imposti dalla precarietà del presente. L’idea liberale secondo cui l’uomo è un essere destinato ad espandersi, sembra essere smentita dalla ineliminabile aspirazione umana ad eternarsi, a proiettare cioè sè stesso verso tempi nuovi e nuove mete, sia nella dimensione umana che in quella trascendente propria delle religioni. Prevale dunque la prospettiva dell’uomo proiettato a eternarsi nel tempo e al di là si esso, piuttosto che quella di espandersi nello spazio, dimensione di per sé precaria. Al di là del pensiero unico e del relativismo etico oggi dominanti, da epoche primordiali fino ai giorni nostri, le conquiste della scienza, le creazioni artistiche, le dottrine politiche, l’evoluzione culturale sussistono e si sviluppano in quanto generate da una idea di assoluto inteso quale bisogno antropologico di superamento della precarietà contingente. L’uomo è infatti sempre alla ricerca di una filosofia (mai del tutto compiuta e definitiva), generatrice di una condizione umana di equilibrio stabile nel  presente e creatrice di nuove mete e aspirazioni da raggiungere nel futuro.

Sono pienamente d’accordo con il modo con cui imposti filosoficamente la questione, e mi posso pertanto limitare ad integrarlo con un ragionamento personale. L’uomo è infatti un ente precario per sua stessa natura antropologica ed ontologica, in quanto non solo è continuamente minacciato dal fallimento dei suoi progetti, dall’infermità e dalla morte prematura (colgo l’occasione per affermare il mio accordo con l’interpretazione che della filosofia di Leopardi ha dato Sebastiano Timpanaro), ma è anche tormentato ed angustiato dall’anticipazione consapevole della propria morte individuale, anticipazione consapevole ignota agli animali (ricordo che sia Heidegger che Jaspers hanno scritto in proposito pagine convincenti). E tuttavia, vi sono due tipi di precarietà, la vecchia precarietà esistenziale, che provoca l’aspirazione alla eternizzazione simbolica della propria identità (metempsicosi indiana, immortalità greca dell’anima, resurrezione paolina dei corpi, sublimazione nelle cause storiche collettive alla Antonio Gramsci, eccetera), e la nuova precarietà economicistica, interamente concentrata in un presente visto come luogo dei consumi di beni e servizi o di ricerca incessante di lavori precari meglio pagati.
Ritengo che qui ci stia uno degli aspetti più inquietanti del presente storico in cui viviamo. Come tu rilevi correttamente, l’uomo è sempre stato un ente precario, ed addirittura questa precarietà, così dolorosa da vivere psicologicamente, è stata il fattore simbolico creativo di tutte le sue produzioni ideali, dai graffiti di bisonti nelle caverne alla Divina Commedia di Dante. La precarietà si sublimava in immortalità ed in permanenza, e questo, lungi dall’essere frutto di superstizione di ignoranti (come sostiene il positivismo imbecille in tutte le sue forme), era invece il meraviglioso connotato specifico della specie umana. Ma ora la precarietà economicistica taglia alla radice questa meravigliosa sublimazione ideale e culturale. L’uomo di oggi è un precario privato della proiezione simbolica all’infuturamento stabile, fattore che fino ad oggi ha caratterizzato tutte le esperienze filosofiche del mondo, dalla Grecia ad Israele, dalla Cina all’India. In termini nicciani, questa è l’epoca non certo del superuomo (o dell’Oltreuomo, la variante relativistica postmoderna del pensiero debole), ma dell’Ultimo Uomo, l’ente miserabile che sa che Dio è morto, e quindi che tutto diventa possibile ma anche indifferente. L’economicismo è il regno dell’Ultimo Uomo, il nostro incubo attuale.

