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Un film al giorno: «Ondata di calore» di Nelo Risi (1970)

di Francesco Lamendola - 28/07/2009


Che cosa ci fa una giovane donna americana, bionda e bella, ma irrequieta e sempre più angosciata, moglie di un marito pressoché invisibile, in una città avveniristica costruita in mezzo al deserto, e chiusa in casa per sottrarsi a una interminabile, ossessionante tempesta di sabbia, che cancella lo scorrere del tempo e piomba ogni cosa in una atmosfera allucinante e surreale, alla Carson Mc Cullers?
«Ondata di calore» di Nelo Risi,  senz'altro uno dei film italiani più originali del cinema contemporaneo, è stato una co-produzione italo-francese del 1970, sceneggiato dal regista con Anna Gobbi e Roger Mauge e interpretato da una splendida e bravissima Jean Seberg (nei panni di Joyce, la protagonista), Luigi Pistilli (il dottor Volterra), Paolo Modugno (Cherif), Gianni Belfiore (Ali), Lilia Nguyen (la domestica indigena).
Per il rigore compositivo della narrazione, simile a una sapiente struttura architettonica; per la capacità di creare suspence e stimolare, al tempo stesso, numerose riflessioni di carattere psicologico e sociale; infine per la saldezza dell'impianto registico e per la straordinaria bravura dell'attrice protagonista, capace di reggere sulle spalle, praticamente da sola, novantun minuti di pellicola, oltretutto quasi senza parlare, crediamo che «Ondata di calore» si debba considerare un film da manuale: ed è un peccato che la sua lezione sia letteralmente caduta nel vuoto, al punto che sono in pochi, oggi, a ricordarlo.
Nel complesso, la critica è stata tiepidina, se non addirittura francamente ingenerosa, nei confronti di questo lungometraggio che esce così risolutamente da tutti i canoni di genere per costruire, con rigore quasi matematico, un discorso cinematografico radicalmente innovativo.
Certo non ha giovato, alla comprensione della sua coraggiosa volontà di creare un nuovo linguaggio narrativo, fatto di atmosfere intollerabilmente claustrofobiche, di primi piani ossessivi, di interminabili sequenze fatte di silenzi pesanti come pietre, il confronto - inevitabile, forse, per taluni aspetti - con il precedente «Diario di una schizofrenica», così lodato dalla critica impegnata e militante, anche perché così «politicamente corretto»; mentre «Ondata di calore» è apparso - a torto, secondo noi - meno compatto e lineare, più velleitario e, forse, confuso.
Né ci sembra sia stata apprezzata nel suo giusto valore la sapiente fotografia di Giulio Albonico (la sequenza della Seberg alle prese con la bambola di plastica è da manuale) che, pur essendo a colori, nelle scene esterne, con la città spazzata dalla sabbia portata dal vento del deserto e le case linde, dall'aspetto impersonale e quasi fantascientifico, dà quasi l'impressione di una pellicola girata in bianco e nero.
Per Paolo Mereghetti, si tratta di «un giallo ovattato girato con ritmi e vezzi da cinema d'autore»; salvato solo e unicamente dalla interpretazione della Seberg, quanto mai intensa; giudizio duro e gratuitamente maligno, perché Nelo Risi non ha i vezzi, bensì la stoffa del regista di cinema d'autore, con o senza il beneplacito dei critici più o meno blasonati.
Per il Morandini, si tratta di «un passo indietro (uno solo?) rispetto a "Diario di una schizofrenica" di cui conserva soltanto il rigore geometrico della scrittura»; per concludere con notevole perfidia: «Qui Risi fa dell'antonionismo di riporto».
Il confronto sfavorevole con il «Diario di una schizofrenica», girato nel 1968, ritorna peraltro nel giudizio di Tullio Kezich, e sia pure in toni più eleganti e meno astiosamente sgradevoli (ne: «Il Millefilm. Dieci anni al cinema, 1967-1977» (Milano, Mondadori, 1983, vol. 2, pp. 445):

«Dopo il "Diario di una schizofrenica" non è questo il film che ci attendevamo dal talento di Nelo Risi. Certo un'opera come "Ondata di calore" può impressionare favorevolmente per il rigore quasi geometrico della sua costruzione. Da un romanzo di Dana Moseley, ambientato nella provincia americana, Risi ha ricavato il ritratto di una donna sconvolta da una profonda crisi. E per rendere la situazione ancora più eloquente, il regista l'ha trapiantata nella cornice della città di Agadir (Marocco), quasi completamente ricostruita dopo il terremoto del 1961: a monte del personaggio, come della città in cui vive, c'è insomma un trauma che ha determinato la nevrosi.  Per Agadir è stato il terremoto, per la protagonista qualcosa che scopriamo un po' per volta fino a conquistarci un finale addirittura giallo. Dietro "Ondata di calore" c'è un certo cinema italiano degli anni cinquanta, legato soprattutto all'esperienza di Antonioni, tanto suggestivo quanto aperto (e talvolta incerto) nelle sue definizioni culturali. Dopo aver assimilato così felicemente la cultura psicanalitica nel suo film più riuscito., Risi qui regredisce  a uno studio di comportamento molto meno interessante e utile; e non sempre sfugge al primo rischio di chi rappresenta un personaggio annoiato., che è quello di annoiare. Ne risulta un gioco impeccabile, ma anche fine a se stesso.»

