Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Accettare il proprio destino è come trovare il passo giusto e aggraziato della vita

Accettare il proprio destino è come trovare il passo giusto e aggraziato della vita

di Francesco Lamendola - 29/10/2009

 

Questa mattina presto, l'autunno mi ha riservato una sorpresa principesca.
Le chiome ancora intatte dei tigli, nel vasto cortile, avevano mutato abito, da un giorno all'altro: dalla veste estiva, che indossavano ancora ieri, si sono ammantati di una tinta gialla di una bellezza da mozzare il fiato. Cinque, dieci, venti tigli dalla chioma imponente, dalle fronde oscillanti nel vento lieve, rivestiti di un mantello dorato dalla fastosità incomparabile: uno spettacolo superbo, incredibile, un colpo d'occhio che lasciava incantati. E con quale eleganza, con quale sicurezza si allineavano uno accanto all'altro, superbi come imperatori di un regno incantato; con quale scioltezza, con quale ritmo parevano danzare  al suono della stessa melodia!
Ecco la parola magica: ritmo. La natura segue un ritmo; la natura è in armonia con se stessa, e procede con passo sicuro.
Siamo noi umani che, troppo spesso, avanziamo con passo malfermo, fuori tempo: perché non siamo al centro di noi stessi; perché non siamo in armonia con la natura.
Osservando una folla muoversi per le vie della città, o anche soltanto osservando noi stessi, quando siamo soli, in casa o fuori, la prima osservazione che dovrebbe affiorarci alla labbra è: «Non questo passo, per favore!».
Siamo e ci muoviamo fuori tempo.
Non sappiamo respirare nel modo giusto; non sappiamo stare dritti nel modo giusto; non sappiamo stare seduti e non sappiamo stare in piedi; non sappiamo camminare e non sappiamo sostare; non sappiamo vedere e non sappiamo ascoltare; il tatto, poi, è come se ci fosse stato dato per sbaglio. Crediamo che serva solo per accarezzare il corpo della persona amata, quando ne abbiamo voglia: sarebbe come dire che la vista ci serve solo per vedere le cose che c’interessano, e l’udito per sentire le cose che rientrano nella nostra sfera utilitaria.
Siamo fuori tempo, perché non possediamo il ritmo della vita; e non ci riferiamo a quello della vita in generale, ma della NOSTRA vita, del NOSTRO presente, qui e ora.
Siamo fuori tempo, perché siamo fuori centro: non viviamo veramente al centro di noi stessi, nemmeno quando il nostro narcisismo vorrebbe farcelo credere. Invece viviamo fuori centro, cronicamente sbilanciati; siamo proiettati verso l'attaccamento illusorio alle cose, al groviglio disperato delle nostre brame e delle nostre paure.
È ovvio che, quando si vive così, non si possieda il passo giusto per danzare con il ritmo della vita: solo il non attaccamento rende possibile acquistare un tale passo, mettersi in sintonia con quel ritmo.
Stiamo troppo fermi a rimuginare rancori e rimpianti, impossibili vendette e rivincite che non arriveranno mai; ad accarezzare sogni ad occhi aperti che non ci conducono da nessuna parte, a lusingarci con illusorie speranze e a tormentarci con ingannevoli timori.
Flaubert scrisse una volta che solo stando seduti alla scrivania si possono concepire delle buone opere letterarie; ma Nietzsche, con occhio di falco, colse quella frase e la stigmatizzò con violenza: «Ti ho beccato, nichilista! Le sole idee veramente buone nascono sempre mentre si sta camminando».
E l'americano Sam Keen, un autentico ricercatore spirituale, purtroppo poco noto al pubblico europeo, osservò che se Kant non si fosse limitato a quell'unica passeggiata quotidiana, per giunta sempre la stessa ogni volta, forse avrebbe visto il mondo sotto una luce diversa.
Abbiamo bisogno di movimento, non di spostarci: viaggiare in aereo o in automobile non è muoversi: è farsi recapitare da un luogo all'altro, come un pacco. Abbiamo bisogno di muovere le gambe, di osservare la natura, di respirare a pieni polmoni l'aria aperta. Tutte cose problematiche in un'area urbana fittamente popolata, ma non del tutto impossibili: ad esempio, in molti casi basta regolare i propri orari in modo da evitare il flusso maggiore di traffico, a costo di levarsi prima dell'alba ed uscire quando ancora tutti dormono.
Citiamo un passo  luminoso del bel libro di Sam Keen «Inno a un Dio ignoto» (titolo originale: «Hymns to a Unknown God», Bantan Books, 1994; traduzione italiana di Tullio Dobner e Alessandro Magherini, Milano, Sperling & Kupfer, 1995, pp. 161-62; 163-64):

