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La prima parte de La dottrina del risveglio di Julius Evola

di P.A. Morniroli - 29/09/2009

 


Riporta le esatte parole dell'autore, ma è stato solo "ripulito" da tutte le sue molte divagazioni.


 

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IL SAPERE

 

La premessa della dottrina buddhista del risveglio è la distruzione del démone della dialettica; la rinuncia alle varie costruzioni del pensiero, a quello speculare che è un semplice opinare, alla varietà delle teorie nelle quali si proietta una inquietudine fondamentale e cerca appoggio uno spirito che non ha ancora trovato il proprio principio.

Ciò vale non solo per la speculazione cosmologica, ma anche per i problemi relativi all'uomo, alla sua natura, al suo destino, e persino per ogni determinazione concettuale del fine ultimo dell'ascesi.

Non è che si sia inteso escludere la possibilità di una conoscenza in ordine a problemi come quelli ora indicati -i testi infatti offrono, quando sia necessario, insegnamenti sufficientemente precisi circa l'uno o l'altro- è stata respinta ogni verità che, avendo per base il solo intelletto discorsivo (vitakka), non può che avere valore di opinione.

Tutto ciò non rappresenta un sacrificium intellectus a favore della fede, è piuttosto una catarsi preliminare, un opus purgationis giustificantesi in vista di un superiore tipo o criterio di certezza, quello che si radica in una effettiva conoscenza, assimilata analogicamente ad un vedere (ñâna-dassana).

La suprema forma di conoscenza è per il Buddhismo la conoscenza "conforme a realtà" (yathâ-bhûta).

E' un criterio di esperienza diretta. "Conoscere-vedere conforme a realtà" è l'intuizione intellettuale diretta, di là da ogni problematica, strettamente legata alla realizzazione ascetica. (Intesa come esercizio assiduo, non come mortificazione).

La dottrina è detta "inescogitabile", insuscettibile cioé di essere paragonata ad una qualsiasi creazione del raziocinio. Essa si presenta come un "risveglio". Un risveglio, una reminiscenza che si attua allorché le cause che hanno reso possibile il sonno, l'oblio, sono state distrutte: allorché gli âsava (i "flussi", gli intossicanti, le manìe) (1) sono distrutti. Questo è, naturalmente, un limite raggiungibile solo attraverso un processo graduale. «Non si può, io dico, fin da principio ottenere la perfetta conoscenza, ma solo successivamente esercitandosi, successivamente operando, passo per passo procedendo si ottiene la perfetta conoscenza. In che modo? Ecco che viene uno, mosso da fiducia; venuto, si associa; associatosi, dà ascolto; ascoltando, riceve la dottrina; ricevuta la dottrina, la ricorda; della ritenuta dottrina scruta il senso; scrutandone il senso, la dottrina gli dà il sapere; dandogli il sapere, egli l'approva; approvandola, la pondera; ponderandola, vi si esercita alacremente e, alacremente esercitandosi, egli realizza la più alta verità e, penetrando, la vede.» (Majjh. LXX)

Il porre all'inizio della serie la fiducia non è un ricadere nel credere perché la fiducia s'intende propiziata dall'alta statura d'un maestro e dal suo esempio, inoltre si tratta di una ammissione provvisoria, la vera adesione sopravvenendo allorché, con l'esame e l'esercizio, si determina la facoltà d'un riconoscimento diretto, di una intuizione intellettuale assolutamente indipendente dalle convinzioni antecedenti.

Non si manca perciò di sottolineare: «Chi non sa strenuamente esercitarsi non consegue la verità; poiché si esercita strenuamente l'asceta consegue la verità, e pertanto lo strenuo esercizio è la cosa più importante per il conseguimento della verità.» (Majjh.XCV)

 

 

Circa il primato che, pragmatisticamente ed antintellettualmente, l'azione ha nella dottrina del risveglio, si ricordi anche l'efficace paragone della freccia. Si comporterebbe come il colpito dalla freccia colui che fosse disposto a seguire il Sublime solo se questi gli desse risposta ai vari problemi speculativi.

Tutto ciò – dice il Buddho – non è stato da me partecipato perché non è salutare, non porta al disgusto, non al distacco, non all'annientamento, non all'acquetamento, non alla contemplazione, non al risveglio, non all'estinzione.