3) Il succedersi ciclico delle generazioni non si risolve nella mera esigenza fisiologica della perpetuazione della specie. In tal caso, l’unica verità nella storia dell’uomo sarebbe quella nichilistica della morte, che alla pari di un buco nero spaziale assorbirebbe la vita nello scorrere indeterminato del tempo senza soluzioni di continuità. Il ricambio generazionale non avrebbe in tal caso alcuna rilevanza nella storia, che si ridurrebbe ad un piatto ed eterno succedersi della funzione riproduttiva della specie e la dimensione temporale stessa della vita umana sarebbe un concetto privo di senso, data l’irrilevanza del tempo nel susseguirsi meccanico ed uniforme degli eventi. Il ricambio generazionale è essenziale e rilevante nella condizione umana in quanto legato al divenire stesso della storia nel tempo. L’uomo, attraverso il rinnovamento continuo delle generazioni permea di sé il tempo, crea il suo tempo. Ogni generazione quindi, prende coscienza del proprio tempo, reinterpreta la storia in funzione delle proprie prospettive nel tempo che verrà e che gli è dato di vivere. Ogni generazione eredita una storia e le condizioni determinate da un passato prossimo e remoto, che divengono presto oggetto di negazione e trasformazione. Tali processi evolutivi sono possibili però, in quanto si realizza una continuità storica con quel passato che si vuole negare e/o trasformare. Attraverso il flusso del tempo, assistiamo allo scorrere di un divenire storico in cui ogni generazione costituisce la manifestazione del proprio “spirito del tempo”. Solo attraverso la comprensione dello spirito del tempo diviene dunque intellegibile la storia, non come mera narrazione, ma come ricerca di una logica immanente interna alla storia stessa, logica basata sul susseguirsi dei processi di trasformazione che si svolgono nel divenire storico. Lo spirito del tempo è quindi determinato dalle prospettive di negazione e rinnovamento delle eredità che la storia ci trasmette. Qual è allora lo spirito del nostro tempo? Non certo la supina accettazione da parte dei giovani del determinismo meccanicistico della espansione economica globale (peraltro dall’avvenire assai dubbio). Non certo la condizione di un essere umano alienato dalla logica di produzione – consumo. Nella precarietà immanente dell’individualismo liberale, non c’è spirito del tempo perché non c’è trasformazione ed evoluzione nel tempo. La condizione alienata nell’ oggettività del presente, che diviene eterno presente, genera un individuo fine a sé stesso, estraneo alle realtà storico sociali del nostro tempo. L’individualismo infatti produce una dimensione umana che è solo astratta e sterile di prospettive perché presuppone la fuoriuscita dall’uomo dal suo tempo e dal divenire della storia. L’atemporalità dell’individualismo, è il non essere dell’uomo nel tempo è l’alienazione di un uomo in una fuga fuori dal suo tempo e da sé stesso.
 
Il concetto da te evocato di Spirito del Tempo (Zeitgeist) comprende una unità dialettica di opposti complementari. Da un lato, rappresenta la coagulazione temporale provvisoria dell’unità espressiva di tutte le tendenze storiche vincenti e vincitrici, che dominano il presente sotto la forma dell’illusione di essere eterne, e di incarnare il Bello, il Giusto ed il Buono, laddove sono invece l’incarnazione del Brutto, dell’Ingiusto e del Malvagio (pensiamo alla globalizzazione neoliberista, che i suoi apologeti e servi presentano appunto come la concretizzazione dello Spirito del Tempo, e cioè dell’Incubo dell’Anticristo). Dall’altro lo Spirito del Tempo evoca necessariamente una reazione minoritaria, composta di anime (preferisco il termine greco di anima a quello moderno di individuo, in quanto per i nostri maestri greci psychè non era uguale ad atomon) che sono anche l’unità sociale minima di resistenza al potere. Con un pizzico di (scusabile) presunzione, ritengo che entrambi possiamo considerarci come anime resistenti all’odierno spirito del tempo.
Se fossimo animali (con tutto l’amore ed il rispetto che gli animali meritano) tutti coloro che non procreano (per impossibilità fisica o per scelta individuale) dovrebbero essere considerati inutili alla specie (cominciamo quindi a cancellare Leopardi). Personalmente, avrei dovuto essere eliminato a 27 anni, perché è a quell’età che mi sono riprodotto mettendo al mondo un figlio, e dopo non mi sono riprodotto più, ma, appunto, gli esseri umani non sono mantidi religiose. Il significato della loro vita non si esaurisce nella semplice anonima riproduzione della specie. Per questo tutti i riduzionismi biologistici, tanto di moda oggi (e non a caso) in un’epoca storica di chiusura del futuro e di eternizzazione del presente, non hanno nulla di “scientifico”, ma sono soltanto miserabili sintomi di uno smarrimento umano e filosofico più ampio.
