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Afghanistan: nessuna democrazia é decollata

di Franco Cardini - 27/08/2009

 

A proposito delle elezioni presidenziali e regionali tenutesi in Afghanistan il 20 agosto scorso, nonostante le incertezze relative ai risultati definitivi, alla correttezza delle procedure e allo stesso esito sostanziale (Hamid Karzai parrebbe essere confermato presidente senza bisogno di ballottaggio, ma il suo rivale Abdullah Abdullah rivendica a sua volta la vittoria e denunzia brogli e violenze), il parere quasi unanime dei media occidentali è che si sia trattato di una sostanziale vittoria della sia pur giovane, incerta e imperfetta democrazia sulle intimidazioni e sul boicottaggio terroristico dei talibani. Quanto alla scarsa affluenza alle urne, che non ha raggiunto il 50% rispetto al 75% delle precedenti elezioni (quelle che nel 2004 sancirono la vittoria di Karzai), si fa notare come si tratti di un trend coerente con tutte le democrazie del mondo, comprese le piu avanzate. Un parere ottimistico e consolante.

Che tuttavia riposa, purtroppo, su un’interpretazione disinvolta e sostanzialmente falsa del complesso scenario afghano La verità è diversa.

Premesso che il 70% circa degli oltre 32 milioni di afghani – etnicamente pashtun al 40%, tagiki al 25%, uzbeki al 9%, a parte le etnie minori come i hazari al centro - non ha diritto al voto in quanto minore di 18 anni e che il voto femminile è stato irrisorio (ignoranza? disinteresse? costrizione religiosa e familiare?), bisogna tener conto del fatto che, se è vero che molti non sono andati a votare in quanto intimiditi dalle minacce dei talibani, è non meno vero il contrario: anche i partigiani di Karzai e in particolar modo i suoi recenti e ingombranti alleati, i “Signori delle Guerra”, hanno esercitato pressioni non proprio gentili per indurre la gente a recarsi alle urne. Il risultato di tutto ciò era prevedibile: si è votato poco dappertutto, ma tuttavia un po’ di piu a Kabul e nel centro, aree controllate dai governativi e dalle forze militari d’occupazione; quasi per nulla nel sud-est, area egemonizzata dai talibani. Gli afghani sono stati stretti fra due opposte forme di minaccia: il che significa non certo che molti non siano andati volentieri a votare, ma solo che la massiccia diserzione del voto non si può interpretare solo come frutto della paura, bensì anche come esito della sfiducia e in molti casi come espressione di protesta.

Del resto, basta un po’ di buon senso. Come si puo votare tranquilli in un paese minacciato dalla fame (il 40% degli afghani vive al di sotto della “soglia di povertà”), controllato da uno-due uomini in armi ogni cento abitanti circa: bisogna difatti tener conto non solo dell’esercito e della polizia afghani (200.000 uomini in tutto), ma anche delle forze d’occupazione: 36.000 soldati americani (un numero destinato nei prossimi mesi ad aumentare fino a quasi 70.000 unità) e 64.000 della NATO. La guerra civile – attraverso varie fasi – dura da trent’anni, cioè dal 1979. Il paese è soggetto dalla fine del 2001 alla nuova occupazione statunitense (dopo quella sovietica, dalla quale si era liberato) che tuttavia non è riuscita in otto anni a raggiungere il suo conclamato scopo, l’eliminazione del movimento talibano ch’è più forte di prima; diviso in etnìe ormai reciprocamente ostili, un dato cui si è di recente aggiunte le rivendicazioni della minoranza sciita hazara; tormentato non solo dal terrorismo talibano, ma anche dalle violenze dei partigiani dei “Signori della Guerra” (e dell’oppio: Hillary Clinton ha di recente definito l’Afghanistan un “Narco-stato”). A sostenere Karzai, e ad aiutarlo a “vincere” le elezioni, sono oggi personaggi come il tagiko Mohamad Qasim Fahim, già scomodo collaboratore di Massud; l’uzbeko Abdul Rashid Dostum, ex collaborazionista dei sovietici e voltagabbana, che Amnesty International accusa d’innumerevoli crimini; l’orribile Abdul Rasul Sayyaf, pashtun, responsabile di migliaia di sevizie ai danni delle donne hazare. Come si può credere, con un panorama del genere, a una competizione elettorale serena e attendibile? E sarebbero questi i paladini della democrazia e dei “diritti umani”, gli alleati dell’Occidente?