La dottrina del risveglio vuol essere assolutamente realistica. Dal punto di vista realistico l'uomo comune conosce "secondo realtà" soltanto il mondo del divenire, e di questo solo ha coscienza. Questo mondo e questa coscienza vengono però considerati in tutti quei caratteri di contingenza, di relatività e d'irrazionalità che gli possono venire solo dal confronto con la realtà metafisica già direttamente intuita, realtà che resta tacitamente presupposta anche se su di essa, per ragioni pratiche, il discorso non si porta.

Tale divenire non ha per substrato nulla di identico, di sostanziale, di permanente. E' il divenire della stessa esperienza.

Il termine buddhista per designare una determinata realtà o una vita individuale, o fenomeno è khandha o santâna. "Khanda" vuol dire mucchio, cumulo, fascio, aggregato; "santâna" vuol dire corrente.

Nel flusso del divenire si formano vortici o correnti di elementi psico-fisici e di stati concatenati, detti dhamma, aventi una certa persistenza fino a che sussistono le condizioni e la forza che li hanno fatti convergere ed aggregare. Dopo di che si dissolvono e, nel divenire, samsâra, in un altro punto, si formano analoghi conglomerati, contingenti come i precedenti, nei quali tuttavia si riaccende ed agisce la stessa forza agente nelle precedenti aggregazioni.

Nel samsâra dunque non esistono che stati condizionati di esistenza e di coscienza.

Tale veduta vale sia per l'esperienza esterna che per quella interna.

Si deve rilevare che i dhamma, gli elementi primari di esistenza, valgono come semplici contenuti della coscienza, non come astratti princìpi esplicativi supposti dal pensiero, come gli atomi delle antiche scuole fisiche.

Come il mondo esterno appare, così esso è. Non è da dirsi:"questo oggetto ha questa forma, colore, sapore ... ecc.", bensì: "Questo oggetto è  questa forma, colore, sapore ... ecc.". Non si pone, dietro ai dati sensibili, nulla cui essi debbano essere riferiti.

Con coerenza lo stesso punto di vista viene adottato nei riguardi della esperienza interna e della persona. Anche la persona -sakkâya- è khanda e santâna. È un aggregato e una corrente di elementi e di stati impermanenti, compositi, condizionati. La sua unità e realtà sono puramente nominali, al massimo funzionali.

Quando le condizioni che hanno determinato la combinazione degli elementi e degli stati cessano, la persona come tale, quella determinata persona, si dissolve.

Ma anche mentre dura essa non è un "essere", ma un fluire, una corrente -santâna- o, per meglio dire, la sezione di una corrente, perché il santâna viene concepito come qualcosa che non si inizia con la nascita né si interrompe con la morte.

L'unica coscienza di cui l'uomo comune può parlare secondo realtà è dunque quella "divenuta" e "formata", cioè determinata e condizionata da contenuti che sono impermanenti.

Coscienza e conoscenza sono inseparabili: «Ciò che uno conosce, di ciò egli è conscio, e quello di cui è conscio, ciò egli conosce.». (Majjh. XLIII)

Come non ha senso parlare d'un fuoco in genere, esistendo soltanto un fuoco di ceppi, di fascine, di erba e così via, del pari non si deve parlare di coscienza in genere, ma di una coscienza visiva, uditiva, olfattiva, gustativa o mentale, a seconda dei casi. (Majjh. XXXVIII)

Mediante l'occhio, l'oggetto e la coscienza visiva ha origine il veduto; così per l'udito, l'odorato, il gusto, il tatto e così pure mediante la mente, le cose e la coscienza mentale ha origine il pensato. Questi stati sensoriali hanno dunque origine da cause, senza che essi implichino un principio sostanziale.

E' in correlazione col corpo che sorge l'idea "io sono", e non altrimenti. Ma tali cause sono impermanenti.

Così stando le cose è evidente che l'idea di un io sostanziale incondizionato è da escludersi. Se l'olio ed il lucignolo d'una lampada sono impermanenti, non si può pensare che la fiamma sia permanente, eterna.

La persona va considerata come un tutto funzionale che non ha il divenire come accidente, bensì come sua stessa sostanza, ed è per questo che angoscia e trepidazione appartengono al substrato più profondo di ogni vita umana e, in generale, samsârica, come vedremo. La veduta della non-sostanzialità si arresta ad una considerazione fenomenistica del mondo interiore ed esteriore.

Ma, in termini di esperienza vissuta, qual è il senso e la legge di questo fluire, di questo succedersi di stati?

 

Le due prime verità

 

Si presentano allora le due prime nobili verità: dukkha e tanhâ.