«L’accettazione del proprio destino è come trovare il passo giusto, facile e aggraziato della propria vita. Ogni corridore e camminatore conosce l’esperienza di trovare il ritmo che non costa fatica. In quei momenti io sprofondo nel presente della mia vita come una pietra nell’acqua. Arrendendomi all’inevitabile, vado sempre più giù, alla deriva, fino a quando trovo un facile riposo sul fondo. Ricordo l’antico inno stoico: “Guidami, o Zeus, e anche tu, Fato. Io seguirò senza esitazione  ma anche se, disubbidendo, io non volessi, , è certo che seguirò ugualmente”.
Io mi abbandono a qualcosa di più vasto della forza di volontà che si muove al centro della mia vita. Come diceva mia zia Claire: “Mi sono decisa a dare le dimissioni da legislatore dell’universo e ho visto con sorpresa che sono state accettate immediatamente”.
Il corpo umano doveva soddisfare le necessità di individui cacciatori-raccoglitori. Non siamo animali sedentari. Se smettono di muoversi, corpo, mente e spirito diventano perversi. Le emozioni, specialmente la compassione, implicano la capacità dio essere mossi. La corazza caratteriale che irrigidisce il corpo, inibisce la nostra capacità di rispondere ed essere mossi. La grazia è nemica della stasi e viceversa. I nostri corpi devono essere agili e pronti a lasciarsi andare al primo motore, all’energia, al “prana”, allo spirito.
Io penso che in gran parte la crisi della mente e dello spirito moderni dipenda dalle abitudini sedentarie degli intellettuali d’oggi. A scuola si impara a vivere seduti. Professori, manager, professionisti che svolgono lavori intellettuali sono perlopiù gente che vive in città, ha un lavoro ben definito che si svolge al chiuso, alla luce artificiale, dietro una scrivania o un tavolo da riunioni, in compagnia di macchine. Forse il mondo visto da questa prospettiva risulta gravemente distorto, e questo ci porta sempre più in un labirinto di autoassorbimento e illusione. Siamo sempre più assuefatti a quei tipi di attività e pensieri astratti e senza radici che sono alla base del nostro disagio.
In quali posizioni e luoghi, con quali stati d’animo e in presenza di quali comunità possiamo trovare il modo più accurato, comprensivo e ricco di speranza di considerare la condizione umana?
Il semplice atto di andare all’aperto è necessario alla mente sedentaria e sempre più ritirata per uscire dalla dimensione illusoria. La disposizione alla meraviglia distrugge narcisismo e superbia. Una roccia, una nube, un albero possono aiutarci a ricordare chi siamo: in seconda istanza membri della società, ma prima di tutto cittadini del cosmo. Lo spirito umano deve sempre trovare la sua dimora definitiva nell’ordine naturale del manifestarsi spontaneo delle cose. Chi risiede in un appartamento in città non ha meno radici nella terra di quanto ne abbia un agricoltore.  L’humus fa parte della definizione della nostra specie. Forse la miglior liturgia per aiutarci a ricordare la nostra identità spirituale è concedersi il tempo di una passeggiata nella natura. […]
Per ritrovare la dimensione spirituale della vita dei sensi, dobbiamo coltivare la disciplina della gioia.
Per trasformare la sensualità in un sacramento, innanzitutto dobbiamo rallentare. La velocità è nemica dello spirito. Prendete il vostro tempo. Apprezzate e celebrate il dono del colore e della forma, del gusto e della consistenza. Ci vuole tempo per assaporare l’attimo.
Scolpite nel vostro cuore la massima che un tempo stava scritta a ogni passaggio a livello: “Fermati, guarda e ascolta”. Abituatevi a una disposizione meditativa all’ascolto, alla meditazione e al tocco.
Ricordatevi di voi stessi.  Le epifanie sono comuni come i nontiscordardimè. L’eternità è avviluppata nel cuore del qui e ora. Il sacro può manifestarsi nella fiammeggiante bellezza delle foglie d’acero che si staccano dai rami, nell’estatico incontro delle carni, nel volto tormentato di una donna somala che tiene fra le braccia il suo bimbo affamato, nella solennità dei modelli di unione di quark e quasar. Siate vigili.»

