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Esiste ancora il mestiere di genitore?

di Francesco Lamendola - 24/08/2009


So bene, cara Giovanna, che il tuo cruccio più grande è quello di non avere avuto figli; al punto che hai dovuto smettere di frequentare le spiagge affollate di bambini, perché la loro sola vista ti faceva scoppiare in lacrime.
Devo però farti presente che avere dei figli, oggi, è una cosa molto, molto diversa da ciò che era due generazioni fa, e forse anche soltanto una generazione fa: è divenuto un mestiere difficilissimo, quasi impossibile; senza che gli intellettuali, il mondo della cultura, le forze sociali, abbiano detto una parola in proposito e senza che, in apparenza, se ne siano nemmeno accorti.
Ma che cosa è successo?
Nella nostra vita, cara amica, abbiamo visto sparire lentamente parecchi mestieri. Il fabbro ferraio, il calderaio, l'uomo del ghiaccio (quello che sostituiva in qualche modo il frigorifero), il carbonaio erano già scomparsi prima che noi nascessimo.
L'ombrellaio, l'arrotino, il bigliettaio del tram o dell'autobus, il venditore ambulante di gelati (tranne che sulle spiagge e in poche altre situazioni locali), l'impagliatore di sedie (tranne che per i pezzi di antiquariato), il noleggiatore di biciclette (tranne che nelle località di villeggiatura), il parcheggiatore abusivo, sono scomparsi gradualmente, sotto i nostri occhi.
Ora stiamo assistendo all'inarrestabile declino o al drastico ridimensionamento del calzolaio, del merciaio, del meccanico delle biciclette, del corniciaio (tranne che per i quadri d'autore), del bidello (tranne che per svolgere funzioni amministrative e di sorveglianza; ma non è più lui a tenere pulita la scuola). Quanti altri mestieri sono, per così dire, in lista d'attesa per la rottamazione; quanti hanno ormai il tempo contato?
L'elemento comune che li ha messi in crisi e avviati verso la consunzione è, direttamente o indirettamente, uno solo per tutti quanti: l'avvento sempre più pervasivo delle macchine, e della filosofia ad esse sottesa, efficientista e produttivista, che rende sempre meno remunerativo l'impiego di tecniche di restauro dei materiali usurati o di personale umano addetto a determinati servizi.
Così come sono scomparsi i bigliettai dai tram, per esempio, sostituiti dalle macchinette automatiche, stanno ora scomparendo migliaia di posti di lavoro nei servizi pubblici, dove le macchinette sostituiscono, ad esempio, la figura del cassiere. Oggi la visita medica in ospedale non la si paga ad un individuo in carne e ossa, ma ad una macchina; e la stessa cosa avviene all'ingresso del casello autostradale, o nelle stazioni ferroviarie, e in molte altre situazioni.
Ebbene, anche il mestiere di genitore sta per essere messo in soffitta, nel museo dei ricordi, e per le stesse ragioni: in una società dominata dalla fretta e dal consumo, e i cui ritmi sono imposti e scanditi non dall'uomo, ma dalle macchine, la figura del genitore sta diventando un autentico relitto fossile, delegittimato dall'insieme del contesto storico.
I genitori servono per fare figli - ancora per poco, data la piega che stanno prendendo le cose nel settore della tecnica genetica e riproduttiva -, dopo di che diventano rapidamente obsoleti, si logorano e divengono inutili. O, quanto meno, sono percepiti come tali dalla società, a cominciare dai loro stessi figli. Non servono più né come modelli di riferimento, né come elementi della maturazione affettiva; non servono praticamente più a nulla, se non a erogare le risorse finanziarie per frequentare la scuola, il negozio di giocattoli, la palestra, la piscina, il corso di danza, il bar e la gelateria, le vacanze con gli amici, il corso di scuola guida, l'acquisto dell'automobile, l'iscrizione all'università.
Servono ad aprire il portafoglio, ad assicurare il vitto e l'alloggio, a lavare e stirare i vestiti, a far trovare il pranzo pronto sulla tavola, a fornire videogiochi, telefonini e computer; ma non devono pretendere di stabilire regole, di fissare limiti e norme di comportamento, di domandare collaborazione nella vita familiare.
Tanto meno possono illudersi di ricevere confidenza e fiducia, di offrire dialogo e comprensione, di essere parte del processo di crescita dei propri figli: se ci provano, bastano poche parole, negli ancora,  pochi silenzi, da parte di questi ultimi, per rimetterli al loro posto: quello di fastidiose, ma inevitabili presenze, utili per ottenere ciò che serve nella vita, impresentabili e poco graditi per tutto il resto: come dei parenti poveri dei quali, tutto sommato, ci si vergogna.
