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Comunque vada, saremo opposizione

di Eduardo Zarelli - 29/03/2006

Fonte: Arianna Editrice

 

“Controllare gli appetiti e i desideri.

Impedite che i desideri diventino i vostri padroni.

Non coltivate l’egoismo: causa sofferenza a voi e a tutti quelli con i quali venite a contatto.

Non entrate nel mondo di Marmoo dove abitano i miserabili e gli avidi, non diventate cibo per loro.

Siate puri e saldi e rispettate le leggi”.

(Aborigeni australiani – leggi ancestrali trasmesse oralmente)

 

Comunque vadano le elezioni legislative, noi saremo all’opposizione, sociale e culturale. Non per frustrazione e autoemarginazione, ma per coerenza intellettuale, temperanza etica e passione politica. Il proceduralismo democratico ha raggiunto una matura identificazione con interessi oligarchici impolitici, che non consentono alcuna indulgenza verso il parassitismo rappresentativo e la reale vocazione agli “interessi generali” delle vigenti istituzioni.

Lo stesso sostrato ideologico, residuale in questa “società dello spettacolo”, in cui ogni ideale è un canovaccio per l’intrattenimento mediatico e il procacciamento di consenso elettorale, non consente alcun ottimismo. La partecipazione a pieno titolo delle punte “estreme” del radicalismo ideologico negli schieramenti elettorali, rende evidente ancora una volta come la nostra proposta sia di reale oltrepassamento e trasvalutazione dell’esistente. Lo schematismo politologico amico/nemico è inadatto a interpretare e proporre tesi aggreganti; all’oggi, il polemos schmittiano ci appare come una spasmodica ricerca di improbabili capri espiatori, a conferma di identità surrettizie e strumentali. Analogamente, in ambito sociologico, nell’attesa di uno “stato nascente” che renda possibile l’aggregarsi del disinteresse partecipativo in forme di movimentismo originali, bisognerà uscire dal riduttivismo della contraddizione tra lavoro e capitale. Sia la lotta di classe che il suo antidoto interclassista sono modalità ideologiche legate al Novecento, alla modernità, alle sue forme di produzione economica e sociale. Senza voler semplificare, a nostro uso, il complesso contesto di un’epoca di transizione, il contrasto sostanziale su cui varrà la pena di concentrare l’attenzione della riflessione non conformista, è il distacco tra cultura e natura operato dalla civilizzazione industriale, all’oggi contestualizzabile come “occidentalizzazione” del mondo. Tale contraddizione ci sembra una faglia reale su cui verificare il pensiero politico e la sua capacità di costruire “nuove sintesi” aggregative, in grado di reggere la drammatica tensione epocale.

Il conflitto insito nel modello di sviluppo “illimitato” tra modernizzazione e suoi reali vantaggi è oramai giunto fino alla sensibilità della gente comune. Dire “sì” o “no”, a un’economia consumistica che richiede costi sempre più alti in termini di equilibri culturali, sociali e ambientali? La risposta intellettuale sembra racchiusa nella dialettica tra maggioranze progressiste e minoranze pauperiste, ma in realtà nasconde una riflessione più profonda, potremmo dire “paradigmatica”, in merito al destino della civiltà della tecnica e alla razionalità strumentale che la interpreta. Forse siamo giunti a un punto, in cui può apparire palese che “estremisti” sono gli interessi del sistema economico dominante e che la “normalità” è della gente comune, orfana di un modello sociale e politico compatibile con la dignità dell’uomo. In effetti, sempre più spesso, negli ambienti più sensibili, si sente parlare di “decrescita”, ma tale concetto attraversa inconsciamente le angosce di quella folla solitaria e individualistica che vive, abita e lavora nella megamacchina tecnomorfa. Non a caso, le prime accuse che vengono poste alla “decrescita” sono di regressività, utopicità reazionaria, umore irrazionale e antistorico, quasi che la sobrietà negli stili di vita e la consapevolezza di essere parte del territorio in cui si abita fossero una melanconica e irrazionale nostalgia per il passato: in realtà, la parola “economia” è formata da oikos e nomos; “ecologia”, da oikos e logos; oikos significa “casa”, nomos “criterio di condotta” e logos “pensiero conseguente”. In natura si hanno solo fenomeni ciclici, il termine “decrescita” ha una valenza semantica critica, ma declinare lo sviluppo come una crescita illimitata è irreale, ancor prima che irresponsabile è l’espressione dei peggiori istinti egoistici. Una economia del “bene comune” va adattata all’equilibrio omeostatico degli ecositemi, indipendentemente da comparazioni con il passato. Uscire dall’immaginario economicista dominante significa cogliere la misura dei propri comportamenti, dominare se stessi, coltivare attraverso l’essere la libertà, la virtù relazionale e la creatività personale, di contro alla cupidigia istintuale dell’avere e ai meccanismi eterodiretti ingegnati dalla società dei consumi grazie al fraintendimento del concetto di felicità.  