Un'opera, tuttavia, andrebbe giudicata sempre per se stessa, per ciò che il suo autore ha voluto esprimere e per la coerenza e l'efficacia con le quali ha saputo esprimere i propri contenuti e la propria visione del mondo.
Il confronto con altre opere del medesimo autore, o anche di autori diversi, è un'arma a doppio taglio: utilissimo finché consente di individuare le tappe di un determinato itinerario artistico, ambiguo e persino fuorviante allorché si traduce in uno strumento ideologico che limita, anziché ampliarla, la comprensione del discorso espressivo di quel certo autore, magari nello stesso tempo in cui sollecita il critico a tracciare egli stesso quello che avrebbe dovuto essere il «percorso ideale» che, guarda caso, somiglia moltissimo (per non dire che coincide) alla personale Weltanschauung del critico stesso.
Certo, il «Diario di una schizofrenica» è un'opera di più facile presa emotiva e di più appetibile spendibilità sul piano del dibattito socio-culturale; ma - al di là dei suoi pur indubbi, notevolissimi pregi - è, forse, anche più schematica e monocorde rispetto a «Ondata di calore», che, un po' come il romanzo di Julien Green «Adriana Mesurat», esplora con autentico coraggio concettuale e con sofferta partecipazione umana il dramma della disperante solitudine della donna nella società contemporanea.
Un critico che, invece, ha compreso lo spessore intellettuale ed artistico di «Ondata di calore» è stato Giovanni Grazzini, che ne ha tracciato un profilo tanto articolato quanto penetrante e, nel complesso, lusinghiero (in: G. Grazzini, «Gli anni Settanta in cento film», Roma-Bari, Laterza Editori, 1976, pp. 30-32):

«Chi vuol vincere il pessimismo sulle sorti del grande schermo, e persuadersi delle conquiste che il cinema può raggiungere quando è nelle mani di autori sensibili, intelligenti, informati delle cose della cultura, soprattutto se è svincolato dalle grandi macchine della Volgarità, dell'Ovvio, degli Alti Costi, farà bene ad andare a vedere "ondata di calore". Un film, a dispetto del titolo, che ha l'eleganza d'una prosa d'arte aggiornata agli anni '70 e il fascino di un thrilling, esempio insolito d'una civiltà dello spettacolo che saldando con grazia certi echi della letteratura contemporanea agli stimoli del giallo, la poetica dello sguardo e l'analisi fenomenologica alla suspense del poliziesco, dona al pubblico una costante tensione emotiva.
Tratto da un romanzo dell'americana Dana Moseley, sceneggiato da Anna Gobbi e Nelo Risi "Ondata di calore" è una sorta di referto (anche clinico)sulla domenica trascorsa dalla signora Joyce, un'americana sposa dell'architetto tedesco Alexander che lavora alla ricostruzione di Agadir. Qualcosa è accaduto, fra marito e moglie, la notte di sabato. Sapremo alla fine che cosa: il film, seminato un dubbio, e di tanto in tanto annaffiatolo con l'immagine balenante dell'uomo accasciato sulla poltrona, si dedica tutto all'analisi  del comportamento di Joyce, a un'inquietudine che all'inizio sembra motivata soltanto dalla solitudine (si può credere che il marito sia andato a caccia)e dall'insofferenza per il caldo asfissiante e alla fine sfocerà nel panico.
Il malessere cresce quando Joyce, che dalla finestra coglie fissi su di lei gli sguardi gli sguardi di uomini immobili, scopre una bambola di gomma, a grandezza naturale, che le conferma le aberrazioni del marito, e si vede spiata da Ali, il giovane berbero geloso di Alexander. Esce per strada, e la città, spazzata da una tempesta di sabbia, le offre uno spettacolo angoscioso. Va all'aeroporto, intenzionata a scappare, mai voli sono sospesi. Uscita da un labirinto di quinte accecanti, torna a casa, ascolta la voce del marito a registratore, ed eccitata dalla vista d'una coppia vicina ospita Ali tenta di scaldarlo. Fallita la prova, tenta di uccidersi col gas. Salvata dall'arrivo d'un medico amico, si fa ricoverare in cinica per la notte, gli confida i suoi incubi, sembra quietarsi.  Invece un ossessivo programma della TV e un richiamo casuale la rendono furiosa. Sfascia l'apparecchio e, ormai fuori di sé, raggiunge il suo appartamento. Dalle scale sente la voce del marito e il suo volto si distende. Invece, l'uomo è morto. Ucciso da chi?
Presi di contropiede dalla scoperta che quanto hanno visto lungo il film non era il prologo ma l'epilogo d'un fatto di cronaca nera, la maggior parte degli spettatori, come in un giallo cifrato sino in fondo, si dedica a ipotesi sull'assassino. In realtà non è detto che anche facendo più attenzione ai primi dieci minuti tutto sarebbe risultato lampante. La trappola del regista è costruita abilmente per tenerci sulla corda: orlata di ambiguità la stessa soluzione dell'enigma, tutto il film è segnato da un gusto per l'equivoco che ne moltiplica il sapore. Allora diciamo che Nelo Risi, reduce dal meritato successo del "Diario d'una schizofrenica", ha giocato, prendendo per ma lo spettatore, uno squisito "solitario" voltando le carte, una alla volta, con la lucida, entomologica voluttà di fissare con lo spillo dell'immagine i trapassi d'una nevrosi sboccata nella follia. Se il gioco riesce, è perché Risi, con una precisione di mira, una fermezza di mano e una pulizia di timbri che crescono di film in film, sa concentrare in una rigorosa struttura narrativa areata da soffi allarmanti un universo perfettamente omogeneo, un ricamo di toni magici, ora morbidi ora sinistri - sottolineato dal crudo strappo del finale, quando la città si riempie di voci e di gesti concitati - in cui ogni punto è in tensione, ogni colore insieme riverbera la realtà e le infinite ipotesi dell'immaginazione quasi ai bordi della fantascienza.
Questa doppia disponibilità, alleata a una scioltezza di linguaggio visivo che qusi non abbisogna di parlato, fa di "Ondata di calore" un film per qualche verso misterioso, remoto e velato come una donna araba, sorretto da un ritmo segreto che, anche grazie all'idea fortunata di trasferire l'azione dalla provincia americana ad Agadir, corrode tutta la banalità del soggetto e ne carica le svolte di fantasia.
Tocchi al regista o al produttore (il film è una co-produzioine italo-francese), non sarà da sottovalutare il merito di aver scelto per interprete Jean Seberg, che regge, da cima a fondo, nel volto bellissimo, il suo mosaico di sensazioni e di stato d'animo con una sapienza  di attrice sempre meno frequente fra primedonne (al suo fianco, in una breve parte, si fa onore Luigi Pistilli). Quanto poi il film debba alla fotografia luminosa di Giulio Albonico, alle sue liriche scenografie, battute dal vento del deserto, di Giuseppe Bassan, anche alle musiche di Peppino De Luca e Carlo Pes, o spettatore bene educato vede da sé.»

