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Quando il Sud era nazione

di Raffaele Ragni - 19/10/2009

 


Il Reame fondato da Ruggero il Normanno (nella foto) nel 1130 comprendeva la Sicilia ed il Meridione d’Italia, fino a Gaeta e Civitella del Tronto. Oggetto di secolare contesa tra varie dinastie europee, per circa due secoli fu parte integrante di altri Stati, prima della Spagna e poi del Sacro Romano Impero. Nel 1734 ritrovò l’indipendenza e l’integrità dei suoi confini originari con Carlo I di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese.
Il Regno delle Due Sicilie era una monarchia assoluta nata dall’unione di due corone, di Napoli e di Sicilia. Fino al 1861 primeggiò tra gli Stati europei, oltre che nelle arti e la scienza, anche nel commercio e le manifatture. All’epoca della prima rivoluzione industriale, i sovrani avviarono lo sviluppo di un’economia mista, che integrava intervento pubblico ed iniziativa privata, capitali locali e investimenti stranieri. Livelli di eccellenza furono raggiunti nei seguenti settori: metalmeccanica, cantieristica, tessile, concerie, agricoltura e alimentari, minerali, siderurgia, armi, cartiere industriali e tipografie, legno, chimica, ceramica, vetro, gioielleria.
I produttori nazionali erano tutelati da un regime protezionista, pretestuosamente criticato dalla storiografia liberale, giacché la tariffa doganale napoletana del 1846 era più bassa di quella italiana successivamente adottata. Con infrastrutture portuali adeguate e la prima flotta mercantile in Italia, il Regno delle Due Sicilie esportava in tutto il mondo le sue merci, contrassegnate da un marchio d’origine e di qualità. La bilancia commerciale era costantemente attiva e il bilancio pubblico in pareggio, col minore carico erariale in Europa.
Il paternalismo e la fede cattolica dei sovrani, determinarono ulteriori primati in materia di assistenza sociale: primo Stato ad offrire assistenza sanitaria gratuita agli operai, primo istituto italiano per sordomuti, più bassa percentuale di mortalità infantile in Italia e più alta percentuale di medici per numero di abitanti. A mitigare l’esosità dei nobili sul proletariato rurale, c’era la normativa sugli usi civici, secondo cui, sui terreni del demanio statale ed ecclesiastico - circa un terzo delle terre del Sud - era consentito fare legna, prelevare acqua, far pascolare gli animali, costruire ricoveri, fare calce, raccogliere funghi e prodotti boschivi, tutto gratuitamente.
Tuttavia - nonostante i numerosi primati nella produzione manifatturiera e nell’assistenza sociale, come nelle infrastrutture ferroviarie e portuali - il Regno delle Due Sicilie restava un’economia prevalentemente agricola, con gravi forme di ingiustizia e disagio sociale. Sebbene la feudalità fosse stata ufficialmente abolita, i terreni agricoli privati restarono divisi in latifondi. Nelle discrepanze di un sistema economico avviato all’industrializzazione dall’iniziativa pubblica e da una nascente borghesia cittadina, ma ancora fondato sui privilegi di ceti rurali parassitari, peraltro velatamente ostili alla monarchia, cominciò ad insinuarsi la delinquenza, che assunse le prime forme organizzate ad imitazione della massoneria liberale e dell’estetica cavalleresca.
Nelle grandi metropoli, come Napoli, i compagnoni o camorristi gestivano il gioco d’azzardo e la prostituzione. Con lo sviluppo dei traffici e delle manifatture, cominciarono a fare il contrabbando, nonché a taglieggiare piccoli commercianti ed artigiani, soprattutto nelle zone del porto e ai mercati generali. Erano ben strutturati solo all’interno delle carceri. Fuori vigeva lo spontaneismo, con frequenti agguati e duelli per il controllo del territorio. Nelle campagne, soprattutto in Sicilia, esistevano bande armate di mafiosi al servizio dei gabellotti, che facevano da intermediari tra i diversi ceti agrari - proprietari terrieri, affittuari, subaffittuari, contadini - per riscuotere canoni ed esigere prestazioni, in lavoro o natura. Nelle campagne, come in altri Stati e in tutte le epoche, c’erano anche i banditi, cioè contadini che, insofferenti dei soprusi, si davano alla macchia e vivevano di rapina.
Con l’unità d’Italia il processo di sviluppo industriale avviato dai Borboni fu interrotto sulla base di precise scelte di politica economica. Furono abolite le misure autarchiche e protezioniste che avevano favorito il decollo delle manifatture locali. Le imprese statali furono prima privatizzate e poi, in massima parte, smantellate. Molti impianti industriali furono trasferiti al Nord. Si accentuò la pressione fiscale con nuove gabelle che, oltre a colpire la popolazione in generale, penalizzarono i ceti produttivi e distrussero lo Stato sociale borbonico.
Le terre demaniali ed ecclesiastiche, espropriate dal governo unitario, furono vendute ai privati ed andarono, talvolta ad ingrossare il latifondo della nobiltà, talaltra a favorire la nascita di un nuovo ceto possidente e improduttivo, i cosiddetti baroni. Erano d’estrazione borghese, soprattutto commercianti arricchitisi con appalti del nuovo governo, ma tendevano ad assimilarsi alla nobiltà, per mentalità e ruolo sociale. Aumentarono così anche gabellotti e mafiosi, sempre più richiesti da vecchi e nuovi ricchi.