Il termine "dukkha" viene abitualmente tradotto con "dolore" in quanto si riferisce a cose come l'invecchiare, l'essere ammalati, il morire, il subire ciò che non si desidera, il non avere ciò che si desidera ecc., ma l'idea che la stessa nascita sia dukkha, ed ancor più il riferire lo stesso termine a stati di coscienza "celesti" o "divini", che non si possono certo pensare soggetti al "dolore" nel senso comune, fa intendere che esso racchiude il significato di agitazione, inquietudine, commozio-ne, angoscia. (2)

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Si può dire che esso è la controparte vissuta di quel che si esprime nella stessa teoria dell'universale impermanenza, anicca, e della non-sostanzialità dell' "io", anattâ.

Questa interpretazione trova conferma se consideriamo dukkha alla luce del suo opposto, vale a dire dello stato di "liberazione". Dukkha ci appare allora come l'antìtesi di una calma impassibilità, di una superiorità al dolore ed alla gioia, come l'opposto della incomparabile sicurezza, dello stato in cui paura ed angoscia sono distrutte.

Ed ora la seconda verità che riguarda samudaya, l'origine.

Da che si origina, da che trae nutrimento e riceve conferma un'esperienza che si presenta come dukkha, come agitazione, come angosciato divenire?

La risposta è tanhâ, la brama, la sete: «Sete di vita sempre di nuovo risorgente che, congiunta al piacere della soddisfazione, e qua e là appagantesi, è sete di piacere sensuale, sete di esistenza, sete di divenire».

Questa è la forza centrale dell'esistenza samsârica, questo è il principio che determina l'anattâ e l'anicca, l'inesistenza di un io e la generale impermanenza, cioè l'insostanzialità di qualsiasi cosa e di qualsiasi vita, e che a qualsiasi vita  associa l'alterazione e la fine.

La sete, la brama, l'arsura stanno non solo alla radice di qualsiasi stato d'animo, ma anche dell'esperienza in genere, delle forme del sentire, del percepire e dello sperimentare che più si considerano neutre e meccaniche.

«Tutto è in fiamme. E che cosa è in fiamme? Arde l'occhio, arde il visibile, arde la conoscenza del visibile, arde il contatto dell'occhio col visibile, arde la sensazione che sorge dal contatto col visibile, sia essa gioia, dolore o né gioia né dolore. E di che fuoco arde? Del fuoco del desiderio, del fuoco dell'avversione, del fuoco dell'accecamento».

E così si ripete partitamente per ciò che viene udito, gustato, toccato, odorato e pensato. Lo stesso  si ripete per il pañcakkhandha, per il quintuplo tronco della personalità: forma corporea, sensazione, percezione, tendenze e coscienza. (rûpa, vedanâ, saññâ, sankhâra, viññâna).

Queste due verità si rendono direttamente evidenti solo a coloro che, avendolo già sorpassato, possono afferrare oggettivamente e nella sua integrità il senso dello stato in cui si trovano. Si ricordi a tal proposito la similitudine del lebbroso.

Infatti come potrebbe chiunque comprendere che il substrato della sua stessa gioia è dukkha, cioè agitazione, sofferenza, manìa, angoscia?

Come si può capire intuitivamente che il desiderio è non soltanto la molla di gran parte delle azioni umane, ma anche la sostanza della sua stessa forma corporea, la radice della sua stessa individualità, la base di ogni sua esperienza, persino quella di un colore o di un suono indifferente?

Comunque il simbolismo della fiamma e del fuoco ci dà modo di intendere approssimativamente la legge dell'esistenza condizionata e del divenire come "brama" o "sete".

Assimilata la brama ad un fuoco, ogni essere vivente si presenta non come un "Io", ma come un processo di combustione; infatti non si può dire che egli abbia la brama, bensì che egli stesso è brama.

Vi è dunque - latente in ognuno - una volontà di ardere, di divenire fiamma consumando una data materia. Il combustibile stimola questa volontà, attua il fuoco in un processo di combustione dal quale però risulta un più alto grado di calore, vale a dire una nuova energia potenziale di ardere, di destare un nuovo incendio, e così via, ricorrentemente.

Il fuoco è la brama che la volontà conduce verso questo o quel contatto nel quale essa divampa e si conferma, pascendosi, per così dire, di se stessa, ed esasperandosi nell'atto stesso di appagarsi e di consumare il combustibile.

L' "Io" come santâna non è che la continuità di questo fuoco che si abbassa e cova sotto le ceneri al venir meno d'un materiale, per ridivampare ad ogni nuovo contatto.