Nelo Risi - fratello minore di Dino, regista del mitico (e sopravvalutato) «Il sorpasso», con Gassman e Trintignant -, nato a Milano nel 1920, è poeta e scrittore di valore, ed è logico che il suo percorso verso e attraverso il cinema risenta della sua formazione essenzialmente letteraria. Ciò si nota, oltre che in «Ondata di calore», specialmente nella bellissima biografia di Arthur Rimbaud «Una stagione all'inferno», del 1971 (interpretato da Terence Stamp), e nel dramma storico sui processi contro gli untori di Milano nel 1630, «la Colonna Infame», del 1973 , realizzato con la sceneggiatura di Vasco Pratolini.
Forse questo regista non ha potuto dare la reale misura delle sue capacità per i mutati orientamenti dell'industria cinematografica, che, nel corso degli anni Ottanta, ha tagliato i fondi per quel tipo di film - coraggiosi, sperimentali, realizzati con tante idee e poco senso della spettacolarità -, come egli stesso ebbe a dirci nel corso di una conversazione.
Sta di fatto che il suo ultimo film, «Un amore di donna», del 1988 (con Laura Morante nel ruolo della protagonista) evidenzia, quello sì, un passo indietro rispetto all'audace linea di ricerca delle opere precedenti, tanto da essere stato definito da qualcuno «un algido melodramma».
La bella e brava Jean Seberg, a suo tempo icona del cinema della «Nouvelle vague», ha legato il suo nome ad alcune indimenticabili interpretazioni di film notevolissimi: da «Santa Giovanna» (1958) e «Bonjour trstesse» (1959), entrambi di Preminger, a «Fino all'ultimo respiro» (1960) di Godard. Anche lei, però, all'indomani di «Ondata di calore», non è più riuscita a trovare dei registi capaci di valorizzarne adeguatamente il fascino enigmatico e le notevoli capacità drammatiche, ripiegando su alcuni film dignitosi, ma non eccelsi, come «Questa specie d'amore» di Alberto Bevilacqua, del 1971.
Travolta dai dispiaceri privati, dedita all'alcool e all'abuso di psicofarmaci, è morta suicida nel 1979, in Francia, a soli quarant'anni (era nata negli Stati Uniti nel 1938), in circostanze mai del tutto chiarite. Alcuni sospettano che alla sua tragica fine non siano stati estranei i servizi segreti statunitensi, dal momento che l'attrice era sentimentalmente e politicamente legata ad esponenti del gruppo delle Pantere Nere.