L’aumento della delinquenza organizzata fu favorito, non solo dalla nuova stratificazione sociale, ma soprattutto dalla legittimazione avuta dal nuovo potere politico a partire dalla spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. In Sicilia i picciotti garibaldini erano contadini che speravano nella ridistribuzione delle terre, oppure mafiosi reclutati da nobili liberali e massoni per ingrossare la teppaglia antiborbonica. I primi, dopo la delusione, passarono alla resistenza antiunitaria. I secondi, capitalizzando il bottino di rapine e saccheggi, ritornarono alle loro attività delinquenziali vantando amicizie con i notabili locali, che continuarono ad usarli per azioni intimidatorie in occasione dei plebisciti unitari e delle competizioni elettorali.
Analogamente i camorristi napoletani furono arruolati dal capo della polizia Liborio Romano - liberale e massone, doppiogiochista e futuro deputato italiano - che riuscì così a garantire l’ordine pubblico all’arrivo di Garibaldi. Finita l’emergenza, i delinquenti che non avevano fatto carriera in polizia, tornarono nell’illegalità, con ingenti capitali accumulati col contrabbando e il taglieggiamento fatti nei primi anni di storia unitaria, con amici potenti ed una struttura organizzativa potenziata.
L’annessione del Regno delle Due Sicilie non fu tuttavia un processo pacifico. A più riprese, per circa un decennio, il popolo insorse contro il governo centralista.
La storiografia risorgimentale, prendendo a prestito il termine riferito dalla propaganda giacobina agli insorti di Vandea, definisce brigantaggio l’insorgenza duosiciliana, assimilandolo al banditismo rurale, fenomeno atavico e comunque minoritario, e minimizzando la sua connotazione al tempo stesso di lotta di popolo e lotta di classe.
Alcuni studiosi accentuano il ruolo avuto da sacerdoti ed ufficiali del disciolto esercito borbonico nel fomentare la rivolta, ma tutti evitano accuratamente di evidenziare una verità storica: se è vero che, alle milizie degli insorti, si aggregarono anche banditi, è altrettanto vero che mafiosi e camorristi stavano dall’altra parte, nella teppaglia garibaldina, nei ranghi della polizia unitaria, nelle bande armate dei rentiers, fuori ai seggi dei plebisciti, nei comitati elettorali dei liberali illuminati.
I soldati impegnati nella repressione dell’insorgenza attuarono una guerra terroristica, con fucilazioni di massa, interi villaggi rasi al suolo, saccheggi, incendi, torture, stupri, gente sepolta viva. Le vittime non erano soltanto briganti, ma loro parenti o paesani, donne e bambini, gente inerme accusata di aiutare gli insorti. Per criminalizzare l’insorgenza e giustificare la violenza dell’esercito, furono utilizzati norme giuridiche anticostituzionali e teorie razziste di parvenza scientifica.
La legge Pica (1863) affidava ai tribunali militari, non solo i briganti, ma anche i loro parenti o semplici sospetti. Poiché si applicava anche a camorristi e manutengoli, legittimava l’assimilazione tra insorgenza politica e delinquenza comune. Alcuni antropologi, misurando le forme craniche di briganti e delinquenti, morti o arrestati, identificarono una presunta razza meridionale, geneticamente diversa dai settentrionali, e ne teorizzarono l’attitudine naturale al crimine ed all’insubordinazione in genere.
Con tali presupposti, quando nel 1873 si cominciò a parlare di questione meridionale, le cause del divario economico tra Nord e Sud cominciarono ad essere identificate nella criminalità organizzata, nel carattere dei meridionali, nel clima, nel malgoverno della dinastia borbonica. Negata legittimità politica all’insorgenza, taciute le scelte di politica economica del governo centralista che l’avevano provocata, fu comodo ricondurre il sottosviluppo a ragioni morali e razziali.
Nel corso degli anni, alle mistificazioni della storiografia liberale, hanno reagito storici d’estrazione diversa - marxisti, cattolici, neoborbonici - che hanno cominciato a spiegare, ciascuno dal suo punto di vista, le responsabilità del governo unitario e delle classi dominanti. L’immensa letteratura meridionalista ha un indiscutibile valore storiografico, ma si è rivelata, almeno fino ad oggi, totalmente inefficace sul piano della produzione identitaria. Anche laddove ha alimentato il senso d’appartenenza ad una nazionalità oppressa, non ha mai ispirato una forte progetto politico, se non in subordine a partiti romanocentrici.
Per capire quanto siano deboli le potenzialità rivoluzionarie della coscienza etnica che anima in forma residuale le popolazioni del Mezzogiorno, basta considerare la percezione di se stessi che hanno i paladini dell’identità sudista. Nella maggioranza dei casi, essi amano definirsi meridionali, parola che esprime e presuppone sempre il riferimento a qualcuno che sta al di sopra, ad un altro che domina e decide. Questo è un sintomo evidente di sudditanza psicologica, a tal punto interiorizzata, da soffocare ogni anelito di libertà.