Molto correttamente tu individui la principale caratteristica dell’individualismo nella atemporalità destoricizzata. La storia reale non ha mai conosciuto “individui” (nati concettualmente solo con Hobbes, Hume e Smith, ed in variante di “sinistra” con Rousseau). Ha sempre e solo conosciuto membri di comunità umane in rapporto reciproco, solidale e/o conflittuale. La peste individualistica che oggi ci soffoca deve essere considerata provvisoria e temporanea, frutto di una congiuntura che non credo proprio possa durare per sempre.

4) Il ricambio generazionale è indissolubilmente legato all’idea della giovinezza. Trattasi di una giovinezza perenne, presente in ogni tempo, perché ogni tempo conosce nuove generazioni e nuovi ideali di rinnovamento, che costituiscono il motore stesso della storia. L’età giovanile è identificabile con l’idea della soggettivazione del mondo. Il giovane che si affaccia alla vita prende coscienza di sé stesso, maturando una concezione soggettiva del mondo, in quanto quest’ultimo viene concepito in funzione della presa di coscienza del proprio essere nella società e nel presente storico. Da tale soggettivazione del mondo nascono inevitabilmente le utopie, quali visioni che trascendono il proprio tempo, in funzione di realtà dell’avvenire, ma in fieri nel presente. La visione utopica scaturisce dalla necessità di superare una realtà obiettiva in cui non ci si riconosce, di sfuggire alle condizioni alienanti della eredità storica, che impediscono il libero dispiegarsi delle aspirazioni di una nuova generazione che si sente soffocata dall’oppressione di un presente senza prospettive. Nell’età della maturità poi, attraverso la mediazione della soggettività delle aspirazioni con l’oggettività del presente storico, si potranno realizzare quelle trasformazioni che hanno come fattore di primaria generazione quelle visioni utopiche da cui scaturisce ogni rinnovamento del mondo. Nell’epoca attuale, la globalizzazione economica ha imposto in modello economico totalizzante in cui sta realizzando un processo inverso a quello scaturito dalla dimensione utopica dell’uomo. La struttura della società attuale, basata sulla ipertrofia della produzione e del consumo determina l’oggettivazione dell’uomo nelle dinamiche dell’economia della produzione e del consumo. Infatti è l’oggettività economica a creare una soggettività umana virtuale, compatibile e omologabile all’economia globale. La realtà socio – economica scaturita dalla globalizzazione ha condannato a morte l’idea forza della trasformazione del mondo. Forse sono queste le ragioni dell’assenza di utopie nel nostro tempo e la dissociazione dell’utopia dall’idea di giovinezza, intesa come soggettivazione del mondo. Il disincanto del mondo teorizzato da Max Weber forse è giunto alla sua compiuta realizzazione con l’oggettivazione dell’uomo nell’economia, nella tecnologia, nella virtualità telematica. L’utopia può definirsi tale, se prefigura realtà future, in cui si esprime l’anelito umano alla incondizionatezza, alla libertà dai limiti imposti da un’epoca ormai esaurita e senza avvenire. L’utopia è dunque l’idea che potrà presiedere ad un nuovo reincanto del mondo? Ogni rinnovamento del mondo deriva da un’idea utopica di incanto, di perfezione, di giustizia, di assoluto, e sorge proprio dalla coscienza delle inefficienze, dei bisogni, dei mali congeniti alla realtà presente.

 Accolgo con molto favore ed approvazione il tuo interessamento per la nozione di utopia, e colgo l’occasione di questa tua quarta domanda per chiarire brevemente la mia posizione politica e filosofica in proposito. Concordo sul fatto che la logica della globalizzazione mercatistica intende condannare l’idea utopica della trasformazione del mondo. Nello stesso tempo, per l’inesorabile dialettica che la pervade, essa incarna il massimo dell’utopia negativa (alla 1984 di Orwell, per intenderci), l’incubo dell’”arresto definitivo” del tempo storico nella mercatizzazione integrale non solo dell’economia (economia di mercato), ma di tutti i rapporti umani e sociali (società di mercato).
Ernst Bloch impostò a suo tempo in modo insuperabile la questione, affermando che l’utopia si occupa solo del presente. Più esattamente, essa prefigura, all’interno del presente, un presente alternativo. Ancora più esattamente, essa prefigura, all’interno del presente, un presente alternativo, sulla base di possibilità potenziali presenti già nel presente, anche se dominate e soffocate. Noterai che non ho mai usato la paroletta “futuro”, pur essendo ovvio che le utopie hanno generalmente un orientamento “futuristico” e non “tradizionalistico”, e di regola prediligono la prefigurazione del futuro alla nostalgia del passato. E tuttavia, a proposito del futuro, condivido il motto che recentemente Eugenio Orso ha premesso ad una sua convincente analisi delle classi sociali nel capitalismo globalizzato odierno, per cui “ignota è l’architettura del domani”.
