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L'"orco" Bersani sfilerà il calzino a Franceschini

di Marcello Veneziani - 22/10/2009

 



Sarà Pierluigi Bersani l’utilizzatore finale. Sarà lui che probabilmente domenica prossima scalzerà il fatino dalle calze turchine Dario Franceschini e diventerà il leader della sinistra italiana. Così almeno dicono i pronostici e i sondaggi. Sarà l’utilizzatore finale della campagna di guerra scatenata contro Berlusconi da giornali e gruppi editoriali, magistrati e banche, più le milizie dipietresche. Il paradosso di questa catena di smontaggio è che l’utilizzatore terminale, che dovrebbe godere alla fine di quest’operazione, è impotente. Dico politicamente, s'intende. Se fossi uno di sinistra, preferirei l’orco Pierluigi al pedalino Dario. È più compagno, più figlio della storia di sinistra, ha mangiato pane e comunismo alle coop emiliane; con il sopracciglio lievemente torvo e la pelata aureolata da una residua siepe di capelli, ricorda vagamente Lenin; ma un Lenin bollito, ripassato alla bolognese. Certo, colpisce pensare che ambedue i candidati siano emiliani, quasi a significare la ritirata strategica della sinistra nella sua storica roccaforte rossa e la nascita di un partito regionale che perde a nord, a sud e pure a Roma, e allora riparte dall'Emilia compagna. Un derby emiliano tra Bersani il tortellino di carne e Franceschini il raviolo di ricotta.
Di quest’elezione vorrei sottolineare due cose. La prima è che si fronteggiano D’Alema e Veltroni sono sotto falso nome; batti e ribatti, Bersani e Franceschini sono i loro succedanei. L’uno, non potendo citare Togliatti si accontenta di Vasco Rossi, e vuol dare un senso a questa storia - come scrive sui manifesti - e dunque evoca il Pci vecchio e glorioso, Sua Maestà il Partito. L’altro, invece, è figlio del Pd e di Margherita, viene dalla Dc sinistrese, infurbita dalla dimestichezza con la sinistra all’americana, ed è un candidato perfetto: perché parla come Fini, almeno nell’inflessione, e gli somiglia fisicamente (e Fini oggi è l’unico politico che unisce nel consenso la sinistra) e pensa come Veltroni, di cui eredita la linea e il modellino kennediano. Ma la domanda sorge spontanea: se non sono riusciti gli originali, vale a dire D’Alema e Veltroni, riusciranno i loro succedanei? I bersani e i franceschini sono due mezzi leader; per farne uno si dovrebbero sposare, anzi di più, innestare l'uno nell'altro. Così riuscirebbero a ricucire le due anime principali del partito, oggi divergenti. Ma sarebbe un mostro che prega e impreca, implora il Partito e poi la Chiesa, metà Peppone e metà don Camillo per restare nella Bassa; insomma un caso di schizofrenia. Marino, il terzo, non sarà l’arbitro quanto piuttosto il medico in caso di scontro violento; a lui sarà affidato il referto e l’autopsia. Perché, come sapete, il conflitto tra le due componenti poi dilaga in periferia, da Napoli a Bari, e ovunque. Due mezzi leader non fanno un leader. Forse la stessa cosa si direbbe sul versante opposto se si ponesse il problema della successione al Sovrano. Ma i tempi della politica sono tarati sul presente, e dobbiamo constatare il sinistro: ovvero l’assenza di un leader a sinistra. Arrivano due vicari, due bravi funzionari, magari anche bravini come portavoce e portacenere. Perché la sinistra già ridotta all'osso al tempo di Fassino, oggi è cenere.
E qui entriamo nel secondo mistero doloroso. La sinistra che fu. Non ha trovato una sua linea originale, né ha saputo rifondarsi come liberal, radical o attingere alla tradizione socialdemocratica europea: si veda a tal proposito la giusta analisi di Giuseppe Averardi in 1989-2009 I Mutanti (ed. Datanews).
Dicevamo prima che il Partito democratico, nella persona del suo leader, resta l’utilizzatore finale della campagna di guerra. Ma dobbiamo pure aggiungere, per amor del vero, che la Cosa arriva al suo destinatario già spolpata, logorata, spenta. Ammettiamolo: la sinistra non ha pilotato né cavalcato nessuna delle battaglie mediatiche, giudiziarie, finanziarie esplose negli ultimi mesi. Le ha viste passare sotto gli occhi, si è fatta dettare l’agenda da Repubblica, dai giudici e da Di Pietro, è andata al rimorchio, a volte prendendo certe rinculate che non vi dico (come il caso Puglia, ma non è il solo). D’Alema nelle vesti della Sibilla si è scottato con la sue stesse profezie; Violante, antico organizzatore di piani, oggi è in disarmo e fa il conciliante da piano bar; di Veltroni l’ultima cosa memorabile che si ricordi quando era attivo in politica, è il doppiaggio di un tacchino in un cartone animato. Ho l’impressione che la sinistra sia oggi una collezione di nostalgie, alcune indicibili altre sommesse: di Gramsci e di Togliatti, per non dir di peggio, e poi di Berlinguer e della Grossa Cgil, perfino di Prodi. In questo vintage politico, Veltroni si può imbucare nell’operazione nostalgie. Il suo merito oggi è che risulta politicamente morto, e dunque gode della buona fama dei defunti, il rimpianto e l’elogio di chi non c’è più; e questo, quando si perde, diventa una carta formidabile... Ah, quando c’era lui... Walter evoca una stagione vincente, perlomeno, con notti bianche e pomeriggi al cinema. Il povero D’Alema, invece (lo dico da dalemiano di destra) sconta la sua inossidabile presenza, senza defezioni, fughe in Africa o nel romanzo: ti sembra una guardia rossa davanti al Palazzo d’inverno, è diventato tutto bianco e uno pensa che dipenda non dall’età che avanza ma dalla neve che cade sull’inamovibile sentinella, preludio alla glaciazione (non a caso, di neve nera ha scritto in un suo recente messaggio dall’aldilà, sulla Stampa, il fantasma di Walter). Nell’attesa che D’Alema sia sbrinato e Veltroni sia risorto, la sinistra gioca con la squadra minore, gli under 23, inteso come percentuale elettorale: chi vince si proporrà come utilizzatore finale. E l’altro imprecherà contro la fregatura della vita: chi ha denti non ha pane, chi ha pane non ha denti... Ma qui si vedono solo molliche e dentiere.