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Oltre al mercato e alla democrazia, pretendiamo di esportare anche il sesso: ma c’è chi non lo vuole

di Francesco Lamendola - 27/10/2009


Potrebbe sembrare frivolo dedicare una particolare attenzione al recente annullamento di una tournée della cantante pop statunitense Beyoncé Knowles in quel di Kuala Lumpur, esotica e quasi salgariana capitale di uno Stato musulmano smarrito in un’area del mondo dove l’uomo della strada occidentale non si aspetterebbe di trovarlo: sulle coste dell’Oceano Pacifico.
Il fatto è questo: una esibizione della cantante, prevista per il 25 ottobre, è stata annullata in seguito alle decise pressioni del Partito Islamico Pan-Malese; pressioni che già in passato avevano costretto le cantanti Avril Lavigne e Gwen Stefani ad esibirsi in forme insolitamente composte, dato che l'ala tradizionalista di quella società aveva fatto sapere di non gradire affatto «performances sexy occidentali».
Per la cronaca, la cantante Beyoncé si colloca quinta nella speciale classifica delle sue colleghe più ricche al mondo. Al primo posto, infatti - stando alla rivista economica «Forbes»- si colloca Madonna, che soltanto fra il giugno del 2006 e il giugno del 2007 avrebbe incassato 48,70 milioni di euro fra diritti sui dischi, contratti con gli sponsor (vale a dire pubblicità) e concerti; in totale, si calcola che ella abbia venduto non meno di 400 milioni di copie: sì, quattrocento milioni, quasi mezzo miliardo: come dire che uno ogni quindici abitanti del pianeta ha acquistato una delle sue compilation.
Al secondo posto c'è l'intramontabile Barbara Streisand, con 40, 50 milioni di euro; al terzo, Celine Dion, con 30, 41 miliardi di euro; al quarto, Shakira, con 25, 7; al quinto, come si è detto, la ventottenne Beyoncé (nata a Houston, Texas, il 4 settembre 1981), con 18,16; al sesto, Gwen Stefani, con 17,49; al settimo, Christina Aguilera, con 13, 45.
Dicevamo che potrebbe sembrare frivolo soffermarsi su una notizia del genere, mentre le autobombe dei terroristi uccidono oltre 130 persone, a Baghdad, in un solo giorno: o mentre l'Italia trattiene il fiato (si fa per dire) per sapere se il futuro ministro dell'Economia sarà Draghi o se rimarrà ancora Tremonti.
Invece a noi sembra che il fatto, certo in se stesso di modesto spessore, si presti ottimamente per svolgere una riflessione non superficiale su una questione che potrebbe apparire frivola solo a chi abbia la vista corta in fatto di paradigmi culturali a confronto: quella dell’esportazione della sensualità, così come la interpretano i canoni della relativa industria occidentale (qui la musica non c’entra nulla), in tutto il mondo. Proprio come l’Occidente ha già esportato, con le buone o con le cattive, non solo il libero mercato e la democrazia, le bistecche di Mc Donald’s e la Coca-Cola, i film di 007 e quelli di Bruce Lee, il modello di Miss Universo e quello di Madonna (non la Vergine Maria, ma la sopra menzionata cantante Maria Ciccone).
Da alcuni decenni, ormai, noi occidentali ci siamo assuefatti all’idea che un concerto di musica pop, specialmente se il cantante in questione è una donna, si debba per forza trasformare in uno spogliarello che vorrebbe essere il più sensuale possibile, mentre finisce per diventare semplicemente volgare e deprimente.
Ci siamo talmente assuefatti, che ci siamo allegramente dimenticati di due verità che dovrebbero essere, al contrario, piuttosto evidenti  (e lo sono, viste dal di fuori del nostro paradigma culturale, per esempio a Kuala Lumpur).
Primo, che quando si ostenta la sessualità in maniera così sbracata, è segno che di sesso se ne fa poco e male; non a caso l'immagine più diffusa dell'occidentale tipo che circola nel mondo islamico non è, come il nostro incurabile narcisismo potrebbe immaginare, quella del Rambo super virile, ma, al contrario, quella di un individuo sessualmente pietoso: frustrato, impotente o apertamente omosessuale.