I contatti si sviluppano attraverso l'attaccamento, upâdâna. Questo si afferma nel già accennato quintuplo tronco costitutivo la persona in genere: organismo, sentimenti, percezioni, tendenze, coscienza individuata.

 

La teoria dell'anattâ ha dunque questo senso: l'Io non esiste fuori dal processo dell'ardere, è il processo stesso. Laddove si producesse davvero un arresto, anche l'Io, l'illusione di essere Io, crollerebbe.

Ecco dunque la ragione dell'angoscia e dell'agitazione primordiale.

Quest'ordine di idee è tale da liquidare la teoria della reincarnazione.

L'idea che «questa coscienza persista immutabile nel giro delle mutevoli esistenze» è indicata espressamente come «falsa opinione, propria ad uno spirito vano». (Majjh. XXXVIII)

L'argomento fondamentale è che non si può riferire concretamente a nessun dato di coscienza l'esser già esistiti nel passato. In secondo luogo, dato che la coscienza è condizionata, e lo è soprattutto da "nome e forma", è inconcepibile una continuità reale di coscienza laddove "nome e forma" mutino, dove nella corrente si formino khandha nuovi e diversi.

Una continuità esiste, ma è impersonale; è la continuità della brama, della corrente. (Es.: fiamma delle tre veglie; latte che diventa caglio, burro, formaggio.)

L'unica continuità reale è quella riferentesi ad un legame causale e ad una specie di eredità impersonale. La fiamma che in un dato essere è la vita di quell'essere ha assunto nel corso di quella vita un certo abitus che si conserverà e si rimanifesterà nella successiva combustione. Da qui la nozione dei "sankhâra".

Nel determinismo complessivo per via del quale la forza fondamentale aggrega proprio quel dato gruppo di dhamma nel suo manifestarsi, si usa il termine "kamma" (scr. karma) tanto da formulare il principio: «Secondo l'operare dell'essere sorge un nuovo essere, eredi delle azioni son dunque gli esseri».

Una analogia la presenta il fenomeno della generazione e della eredità biologica: nel nuovo animale, distinto dal genitore, si continuano tuttavia la vita, le tendenze, gli istinti e spesso anche le tare del padre.

Si deve pensare a successive e molteplici apparizioni in un unico tronco di brama che trascende la singola vita che di essa è costituita, sostanziata. La singola vita ritorna poi allo stato di latenza, si accende altrove e si afferma secondo la forza e la direzione che nella vita antecedente la brama aveva già date a se stessa.

Queste non sono verità evidenti all'uomo moderno. Egli può afferrarne il significato in momenti speciali o critici: nella fame, nel panico, nella brama sensuale. In occasioni come queste si manifesta una reazione istantanea che non procede né dalla "volontà", né dalla coscienza, né dall' "Io"; questo giungendo solo a cose fatte essendo stato scavalcato da qualcosa di più profondo, di più rapido e di più assoluto.

Le radici sotterranee delle inclinazioni, delle fedi, degli atavismi, delle convinzioni invincibili ed irrazionali, le abitudini, il carattere, tutto ciò che vive come animalità si ricongiunge allo stesso principio.

Di fronte ad esso la "volontà dell'Io" ha, di solito, una libertà simile a quella d'un cane attaccato ad una catena abbastanza lunga che non viene avvertita sino a che non venga oltrepassato un certo limite. Se si va oltre ad esso, la forza profonda non tarda a destarsi per scavalcare l' "Io" o per giocarlo, facendogli credere di volere quel che è invece essa a volere.

E vi è chi, in dati momenti, ha la possibilità di distogliersi da sé (mediante la meditazione vipassanâ), di scendere oltre la soglia, sempre più giù nelle oscure profondità della forza che gli regge il corpo, e dove questa forza perde nome e individuazione. Ed allora si ha la sensazione di tale forza che si amplia a riprendere "Io" e "non-Io", a pervàdere tutta la natura, a sostanziare il tempo, a trasportare miriadi di esseri come se essi fossero ebbri o allucinati, riaffermandosi in mille forme, irresistibile, selvaggia, inesausta, priva di sosta, priva di limite, arsa da una eterna insufficienza e privazione.

Chi giunga a questa percezione paurosa, simile a quella di un abisso improvvisamente apertosi, coglie il mistero del samsâra e della coscienza samsârica, e comprende e vive appieno l'anattâ, la dottrina dell'inesistenza dell'Io.