Sulla base della definizione data di utopia, mi permetterai di sbozzare un breve percorso della mia concezione di utopia all’interno della tradizione filosofica occidentale. La filosofia greca nasce sulla base di una utopia della comunità, una comunità politica capace di impedire dall’interno, senza interventi provvidenziali esterni (il Salvatore cristiano, il Regno di Dio, eccetera), la dissoluzione anomica ed individualistica della comunità stessa. La filosofia non nasce quindi, se non indirettamente, dalla ricerca dei primi principi materiali (Talete) o dalla cosiddetta “meraviglia” (Aristotele). Essa nasce sulla base del mantenimento dell’utopia della comunità sociale solidale. Il primo grande pensatore “utopista” è allora Parmenide, il grande legislatore pitagorico di Elea, che la esprime nella forma, solo apparentemente misteriosa ed in realtà chiarissima, del concetto di Essere, eterno ed immutabile  (to on) in quanto non soggetto a cambiamento. Questo Essere è un’utopia sociopolitica, o più esattamente comunitaria, in quanto esprime in forma metaforica l’idea di permanenza nel tempo della perfetta legislazione pitagorica, estranea a qualunque “aggiornamento”, capace di regolare in modo insuperabilmente “perfetto” la convivenza comunitaria dei cittadini, contro l’irruzione dell’individualismo mercatistico portato dal denaro (chremata), la cui logica di sviluppo inevitabile, infinita ed indeterminata (apeiron) è la schiavitù per debiti per i più poveri.
Hegel sostenne acutamente che la Repubblica di Platone non era per nulla un’anticipazione greca della successiva utopia rinascimentale moderna (Tommaso Moro, Campanella, Bacone, eccetera), ma era l’espressione più pura dell’idealismo della cultura greca, ed era pertanto “ideale” come le forme ideali della grande scultura greca. Come la scultura greca portava nella materia l’ideale della perfetta forma del corpo, l’utopia platonica portava nella società l’ideale della perfetta forma della convivenza comunitaria umana. È del tutto evidente che l’architettura concreta della Repubblica di Platone non è accettabile secondo le regole del Politicamente Corretto di oggi (a partire dalla dittatura eugenetica dei matrimoni combinati dai governanti sulla base per di più di una “nobile menzogna”), ma non è questo il criterio giusto per cui essa deve essere giudicata. Si tratterebbe di un criterio anacronistico ed antistorico. La Repubblica è ideale come è ideale la statua di Afrodite. Entrambe sono in un certo senso del tutto “utopiche”.
Benché possa sembrare a prima vista strano, è stato Aristotele colui che ha filosoficamente fondato il concetto di “utopia” come piace a me ed a te, in quanto è stato Aristotele a distinguere con precisione il concetto di possibile come casuale, contingente ed aleatorio (katà to dynatòn) ed il concetto di possibile come potenzialità contenuta all’interno del concreto sviluppo dinamico di una realtà (dynamei on). L’utopia, intesa come potenzialità presente in un presente storico alternativo a quello dominante, deriva dialetticamente proprio dal concetto di essente-in-possibilità (e cioè appunto dynamei on).
Questa premessa, sia pure un po’ lunga, era necessaria, per mostrare come il concetto di utopia deriva dalla saggezza dei greci,  e non è stata improvvisamente inventata nel 1516 da Tommaso Moro con la sua nota operetta Utopia. Essa comprende due libri, e soltanto il secondo è dedicato alla descrizione dell’Utopia vera e propria. Il primo libro, spesso trascurato, è invece il più significativo, perché in esso Moro parla delle recinzioni (enclosures), che scacciano dalle campagne i contadini poveri, che diventano cosi spesso ladri per poter sopravvivere, ed in questo modo contribuiscono a far aumentare la criminalità, che non è pertanto dovuta ad una fantomatica malvagità innata nell’uomo. Sembra di leggere, con mezzo millennio di anticipo, un’analisi odierna del rapporto fra pauperismo, espropriazione dei più poveri e criminalità.
