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I padroni di Washington

di Michele Paris - 29/10/2009

Con un tasso ufficiale di disoccupazione salito al 9,8% nel mese di settembre, i salari in discesa e l’accesso al credito ancora complicato, negli Stati Uniti il livello della spesa privata ha fatto segnare nel secondo trimestre del 2009 una riduzione vicina al 2% su base annua. Una contrazione ragguardevole alla luce delle abitudini degli americani e di un dato che nell’ultimo ventennio aveva fatto segnare aumenti annuali mediamente superiori al 3%.

Se i cittadini comuni e le piccole aziende hanno dovuto necessariamente stringere i cordoni della borsa per far fronte agli effetti della crisi finanziaria, altrettanto non si può dire per le grandi compagnie e le loro associazioni, le quali nell’anno in corso hanno fatto registrare, al contrario, un considerevole incremento dei loro investimenti nelle attività di lobbying per influenzare a Washington un’agenda legislativa densa di questioni importanti per il loro futuro.

Il primato degli esborsi, come di consueto, va alla Camera di Commercio degli Stati Uniti (USCC), capace di spendere ben 35 milioni di dollari tra luglio e settembre. Una cifra enorme che va ad aggiungersi ai 17,5 milioni già stanziati nel corso dei primi sei mesi dell’anno. L’accelerazione nel ritmo della spesa nell’ultimo periodo di un organismo che rappresenta più di tre milioni di imprese in America corrisponde, in sostanza, all’attività del Congresso, dove a partire dall’estate hanno preso la strada dell’approvazione definitiva numerosi provvedimenti di legge in discussione da mesi. Gli investimenti del 2009 della USCC in questo ambito, d’altra parte, risultano tanto più ingenti quanto sono stati parzialmente inefficaci quelli dello scorso anno, effettuati direttamente a favore delle campagne elettorali di candidati repubblicani.

I lobbisti al soldo della Camera di Commercio americana si sono concentrati in particolare sulla battaglia per la riforma sanitaria. Obiettivo principale, naturalmente, è quello di evitare che nel progetto di legge tuttora allo studio finisca per essere incluso un piano pubblico alternativo a quelli privati, molto temuto perché produrrebbe una maggiore concorrenza sul mercato delle assicurazioni sanitarie. Per le aziende rappresentate dalla USCC, però, le leggi dalle quali potrebbero ottenere condizioni di favore sono anche quelle che riguardano la riduzione delle emissioni in atmosfera e la riforma del sistema finanziario.

Tutti temi ugualmente cari anche all’associazione delle industrie manifatturiere (NAM), che raccoglie 14 mila aziende di vari settori in ciascuno dei 50 stati americani ed è guidata dall’ex governatore repubblicano del Michigan, John Engler. La NAM è passata così da circa un milione di dollari spesi nel secondo trimestre del 2009 per rappresentare i propri interessi nella capitale ad addirittura 5,8 milioni negli ultimi tre mesi. Particolarmente sentiti per gli industriali d’oltreoceano sono le questioni legate al carico fiscale e alla sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti, facilitata dalla possibile approvazione di un disegno di legge (EFCA) da tempo fermo al Senato dopo l’OK della Camera dei Rappresentanti.

Il calendario legislativo influenza dunque in maniera inevitabile le strategie delle associazioni e delle singole aziende toccate dai cambiamenti che si prospettano per loro nel prossimo futuro. Per oliare i meccanismi decisionali nei momenti critici, ecco giungere allora sulle migliaia di lobbisti registrati a Washington una pioggia di dollari per ottenere in cambio provvedimenti modellati in base agli interessi dei poteri forti. Significativo in questo senso è lo sforzo sostenuto dall’associazione degli immobiliaristi americani (NAR), la quale, sempre nel terzo trimestre dell’anno, ha sborsato 4,2 milioni di dollari per convincere il Congresso ad estendere il credito d’imposta previsto per gli acquirenti di immobili.

Legge sul cambiamento climatico e riforma sanitaria, oltre ad essere due terreni di scontro politico trasversale, hanno anche contribuito notevolmente ad arricchire le casse della cosiddetta “K Street”, cioè delle compagnie di lobby, molte delle quali hanno sede proprio sull’omonima strada della capitale. Il primo provvedimento, approdato in questi giorni ad una commissione del Senato in vista del summit di dicembre sul clima a Copenhagen, ha determinato una spesa in attività di lobbying da parte dell’Edison Electric Institute (EEI) – organismo che cura gli interessi dei fornitori di energia elettrica – di circa 8 milioni di dollari nel corso del 2009, una cifra superiore già di un terzo rispetto a quanto investito durante tutto il 2008. Superiore quasi di tre volte rispetto all’anno scorso è stata la somma stanziata (2,7 milioni di dollari) per intervenire nello stesso ambito dall’American Petroleum Institute (API), l’associazione dell’industria petrolifera americana.

Per plasmare una riforma del sistema sanitario in base ai propri interessi, invece, la potentissima Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRMA) ha speso nel 2009, finora, 6,8 milioni di dollari, a fronte dei 5,4 milioni del 2008. Questa associazione, il cui attuale presidente è l’ex deputato repubblicano della Louisiana Billy Tauzin, rappresenta molte compagnie operanti nel settore parafarmaceutico e delle biotecnologie e qualche mese fa aveva stipulato con la Casa Bianca un accordo per garantire un risparmio di 80 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni alle casse pubbliche nell’ambito della nascente riforma sanitaria. Un accordo criticato dai parlamentari democratici che hanno accusato PhRMA di essersi così messa al sicuro da ulteriori tagli ai rimborsi dei medicinali da parte del governo federale eventualmente previsti dal provvedimento finale che sarà licenziato dal Congresso.

Nonostante il terzo trimestre dell’anno comprenda il mese di agosto, per gran parte del quale il Congresso sospende le proprie attività, l’incremento medio delle spese a favore dei lobbisti di Washington si è verificato proprio in questo periodo dell’anno. Un segnale questo dell’ansia diffusa nell’élite industriale e finanziaria americana nel momento in cui si è iniziato a decidere del destino di svariati progetti voluti dalla nuova amministrazione. Analizzando i dati tuttavia si trovano anche singole grandi aziende che hanno sensibilmente ridotto gli investimenti destinati alla difesa dei propri interessi nell’arena politica. Anche in questo caso, però, l’andamento della spesa sembra rispecchiare la cadenza delle decisioni prese nella capitale, piuttosto che il riflesso di difficoltà prodotte dalla crisi economica.

È il caso, ad esempio, della General Motors, protagonista di una spesa pari a 2,7 milioni di dollari nel terzo trimestre del 2008 quando infiammava ancora il dibattito intorno al suo fallimento e al conseguente salvataggio da parte del governo federale. Una volta avviata la procedura di bancarotta controllata e assicurato l’intervento governativo, poche settimane dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama, la compagnia di Detroit ha praticamente chiuso i rubinetti di spesa alla voce lobbying. Tanto che nei tre mesi che vanno da luglio a settembre 2009 la General Motors per questa voce di bilancio ha speso “appena” 180 mila dollari.