Naturalmente, non si tratta solo di una pratica igienica e salutare, ma di qualcosa di molto più profondo: trovare il ritmo giusto, significa innanzitutto mettere in sintonia il proprio corpo con la propria anima, e quest'ultima con la sua sorgente perenne: l'Essere.
In questo senso, noi dobbiamo accettare il destino che ci è riservato, non nel senso rassegnato e fatalistico dell'espressione, ma, al contrario, in quello dinamico e propositivo di ascoltare la voce della chiamata interiore, e di orientare il nostro progetto esistenziale in maniera coerente rispetto ad essa.
Il ritmo di marcia giusto e i movimenti aggraziati saranno, così, un riflesso della ristabilita armonia fra noi e noi stessi, fra noi e la realtà esterna e fra noi e l'Essere, sorgente ultima e luminosa del nostro esistere nel mondo.
I tigli del cortile sono così aggraziati, così elastici, sia nella veste estiva che in quella autunnale, perché affondano le loro radici nel terreno, ricevono l'acqua e il sole, respirano l'aria libera, e si lasciano scuotere e carezzare dal vento.
Per ritrovare anche noi il passo giusto, dobbiamo affondare le nostre radici nel terreno, come fanno gli alberi; il che equivale ad accettare il nostro destino, ascoltando la voce della chiamata e mostrandoci fedeli alla missione che siamo stati invitati a svolgere.
E non è questione di età, di ceto sociale, di cultura; e nemmeno di salute. Tutti possono trovare il passo giusto, purché lo vogliano realmente.
Sì: nemmeno di salute.
Mi viene in mente una cara amica, affetta da una malattia silenziosa, ma progressiva e, forse, inesorabile: quelle chiome gialle dei tigli, così eleganti nella loro imminente fragilità, hanno causato l'inevitabile associazione d idee.
Dunque: anche per chi è gravemente malato, anche per chi non ha molto futuro davanti a sé - stando, almeno, ai calcoli umani; ma chi siamo noi per fare calcoli? - è possibile trovare o ritrovare il passo giusto, il passo aggraziato di chi procede  in perfetta intesa con la vita.
E questo avviene perché non è questione di tempo a disposizione; non è questione di guardare indietro, e neppure avanti: è questione di avere il proprio centro in se stessi, qui e ora: ma non chiudendosi al mondo esterno, bensì facendo coincidere il proprio centro spirituale con il centro del mondo.
Noi siamo in asse con noi stessi, quando il nostro asse coincide con l'asse cosmico, con l'«axis mundi». Se vi riusciamo, non c'è più forza al mondo che ci possa mandare fuori asse, fuori centro: siamo radicati per sempre nella vita, nel senso più profondo dell'espressione.
Camminare, dunque, e ancora camminare; aprire bene gli occhi, scoprire cose nuove, non necessariamente lontano da casa; ma, soprattutto, camminare con l'anima, scoprire cose nuove dalle grandi vetrate del nostro palazzo interiore.
Questo, beninteso, se abbiamo deciso di abitare nel palazzo, e non di autoesiliarci nel fondo della cantina, dove il sole non arriva mai.
A noi la scelta.
Ce n'è, di sole, che ci attende fuori; ce ne sono di luce, di aria, di vento, di pioggia, di vita, in attesa che noi ci decidiamo di fare ritorno alla casa dell'Essere.
Perché mai dovremmo preferire l'aria chiusa e viziata all'aria limpida e frizzante; perché dovremmo preferire il buio alla luce?
Perché non dovremmo volerci abbastanza bene da scegliere il nostro meglio, così come faremmo se dovessimo scegliere per un caro amico, per un figlio, per un grande amore?