Il passaggio dalla coscienza puramente individuale ad una tale coscienza samsârica è punto chiave della dottrina. Dal punto di vista della mentalità occidentale vanno pertanto, come orientamento generale, distinte due forme o gradi di esistenza e di coscienza: l'una veramente samsârica, l'altra limitata allo spazio ed al tempo di un'unica esistenza individuale.

 

Genesi condizionata

Il problema dell'origine (2ª verità) è stato ulteriormente sviluppato nella dottrina della genesi condizionata, paticca-samuppâda. Dottrina «profonda, difficile ad intendere, generatrice di calma, elevata, irriducibile al pensiero discorsivo, sottile, accessibile solo ai saggi». (Samyutt. VI, 1)  Dottrina «che risale la corrente, che è interna e profonda, essa resta invisibile a coloro che soggiacciono alla brama, ravvolti nella tenebra fitta». (Majjh. XXVI)  Conoscenza raggiunta dal Buddha durante la stessa azione spirituale che lo condusse alla bodhi, e quindi non a carattere filosofico-speculativo.

Questa dottrina che costituisce la premessa delle altre due verità -nirodha e magga- considera una serie di 12 stati o elementi condizionati (nidâna = condizione).

La serie è suscettibile di due diverse interpretazioni che non si escludono né si contraddicono, riferendosi a due piani distinti.

Secondo la prima interpretazione tutta la serie si svolgerebbe sul piano della esistenza samsârica, e andrebbe a costituire una precisazione del processo, svolgentesi nel tempo, sulla direzione orizzontale, secondo il quale una singola esistenza finita è determinata da altre precedenti e, a sua volta, ne determina una successiva, tanto da essere simultaneamente effetto per un riguardo, causa per un altro.

Ma vi è una interpretazione più profonda, toccante veramente le origini o costituente una conoscenza di grado più elevato secondo la quale la serie è da concepirsi in termini trascendentali, si sviluppa cioè nella direzione verticale partendo da stati pre-individuali e pre-natali fino a giungere al piano della esistenza samsârica, in cui si sviluppa, a sua volta, la serie orizzontale considerata nella prima interpretazione.

 

Vediamo la serie trascendentale.

 

1) Come elemento base di tutta la serie viene indicato avijjâ, cioè l'ignoranza, il non-sapere. Si tratta di uno stato di oblio, di deliquescenza, sulla base del quale si determina la potenzialità assolutamente primaria dell'identificarsi all'una o all'altra forma di un'esistenza finita e condizionata. Non si deve pertanto pensare ad una astratta condizione conoscitiva, bensì a qualcosa che comprende anche una disposizione, una tendenza, un movimento virtuale. Questo stato può essere considerato simultaneamente come "accecamento", "intossicazione", "mania", ossia avijjâ dipende da âsava, e âsava è considerata qui tripartita: kâmâsava (mania di desiderio), bhâvâsava (mania d'esistenza), avijjâsava (mania d'ignoranza).

La stretta relazione tra avijjâ ed âsava viene confermata non solo dal fatto che la stessa ignoranza viene indicata come un âsava, ma ancor più dal fatto che lo stato di illuminazione, paññâ, costituente l'opposto di quello di ignoranza, viene frequentissimamente dato come sopravveniente quando gli âsava sono neutralizzati o distrutti.

In che misura l'ignoranza può essere considerata come qualcosa di originario?

Quando si afferma che «un limite anteriore nel quale l'ignoranza non sia in qualche misura stata, ma solo a partire dal quale essa sia invece stata, non è possibile scoprirlo» (Samyutt. XV, 1), ci si riferisce alla serie temporale.

L'ignoranza non si può infatti concepire come un prius assoluto, perché già come tale presuppone una conoscenza. Né avrebbe senso parlare d'un risveglio perché evidentemente non ci si sveglia se prima non ci si è addormentati e se non vi è qualcosa che riluce oltre la nebbia dell'oblio. Infine l'ascesi si troverebbe fondamentalmente pregiudicata perché non si riuscirebbe a capire da dove possa venire la forza di resistere, di distaccarsi dal samsâra, di distruggere, ripercorrendola a ritroso, l'intera concatenazione dei nidâna. L'ignoranza rappresenta qualcosa di sopravvenuto, un'intossicazione, un oscuramento, un'ebrezza la quale, per profonda che sia, presuppone però sempre uno stato antecedente, né è tale da paralizzare irrevocabilmente ogni forza connessa a tale stato. Ciò risulta confermato attraverso il testo seguente: «Vi è, o discepoli, qualcosa di non nato, di non divenuto, di non composto, di non creato. Se non vi fosse, non vi sarebbe nemmeno una Via per andare di là dal nato, dal divenuto, dal composto, dal creato. Ma poiché questo qualcosa è, così è possibile una liberazione».