Intendiamoci: è normale che i figli desiderino spiccare il volo, ad un certo punto; ed è giusto che i genitori svolgano la funzione di abituarli all'autonomia, a costruirsi il proprio progetto di vita. Ma quello che sta accadendo oggi, è qualcosa di molto diverso: qualcosa che nemmeno i più forsennati sostenitori della «morte della famiglia» di sessantottesca memoria avevano osato predicare e nemmeno immaginare: la delegittimazione totale, senza appello, dei genitori, non solo da parte dei figli, ma da parte dell'intera società.
Non si può dire che i genitori, in molti casi, abbiano fatto granché per meritare una sorte diversa. Anch'essi hanno fatto del loro meglio per contribuire a delegittimare le altre agenzie educative, prima fra tutte la scuola: e adesso ricevono il meritato premio.
Avevano creduto, facendosi amiconi dei figli, di evitare la medesima sorte: per esempio, «coprendo» le assenze ingiustificate dei pargoletti dalle lezioni. Quante volte un professore, preso in mano il telefono per segnalare alla famiglia tal dei tali l'assenza, sospetta e reiterata, di un determinato alunno (o alunna), si è sentito rispondere dalla cara mammina, con voce melliflua: «Sì, poverino (o poverina), cosa vuole, era così stanco (o stanca), sono stata io a dirgli (dirle) di rimanere a letto, di riposarsi: questi ragazzi sono talmente pieni di impegni, e poi hanno una salute così delicata, si affaticano presto…».
A volte hanno fatto anche di peggio. Hanno dato il cattivo esempio, sistematicamente, con i loro comportamenti egoisti, immaturi, opportunistici; con la loro incapacità di dialogare (fra loro stessi); con il loro narcisismo e il loro edonismo da quattro soldi. Hanno creduto che un giocattolo costoso potesse sostituire il calore della presenza, che un vestito firmato potesse assicurare loro la durevole gratitudine dei figli.
Sovente sono stati loro, i genitori, a trasmettere ai propri figli la smania incontenibile di soddisfare il capriccio, la frivolezza: madri ultraquarantenni che pensano solo al piercing sull'ombelico e al tatuaggio sul fondo schiena, padri cinquantenni che adorano solo l'automobile e il telefonino ultima generazione: da questo vuoto morale è incominciato lo sgretolamento dell'autorevolezza. E quando manca l'autorevolezza, viene meno anche l'autorità. È patetico sentire certi genitori che gridano ai figli strafottenti: «Tu mi devi rispettare!», perché il rispetto non si riceve gratis, bisogna conquistarselo.
Questa è una delle grosse differenze con le generazioni precedenti. Un tempo nemmeno tanto lontano, l'autorità del genitore era indiscussa: oggi, come lo è tutto il resto, viene messa in dubbio da cento diverse direzioni. Un tempo, bastava che il padre o la madre dicessero: «Fai questo, fai quello; è così, e basta», e non occorreva che lo ripetessero una seconda volta. Oggi, non possono permettersi di fare ai propri  figli nemmeno la più blanda osservazione; figuriamoci impartire una sgridata o erogare un castigo.
Di nuovo: si raccoglie quello che si è seminato. Un tempo, se il bambino tornava a casa da scuola dopo aver ricevuto un meritato ceffone dal maestro, se ne beccava un secondo da suo padre; oggi, quel maestro verrebbe denunciato ai carabinieri e, probabilmente, sanzionato a livello amministrativo dalla stessa istituzione scolastica. Oggi, è il figlio che denuncia suo padre ai carabinieri, direttamente, anche per meno di un ceffone; e poi c'è il telefono azzurro (benedetta invenzione, se bene adoperata e solo nei casi estremi), col quale i figli possono tenere sotto ricatto permanente i propri genitori.
Un tempo, la mamma diceva al bambino: «Fa' il bravo, altrimenti chiamo l'uomo nero che viene a portarti via»; oggi è il bambino che dice a sua madre: «Se ti azzardi a toccarmi con un dito, io chiamo il telefono azzurro e ti faccio mettere in prigione».
Esagerazioni, battute? Nossignore: e non ci sono più limiti di tempo, non è più questione di raggiungere la maggiore età e, poi, di fare quel che si vuole. Recentemente, un tribunale ha dato torto a un genitore che si rifiutava di pagare ancora le spese per gli studi universitari del figlio, maggiorenne e svogliato, sano e perfettamente in grado di cercarsi un lavoro, se non aveva voglia di studiare.
D'altra parte, cara Giovanna, è pur vero che non tutti i genitori hanno commesso quegli sbagli macroscopici; che non tutti hanno dato il cattivo esempio a propri figli; che non tutti avrebbero meritato di perdere ogni forma di autorevolezza nei loro confronti.
Il problema, infatti, è un problema globale: è l'insieme della società, l'economia, la tecnica, la cultura, lo spettacolo, il tempo libero: tutto, insomma, che ha concorso a portarci fino al presente capolinea del ruolo genitoriale.
E adesso, come se ne esce?