La civiltà è una messa in forma di un archetipo condiviso. Una Gestalt processuale e dinamica, plastica come l’autoevoluzione di forma e funzione nei processi naturali di manifestazione e adattamento. Hybris, per il pensiero greco, è ogni situazione in cui si assiste a un oltrepassamento del giusto, a una prevaricazione. Il bello, in natura come nel vivere simbiotico, accomuna olisticamente la parte con il tutto, in cui la prospettiva d’insieme è superiore alla semplice somma delle parti. Qui si gioca la chiave di un rinnovato equilibrio tra diritti e doveri, tra pubblico e privato. L’individualismo ha spezzato il ruolo pubblico della libertà personale. Un comunitarismo elettivo e non ascrittivo è lo snodo problematico su cui innestare qualsiasi discorso di oltrepassamento del modello dominante di sovranità politica e, d’altra parte, ciò si renderà possibile solo quando verranno messe in discussione le strutture economiche e sociali, che alimentano il sensismo materialista dominante. 

Non si può, quindi, banalizzare la discussione economica sugli effetti e sulle conseguenze, ma bisogna riportarla sulle cause, declinando la modernità oltre se stessa e il suo feticcio consumista. Non c’è da esprimere un “si” o un “no” alle “grandi opere” per affrontare un autosviluppo economico di una cultura responsabile del suo destino di civiltà, ma bisogna modificare radicalmente la prospettiva su un diverso paradigma, che si poggi sulla “riduzione di scala” dei modi di produzione – a partire dalle corporation transnazionali – e sul “decentramento” della produzione alimentare, dei trasporti e dell’approvvigionamento energetico. Riduzione di scala e decentramento si realizzano solvendo la tecnocrazia amministrativa in partecipazione decisionale vincolata alla sussidiarietà. Caratteristica antieconomica degli apparati è di autosostenersi, a discapito dell’efficienza e dell’ambiente sociale e naturale in cui gli stessi operano: una dissipazione entropica analoga alle modalità di una tecnologia meccanicistica, che deve lasciare il posto a “tecnologie appropriate” e a una scienza del vivente in grado di coniugare conoscenza ed equilibri biologici nella coerenza elettrodinamica quantistica della natura. Solo una scienza riorientata da questa consapevolezza potrà sostenere le scelte etico-pratiche di una società olistica, sobria, autoregolata al minimo dei bisogni e dei consumi, in armonia con la natura.

Il superamento della mercificazione e della massificazione totalitaria del liberismo passa per la riduzione del mercato globale a mercati locali, con scambi di reciprocità dei prodotti d’uso, dato che solo la produzione locale può raggiungere la sostenibilità dei cicli energetici e dello smaltimento dei rifiuti. Analogamente, bisognerà trasferire lo scambio economico da un piano globale e competitivo ad uno reciprocitario e relazionale, che riproduca, attraverso il dono, quella socializzazione dell’economico descritta da Karl Polanyi, oltre la stessa redistribuzione centralistica. In tal senso, il politico va inteso nella sua autonomia rispetto ai corpi sociali, e non superiorità, fraintendimento che pone, volenti o nolenti, ogni riproposizione delle ideologie novecentesche avverse al modello capitalista, sul piano inclinato dell’autoritarismo.

La consapevolezza sociale di una pratica sostenibile è, invece, l’armonico disporsi dei corpi intermedi per il bene comune tramite la partecipazione politica; la democrazia negata come rappresentatività oligarchica va riconquistata dal basso come pratica comunitaria; il locale è il luogo fisico, dell’identità culturale e materiale in cui il costume sociale ridiventi ethos pubblico nell’assunzione della responsabilità civica e della consapevolezza di essere parte della più ampia comunità ecosistemica territoriale: usi civici ambientali ed energetici, responsabilità fiscale diretta, servizi comunitari autogestiti, cariche pubbliche con scadenze a mandato, monete locali, forme di vita autosufficienti – come le cellule, che, scambiando tramite la loro membrana solo il necessario proteinico per la sopravvivenza singola, contribuiscono contemporaneamente alla vitalità dell’organismo generale – la prossimità, il vicinato, l’empatia dell’appartenenza a partire dal fondamento familiare contro l’anonimato della disgregazione e dello sradicamento individualistico, la qualità sulla quantità, la piccola impresa, la partecipazione proprietaria e mutualistica, l’osmosi relazionale a base della struttura produttiva. È la persona normale, a non aver nulla da guadagnare dalla globalizzazione e dal sovradimensionamento socio economico.

La conseguenza, nei rapporti internazionali, va nel segno di un realismo politico multilaterale – e non giuridico e moralista – fondato sull’autodeterminazione dei popoli. Il differenzialismo e la biodiversità sono principi universali e antidoti al fondamentalismo dell’omogeneizzazione occidentale: la riduzione tecnomorfa della natura e la mercificazione del vivente.