Sul piano samsârico, e quindi secondo l'interpretazione temporale, l'ignoranza è da intendersi come quella di chi, sceso nella nascita, non comprende le quattro verità. Questa ignoranza, determinata dagli âsava, conferma lo stato samsârico dell'esistenza e determina il substrato per il suo protrarsi.

2) Ad avijjâ seguono i sankhâra. Essi rappresentano lo stato in cui il moto potenziale proprio al primo nidâna ha già assunto una certa direzione. Bisogna tenere presente il fattore volitivo ed attivo (sankhâra come kamma cetanâ), e quello "concezionale" dei sankhâra.

Sankhâra è la passione che comprende desiderio, avversione, paura e gioia. Sankhâra sono i prodotti della facoltà che lo spirito ha di concepire, di immaginare.

E' in tali termini che comincia a concretizzarsi l'oggetto della mania e a definirsi una determinata corrente, santâna, nella discesa verso l'esistenza samsârica.

Nella concatenazione verticale i sankhâra si riconnettono al kamma, prendendo kamma nel significato generale di azione e di principio generico della differenza degli esseri.

Nella concatenazione samsârica, temporale, orizzontale, considerandovi invece le radici del carattere, le predisposizioni, le tendenze innate, come pure quelle nuove che si sviluppano e che, stabilizzatesi ed incorporate nel tronco della brama, passano da essere ad essere.

In questo secondo senso i sankhâra sono considerati come uno dei cinque tronchi costitutivi della personalità: fattori di vita che condizionano l'esistenza.

3) I sankhâra, per via della distinzione o individuazione che implicano, danno luogo al terzo nidâna, viññâna, coscienza, coscienza distintiva. Abbiamo cioè la potenzialità di tutto ciò che apparirà come individualità, come coscienza individuata, non necessariamente "umana".

4) Il quarto nidâna è nâma-rûpa, cioè nome e forma. Con tale termine si comprende l'insieme degli elementi materiali, sottili e mentali di cui una coscienza individuale ha bisogno come base.

 

Sul piano del quarto nidâna avviene l'incontro della direzione verticale con la direzione orizzontale che condurrà alla concezione ed alla generazione di un essere, non necessariamente umano.

 

(Per quel che riguarda la nascita di un essere umano, gli elementi che concorrono sono tre.

Il primo è di carattere trascendentale e si lega ai primi tre nidâna. Occorre cioè che ignoranza, mania e sankhâra abbiano determinato un oscuramento ed una corrente discendente che, per via del secondo nidâna (sankhâra) ha già una sua direzione, e, per via del terzo (viññâna), volge già verso una forma individuata ed egoica di coscienza.

Il secondo elemento si riferisce a forze ed influenze già organizzate, ad una volontà già determinata, corrispondenti ad uno di quei processi di combustione che costituiscono il samsâra, di cui è già stato detto.

Tali influenze e tale volontà si possono complessivamente concepire come un ente sui generis, ente samsârico o ente di brama. E' una vita che non si esaurisce in quella terrena del singolo, ma va concepita come la "vita" di questa vita, e va riportata alle nozioni di "dèmone", di "doppio", di "genio" che si trovano in altre tradizioni. Nell'Abhidharmakosha, cioè nella sistemazione teorica del buddhismo, questo ente riceve il nome di antarâ-bhava (= esistenza intermedia); si giudica che esso abbia una esistenza pre ed inter-natale; sostanziato di "desiderio" e trasportato da impulsi alimentati da altre vite anteriori, esso cerca di manifestarsi in una nuova esistenza. Al piano di questo nidâna -nâma-rûpa- si produce dunque il congiungimento del principio oscurato dall'ignoranza con l'antarâbhava. Il dèmone vaga sino a che si presenta l'occasione di una nuova "combustione" all'atto di scorgere l'incontro d'un uomo con una donna che, presentando una eredità corrispondente al bramato, possono esserne il padre e la madre.

Quell'ente concepirebbe un desiderio per la futura madre o per il futuro padre, a seconda del sesso che gli fu proprio nella precedente vita esaurita, e di una corrispondente avversione per l'altro genitore. L'ente si identifica attraverso l'ebrezza dei due, entra nella matrice e si opera il concepimento. Sùbito gli si condensano attorno i khandha, gli elementi germinali concatenati che stanno alla base della personalità, e, a partire da allora inizia il processo embrionale.