Prima di tutto, non è affatto vero che i figli non abbiano più bisogno dei genitori.
Questa è una madornale sciocchezza sul piano pedagogico e affettivo, ripetuta e avallata, con incosciente o criminale stupidità, da troppi cattivi maestri, profeti del caos e propagandisti dell'apocalisse, o da demagoghi e mestatori da quattro soldi. E ad avere più bisogno dei genitori, sono proprio gli adolescenti più difficili, più ribelli, più ingovernabili: in fondo, quello che essi vorrebbero segretamente, è che i genitori raccogliessero la sfida e si mostrassero più forti di questo andazzo cialtrone, di questa cultura nichilista, nella quale essi sguazzano, ma solo per disperazione e perché non scorgono all'orizzonte niente di meglio, nessuna proposta più credibile.
In secondo luogo, la perdita di prestigio e di autorevolezza dei genitori è solo una conseguenza, una delle tante, dell'avvento della società moderna e post-moderna, fondate sull'incessante richiesta di diritti, e sulla elusione furbesca dei doveri; sulla deresponsabilizzazione dell'uomo in favore delle macchine; sul generale prevalere dei criteri economici rispetto a quelli etici.
Di conseguenza, essa comincerà a rallentare, o a mostrare una inversione di tendenza, quando saremo in grado di elaborare una proposta complessiva di vita, che si imperni sui valori dell'etica e non su quelli dell'economia; sul senso di responsabilità individuale e non sull'astuzia della tecnica («l'uomo moderno ha bisogno di ben altro, che di inventare nuove macchine!», ammoniva Drieu La Rochelle fin dagli anni Trenta del XX secolo); sulla elaborazione di un senso del dovere - e, necessariamente, di uno spirito di sacrificio - almeno altrettanto sviluppati della rivendicazione dei diritti.
No, davvero, cara amica: non è facile essere genitori, oggi. Se un genitore dice una cosa, ma la televisione martella tutti i santi giorni il concetto opposto, chi dei due finirà per esercitare il proprio potere di persuasione? E se un genitore rifiuta di esaudire il capriccio consumistico de figlioletto, ma quest'ultimo vede dieci, venti compagni di scuola o amici di vicinato, che sono stati accontentati dai rispettivi genitori in quel medesimo capriccio: quale delle due situazioni finirà per prevalere, secondo te?
D'altra parte, non ho alcuna pretesa di averti persuasa che sia meglio non essere genitori, visto che esserlo, oggi, è cosa tanto difficile e ingrata; infatti, non ne sono persuaso affatto nemmeno io. Ho voluto solo farti presente che fare il genitore, quando ne avresti avuta l'età, sarebbe stata, quasi certamente, una cosa molto più gratificante di quanto non lo sia ora; non che tanto vale rinunciare a mettere al mondo dei figli e ad occuparsi della loro crescita.
Forse, il segreto è quello di non avere fretta.
Il buon seminatore non ha mai fretta: sa che il seme, una volta affidato alla terra, ha bisogno di tutto il suo tempo per germogliare e dare vita ad una nuova pianta.
Anzi, nemmeno questo tipo di pazienza è sufficiente, nella situazione odierna: ma quell'altra, del contadino che decide di non tagliare l'albero che pure non dà frutti, ma di potarlo amorevolmente e di attendere, di attendere almeno un'altra stagione, forse più di una. Forse i frutti verranno, dopo tutto: forse verranno quando meno li si aspetta.
Quante volte mi è capitato di ricevere la visita di un ex alunno, magari a distanza di molti anni, magari proprio quello che mai avrei immaginato di vedere, e che ha voluto ringraziare oggi per allora, per l'incoraggiamento ricevuto, per i buoni insegnamenti recepiti.
Forse, con i figli, è la stessa cosa. Forse non capiscono subito, frastornati come sono dal coro di mille voci discordanti, di mille rumori inutili o molesti.
Ma forse il buon seme è caduto ugualmente, e finirà per germogliare, magari quando meno lo si crederebbe.
Un genitore che rinuncia a questa speranza, abdica di fatto al proprio ruolo di genitore: e nulla può sperare di ottenere, chi non crede più in ciò che sta facendo.
Forse, alla fine, il mestiere di genitore non è poi così inutile, come tanti sciocchi o disonesti hanno voluto far credere; forse, i figli hanno ancora bisogno dei genitori, anzi, ne hanno bisogno più che mai: però in un modo diverso da quello delle precedenti generazioni.
È cambiato tutto, nella nostra società, e continuerà a cambiare ancora di più: non sempre in meglio, con buona pace dei progressisti a un tanto il chilo.
Ma questo, forse, non cambierà mai: l'autentico bisogno dei figli di sentirsi amati e protetti dai genitori.
Amati e protetti, dico; e non viziati e assecondati in ogni sorta di capricci: che è una cosa totalmente diversa.