Secondo, che tutte queste procaci nudità, esibite senza limite di buon gusto col pretesto della musica leggera, altro non sono che una merce: una merce che l'industria discografica vuole vendere ad ogni costo, inventandosene una al giorno: come avrebbero fatto modeste interpreti, come Madonna o Britney Spears, a vendere tutte quelle copie, se i loro discografici non condissero concerti e videoclip di attrazioni piccanti, a base di ventri scoperti ed ancheggianti e di bollenti e passionali  baci lesbici?
Ma non vogliamo addentrarci in una disquisizione su che cosa sia, o dovrebbe essere, il vero erotismo (che è comunque una cosa per persone intelligenti); se sia preferibile, cioè, l’arte di lasciar immaginare qualcosa, oppure la pratica di scoprire la maggior superficie corporea, con gli ormai abituali annessi e connessi di matrice sadomasochista e con gli ormai inevitabili ammiccamenti alla trasgressione estrema, specialmente in chiave omosessuale.
Quello che qui interessa è rendersi conto che non tutti, nel vasto mondo (ancorché globalizzato a tappe forzate) condividono i nostri gusti in fatto di eccitazione e provocazione sessuale; e che non tutti sono disponibili a introiettare tali modelli culturali, per farsene zelanti imitatori in casa propria, come se non avessero atteso altro che il Verbo della nostra nuova religione pornografica per convertirsi ed entrare anch’essi, a vele spiegate, nel Paradiso della modernità.
I tradizionalisti islamici hanno compreso benissimo una cosa: che, al di là dei personali gusti estetici ed erotici di ciascuno, quello che è in ballo, dietro le performances sexy delle vari cantanti dalle curve prorompenti (ma di origine non controllata) e dai microabiti che lasciano i seni al vento e i perizomi in bella vista - come per la Coca-Cola e i film di Hollywood - è, in realtà, la cooptazione nella modernità. QUESTA modernità: americana, materialista, pragmatica, individualista, edonista, atea e consumista. Accettare l'importazione di tali modelli, equivarrebbe al suicidio culturale e alla inesorabile disgregazione sociale: fenomeno già visto, del resto, in Europa, che è diventata «Occidente» fra il 1945 e gli anni Sessanta, gettandosi dietro le spalle la propria tradizione, il proprio tessuto sociale e culturale: in breve, la propria anima.
Prima del 1945, l'Europa non era ancora Occidente (con buona pace di Spengler), nel senso che oggi attribuiamo alla parola: l'Europa era l'Europa e basta; era se stessa, anche se già mostrava i segni della crisi, a partire dal 1918. Poi sono arrivati i soldati yankees, a liberare gli Europei dal Kaiser (nel 1917) e dal Führer (nel 1943-44): vale a dire, a ben guardare, a liberare gli Europei da se stessi, dalle loro cattive inclinazioni; e, al seguito, sono arrivate le merci e i capitali made in U.S.A. E l'Europa è diventata una provincia dell'Impero americano, è diventata Occidente nel senso che comunemente oggi s'intende.
Ma il mondo arabo e, in genere, il mondo musulmano, non ha alcuna voglia di essere cooptato nella modernità dell'Occidente: e si badi bene che, per oltre un miliardo di islamici, oggi non siamo nel 2009 dopo Cristo, ma nel 1430 dall'Egira. Nemmeno il mondo indiano freme dal desiderio di entrare a vele spiegate nella nostra modernità. Quello cinese e quello giapponese, dal canto loro, hanno fatto buon viso, ma solo in apparenza: per chi sappia vedere oltre la superficie, quelle due culture hanno saputo conservare le proprie radici, almeno fino ad ora, pur accettando una vernice occidentale, per non finire economicamente e politicamente stritolate.
Insomma, gira e rigira, il problema è sempre quello: noi diamo per scontato che il mondo intero non veda l'ora di essere da noi traghettato nel Paradiso del terzo millennio, materialista, consumista e tecnologico; e ci immaginiamo pure che cinque miliardi di persone dovrebbero ringraziarci per questo e serbarci eterna riconoscenza. Siamo incorreggibilmente malati di etnocentrismo, e crediamo di avere la verità in tasca.
Non lasciamoci ingannare dalle apparenze: nonostante tutte le belle chiacchiere sulla tolleranza che ci raccontiamo da tre secoli (riassunte nella celebre frase di Voltaire: «Non sono d'accordo con te; ma darei la mia vita per difendere il tuo diritto alla libertà»), i veri fondamentalisti siamo noi: noi occidentali, noi moderni.