Nell'essere umano sono pertanto presenti tre princìpi o enti: mens, anima, corpus; nous, psüke, sôma;  e nel Sâmkhya: kârana, linga, sthûla-shârira.

Nei testi più antichi le cose sono presentate in modo che il dèmone o ente samsârico potrebbe equivalere a viññâna (terzo nidâna), cioè alla coscienza. In realtà si tratta di due cose ben distinte. La "coscienza", viññâna , non è il "dèmone", essa tuttavia lo incontra e vi si immedesima. Nel composto umano esiste dunque un "dèmone", sede di una coscienza più che individuale, al quale possono anche legarsi ricordi, istinti e cause di remota origine; dèmone che si può far corrispondere alla "coscienza scrigno", âlaya-viññâna, che riceve le impressioni coscienti e non-coscienti, ma esiste anche un principio superiore che l'ignoranza e gli âsava hanno intossicato ed ottenebrato.

Nel punto in cui l'antarâbhava entra nella matrice ed i khandha gli si solidificano intorno, esso "muore", ossia cessa la continuità di coscienza e sopravviene l'oblio degli stati prenatali e preconcezionali, samsârici e trascendentali. A partire da questo punto (quarto nidâna) si afferma l'inseparabile correlazione fra coscienza ed unità psicofisica (nâma-rûpa) che lo individua: onde, se è necessario che la coscienza scenda nel grembo materno affinché nâma-rûpa possa organizzarsi, in pari tempo occorre vi sia nâma-rûpa perché esista la coscienza.)

 

I nidâna che seguono vanno riferiti al lato interno dello sviluppo embrionale.

 

5) Come quinto anello della serie vi è salâyâtana, cioè (l'assunzione della) sestupla sede. S'intendono con questo termine i tronchi nei quali, per contatto, si accenderanno le varie impressioni dei sensi e le varie immagini della mente. Viene considerato un senso anche "mana", la mente, il pensiero. Il pensiero soggettivo legato al cervello ha la stessa dignità degli altri sensi. Quando non si limita a coordinare ed organizzare i dati sensibili, si ritiene che il pensiero scaturisca da forme speciali, sottili, di "contatto".

6) Dalla potenzialità passando all'attualità si ha il sesto nidâna, phassa, contatto. Ci si riferisce all'esperienza che, sotto determinati stimoli, comincia ad ardere in ciascuno degli anzidetti sei tronchi.

7) Il nidâna successivo è vedanâ, il sentire, il colorito affettivo delle percezioni, il sentimento in genere. Qui si manifesta ed accende la mania "trascendentale" che fa da substrato all'esperienza.

8) Segue tanhâ, la sete, che, alimentata dai contatti, si desta nei vari tronchi come quella fiamma che arde in ogni senso e che comprende l'oggetto, la facoltà dei sensi, il contatto e l'impressione che ne segue, anche quando questa è neutra.

9) Segue il nono nidâna, upâdâna, che significa "abbracciare", attaccamento. E' un accettare, un far proprio attaccandosi, dipendendo. Qui avviene la formazione della personalità sulla base dei cinque tronchi:

1) tronco della forma (rûpa), ciò che è sotto il dominio dei sensi.

2) tronco dell'affettività (vedanâ).

3) tronco delle concezioni, rappresentazioni, forme mentali (saññâ).

4) tronco delle predisposizioni, tendenze, volizioni (sankhâra).

5) tronco della coscienza determinata, condizionata e individuata (viññâna).

Quello che nei 5 tronchi è motivo di volontà e affermazione, quello è attaccamento. La personalità samsârica non è costituita da quei 5 domini bensì da ciò che è "brama di volontà", dalla "sete" che ora si fonde con quella del "dèmone" e, nel punto di appagarsi attraverso i contatti, determina il dipendere, mentre dal dipendere, a sua volta, procederà l'angoscia fondamentale di coloro che non hanno in se stessi il proprio principio e si tengono disperatamente afferrati a sakkâya, alla persona, all'Io. Mediante questo attaccamento ha origine il divenire.

10) Essendo ormai presenti tutte le condizioni necessarie all'affermarsi della persona, si ha l'effettivo divenire di essa, l'atto-sintesi del suo enuclearsi definitivo come essere individuo e del suo esistere (nel senso etimologico del termine). Ciò costituisce il decimo nidâna, bhava, che significa appunto divenire.