I risultati elettorali definitivi saranno emanati, secondo fonti governative, entro i primi di settembre. Siate certi che non sarà così. Il principale avversario di Karzai, il suo ex collaboratore Abdullah Abdullah, pur rivendicando la vittoria denunzia violenze e brogli diffusi. Dietro il duello Karzai-Abdullah, del ersto, s’intravedeva quello etnico dei pashtun contro i tagiki. Intanto, nell’incerta e ambigua politica di Karzai (che da un alto si appoggio alle forze d’occupazione ma dall’altro cerca degli alleati nei feroci “Signori della Guerra” e da un altro ancora allaccia rapporti diplomatici nuovi con l’India – l’avversaria storica degli scomodi vicini pakistani – utilizzando addirittura la mediazione iraniana ovviamente disapprovata dagli americani e consentendo per questo alla minoranza sciita di adottare leggi specifiche in contrasto con quello che in teoria sarebbe il suo indirizzo di governo), un tratto solo risulta incontestabile: la corruzione spaventosa della sua equipe, a comiciare da suo fratello Ahmad Wali, governatore di Kandahar e notorio gestore del traffico di droga.

Un bilancio, insomma, fallimentare. Altro che “consolidamento d’una giovane democrazia”… Certo, a continuar a fare i loro interessi sono le multinazionali (la californiana Unocal in testa) interessate a gestire il passaggio degli oleodotti centroasiatici dal territorio afghano: ma nessuno dei problemi di un paese durissimamente provato da un trentennio di violenze è stato risolto. Karzai può anche accedere, sulla base di un risultato elettorale incerto che verrà in qualche modo legittimato mediante la forza o gli ambigui accordi tra bande, al suo secondo mandato presidenziale: ma è comunque un isolato, privo di base personale di potere e ostaggio quindi delle forze straniere d’occupazione, senza le quali sarebbe spazzato via in pochi giorni. Egli sa perfettamente tutto ciò, e per questo si sta cercando nuovi appoggi: ma l’averli individuati nei “Signori della Guerra”, mentre al tempo stesso egli cerca una pacificazione con i talibani, rischia di peggiorare la situazione interna anziche indirizzarla verso una qualche normalizzazione.

La guerra civile etnoreligiosa continua: non c’e soltanto il terrorismo talibano. L’immagine che si e cercato di legittimare a livello internazionale, quella di un paese diviso tra una maggioranza che vorrebbe accedere alla democrazia e una sediziosa e fanatica minoranza terroristica che glielo impedirebbe, è profondamente falsa. Intanto, ai bordi dello scenario afghano, si affacciano le diplomazie russa e cinese. Il nuovo Great Game e in pieno svolgimento, esattamente nella stessa area di quello ottocentesco: per quanto in parte diverse siano le caratteristiche geopolitiche e sociostoriche. Per la Cina, in particolare, si tratta del controllo dei centri di propoganda islamica dell’Asia profonda e dell’approvvigionamento di materie prime (il business preme: i chadari, cioe i burka piu a buon mercato, oggi, sono made in China). E a ovest dell’Afghanistan preme l’Iran, interessato a garantire i diritti dell’etnia hazara, sciita, che si addensa nel centreo del paese, cioe nella regione di Bamiyan.

Il presidente Barack Obama continua a proclamare che l’impegno militare in Afghanistan e irrinunziabile per il suo paese: una “guerra necessaria”. E’ ovvio: una volta ribadita la volonta di disimpegno dall’Iraq, Obama non può certo caricar sulle sue spalle la responsabilita della sconfitta su tutta la linea della politica mediorientale statunitense di quasi un decennio. Ma una delle molte cose che i media occidentali non hanno detto, e che un punto esplicitamente comune nel programma di tutti i candidati alla presidenza afghana era l’immediata liberazione del paese dalla presenza militare straniera. Oggi l’Afghanistan dà l’impressione di non poter riuscire a viver di nuovo ne sotto il controllo degli occupanti, ne senza di esso. Un libero accordo tra le aprti in conflitto, fondato sull’obiettiva impossibilita di andar avanti così, sarebbe l’unica via d’uscita; e garante dovrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni Unite, non certo ne gli USA ne la NATO, responsabili dell’aggressione e dell’occupazione dal 2001 in poi e come tali detestate quasi unanimemente (oggi perfino da chi deve loro il potere) Questi i tratti di un puzzle che, per il momento, appare irrisolvibile.