E lo siamo ad un grado così estremo, che nemmeno ci accorgiamo di esserlo. Se qualcuno rifiuta i benefici di Mc Donald's o le grandi tette di Beyoncé; se qualcuno avanza riserve sulla bontà dell'economia di mercato o sulla democrazia parlamentare, noi ci meravigliamo e non possiamo trattenere la domanda, fra stupita e scandalizzata: «Come mai non ci apprezzano? Come mai ci detestano?».
Già: qualcuno dovrebbe pure farsela, quella domanda. Qualcuno, specialmente in America, si dovrebbe chiedere perché, in tante piazze del Sud della Terra, l'11 settembre del 2001 le folle si siano abbandonate a delle improvvisate manifestazioni di esultanza. Forse, dopotutto, non siamo così buoni come ci piace rappresentarci; e, quello che è più grave, forse non siamo poi nemmeno così intelligenti.
Chissà: dopotutto, quello che maggiormente dà fastidio agli abitanti di Kuala Lumpur, ma anche a tanti abitanti di ogni parte del Sud del mondo, è che una ragazzotta texana guadagni milioni e milioni di euro cantando e agitando culo e tette; mentre un pescatore malese o un contadino egiziano, un tessitore di tappeti pachistano o un muratore marocchino, devono sbarcare il lunario, con fatica durissima e fra mille stenti, per pochi euro al mese, in genere con una famiglia numerosissima da mantenere. Possibile che a noi, che ci crediamo così bravi e buoni, non vengano mai in mente considerazioni di questo genere?
Bisognerebbe capire che il rifiuto della sessualità occidentale non discende unicamente da ragioni di moralismo di matrice religiosa, ma dal rifiuto di un più vasto disegno, consistente nella occidentalizzazione del mondo e nella graduale, sistematica distruzione di tutte le altre culture e tradizioni, affinché, sulle vestigia di un mondo omologato a misura del dollaro, i banchieri di Wall Street possano piantare la bandiera del più subdolo e, al tempo stesso, del più ferreo totalitarismo che l'umanità abbia mai conosciuto.
Questa è la posta in gioco: e la si combatte sia nelle grandi borse internazionali, sia nelle sedi delle compagnie multinazionali, sia nelle sale cinematografiche o nelle sale da concerto per cantanti di fama mondiale; sia, infine, sui campi di battaglia di tante guerre dimenticate, di cui l'Iraq e l'Afghanistan sono solo le più recenti (cfr. il nostro precedente articolo: «La posta in gioco nella guerra in Afghanistan è la cooptazione nella modernità», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Il mondo è in guerra: una guerra culturale, non meno che economica e politica; e siamo stati noi a dichiararla: noi occidentali.
Come potremmo disinnescare questa bomba a orologeria, che finirà inevitabilmente per scoppiarci tra le mani?
Non vi è che una strada: quella del rinsavimento, quella del rientro in noi stessi. Dobbiamo rinsavire prima che l'ubriacatura di questo tipo di modernità ci porti completamente fuori strada; dobbiamo rientrare in possesso della nostra anima. Noi Europei, in particolare, dovremmo ritrovare le nostre radici, le nostre tradizioni, riscoprire la nostra ricchezza spirituale, e, perché no, anche un poco della nostra fierezza; e smetterla di scimmiottare gli Americani, nelle loro mode peggiori e nei loro comportamenti più discutibili.
Un grande e intelligente re «barbaro», l'ostrogoto Teoderico il Grande, soleva dire che qualunque Goto vorrebbe assomigliare a un Romano, ma solo un Romano dappoco vorrebbe somigliare a un Goto; perché la cultura è un valore, la civiltà è un valore, la barbarie non lo è. Noi ci stiamo comportando come quei Romani degeneri che desideravano assomigliare ai barbari, meritandosi tutto il disprezzo di questi ultimi.
Quando saremo rinsaviti, quando saremo rientrati in noi stessi, allora potremo stabilire un vero dialogo con il resto del mondo, ossia con le altre culture. Ma, per fare questo, dobbiamo prima riconoscere i nostri autentici interessi e i nostri veri obiettivi, che non coincidono con quelli degli Stati Uniti; dobbiamo smetterla di fare i servi di Wall Street e gli ascari del Pentagono.
Per dirne una: che cosa ci stiamo a fare, noi Europei, sulle montagne dell'Afghanistan?