 

Dal quinto al decimo nidâna si tratta di stati che si sviluppano come controparte della vita embrionale a partire dalla concezione, con determinazione dei modi nei quali essa si svilupperà nello spazio e nel tempo o in altre condizioni di esistenza.

11) Controparte del divenire è jâti, la nascita, concepita spesso anche come "discesa".
La dottrina della genesi condizionata non ha in vista solo il caso di una nascita umana e terrestre, anche se è a tale eventualità che soprattutto si riferisce, ma anche sul piano delle "forme pure" (rûpa) o su quello "libero da forma" (arûpa).
12) L'ultimo nidâna è jarâmarana, cioè declino e morte, inseparabili correlativi della nascita.
 
La catena della genesi condizionata ci ha condotti per gradi sino al mondo della contingenza, della eterna impermanenza, dell'agitazione, di quella individualità che è una illusione ed un puro nome, di quella vita che è intrisa di morte ed è alterata dall'angoscia e da una radicale privazione o insufficienza.
In questi termini si articola l'insegnamento compendiato dalle due prime verità arye, cioè dukkha, agitazione-angoscia radice d'ogni sofferenza, e il suo substrato, tanhâ, la sete, la brama, il desiderio.
Il grande significato pratico della dottrina del paticca samuppâda sta nel fatto che con essa si afferma che il mondo non esiste come qualcosa di assoluto, ma è condizionato, contingente, effetto d'un processo in cui non figurano cause estranee, per cui, in via di principio, è sempre possibile un rivolgimento, una rimozione, una distruzione. L'insegnamento buddhista considera appunto anche la serie ascendente delle dissoluzioni, chiamata la "retta via". Se nella prima serie, in dipendenza dell'ignoranza si formano i sankhâra, da questi la coscienza, dalla coscienza "nome e forma" e così via; nella seconda serie, distrutta l'ignoranza, i sankhâra sono distrutti; distrutti i sankhâra, viññâna è distrutta e così via sino alla rimozione condizionata degli ultimi effetti, cioè della nascita, del declino, della sofferenza e morte, cioè della legge dell'esistenza samsârica.
Si presenta ora la possibilità di considerare l'altra già accennata interpretazione degli stessi nidâna, definita "orizzontale".
Bisogna suddividere i 12 nidâna in 4 gruppi, e riferirli a più esistenze individuali.
 
1° gruppo      |    1  avijjâ            sarebbe relativa alle 4 verità, alla contingenza del mondo ed allo scampo. 
   vita           <                           

  anteriore     |    2  sankhâra      sarebbero le predisposizioni createsi in una vita anteriore vissuta in tale ignoranza,

                                                e relative al pensiero, alla parola ed all'azione.
 
2° gruppo    |     3  viññâna         coscienza correlativa ai 6 sensi.
     Vita      <    4  nâmarûpa     complesso psico-fisico dell'uomo vivente.
presente     |     5  salâyatana    sede dei 6 sensi.
 
Tutto il gruppo si riferisce al formarsi e allo svilupparsi della nuova vita che riprende la già detta eredità.
 
                 |    6  phassa        riguarda l'esperienza sensibile
3° gruppo   |    7  vedanâ         riguarda l'esperienza sensibile
   vita       <                           
presente    |    8  tanhâ            riguarda l'esperienza sensibile
                |     9  upâdâna       attaccamento al desiderio, alle opinioni, alla credenza nell'Io, alla credenza nell'efficacia delle norme morali e dei riti.
 
Il gruppo conferma lo stato samsârico di esistenza alimentando, con altra brama, la brama preesistente e generando, con i pensieri e le azioni, delle energie che si manifesteranno in una nuova vita.
 
4° gruppo  |  10  bhava           |
   vita       <  11  jâti               >  effetti dell'esistenza antecedente.
futura        |  12  jarâmarana   |

 

Questa interpretazione dev'essere qua e là tenuta presente per inquadrare alcuni speciali riferimenti dei testi, essa tuttavia ha un carattere inferiore ed esteriore rispetto all'altra perché non può rivendicare un carattere di coerenza perfetta.

Ad esempio non si vede perché "divenire", "nascita" e "decadenza e morte" non siano già incluse nei gruppi mediani riguardanti la presente esistenza, ma vengano invece riferiti ad una successiva esistenza, quasi come se ciò non valesse già sia per la vita attuale, sia per quella in cui vengono localizzati i sankhâra e l'ignoranza; e quasi come se, in quella successiva esistenza, non si ripresentassero di nuovo sia ignora