Il grande idealismo classico tedesco (che nella mia personale ricostruzione, che qui ovviamente non ho lo spazio per riassumere, comprende Fichte, Hegel e Marx, che per me non è affatto un “materialista”, ma il coronamento utopico della filosofia classica tedesca) è stato una grande utopia del ringiovanimento dell’umanità (Verjungen der Menscheit). Come tu hai correttamente notato nella tua domanda, l’utopia può anche essere definita una soggettivazione giovanile del mondo. Non si tratta però di questo o di quel giovane empiricamente dati, ma del Giovane (con la maiuscola) come concetto unificato ideale del ringiovanimento del mondo (si tratta peraltro del concetto di Io in Fichte, in cui l’Io giovanile distrugge i pregiudizi e le ingiustizie accumulatisi nella storia dal Non-io, che è poi una metafora concettuale unificata del Vecchio, in cui il Vecchio non è più il portatore della saggezza, ma dei pregiudizi).
Non c’è qui lo spazio, e neppure la necessità, di discutere la mia interpretazione di Hegel come portatore di una unità concettuale contraddittoria di Utopia e di Realismo. Si tratta di un realismo utopico (l’ossimoro è ovviamente intenzionale), in quanto il realismo è soltanto il freno a mano di un veicolo che percorre la via del perseguimento di una comunità utopica moderna, che non può certo riproporre e restaurare la grecità classica, ma deve incorporare la nuova individualità nelle nuove forme della famiglia, della società civile e dello stato. Non a caso, la logica iperindividualistica ed atomistica dell’attuale globalizzazione neoliberale tende a distruggere soprattutto la famiglia monogamica, la società civile delle professioni stabili che durano un’intera vita, e lo stato nazionale portatore della sovranità monetaria.
Marx raccoglie l’eredità dell’utopia comunitaria moderna di Hegel, e cerca di “infuturarla” nella sua società comunista senza proprietà privata, famiglia, società civile e stato. Qui mi sembra che l’errore concettuale di Marx (peraltro largamente scusabile, soprattutto ai suoi tempi) sia stato quello di cercare di dedurre l’utopia del futuro a partire da dati del tutto discutibili (in quanto fortemente esagerati, e quindi maldestramente estrapolati) del suo presente storico, a partire dalla sopravvalutazione delle capacità (in realtà modestissime) della classe operaia, salariata e proletaria, e dalla presunta incapacità (in realtà inesistente) della borghesia capitalistica nel riuscire a sviluppare le forze produttive (in realtà, le sviluppa fin troppo, in modo distruttivo, sia per l’ambiente che per la convivenza umana).
Pur autoconsiderandomi un allievo indipendente ed “eretico” di Marx, ritengo concretamente impossibili e impraticabili (e quindi negativi) proprio gli elementi del suo pensiero che piacciono a tutti gli anarcoidi, gli estremisti e i confusionari, e cioè l’estinzione dello stato, la morte della famiglia, la fine integrale della forma di merce, eccetera. Per quanto mi riguarda, il comunitarismo è soltanto il comunismo privato dei suoi aspetti impraticabili, che in realtà, sotto l’apparente forma di un collettivismo livellatore, derivano da un segreto individualismo, a sua volta ereditato non certo da Hegel, quanto da Rousseau, il cui contratto sociale equo derivava da individui alla Robinson, privi di legami familiari e comunitari precedenti.
Possiamo quindi riassumere il tutto in questo modo. L’utopia non è soltanto una vaga idea regolatrice di un nebuloso futuro, e non è neppure una consolazione moralistica per la miseria del presente. L’utopia è una idea-forza realistica, perché  “realmente” radicata in possibilità potenziali già esistenti qui ed ora. Le spietate oligarchie che ci governano, ovviamente, promuovono una visione del mondo anti-utopica (Popper, Dahrendorf, Bobbio, Habermas, eccetera), che chiamano ipocritamente modernità, oppure una visione del mondo iperrealistica da utopia negativa del tutto impraticabile (postmoderno, Sloterdijk, eccetera). Il sentiero dell’utopia vera, che definirei utopia realistica, è certamente stretto, ed è facile cadere. Ma mi sembra che stiamo faticosamente percorrendolo entrambi, e possiamo esserne moderatamente fieri e contenti.