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Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell' Afghanistan

di Duccio Canestrini - 02/11/2009

 
 

 



Ritorno nella mitica arcadia d'oriente

Sulle montagne tra il Pakistan e l'Afghanistan, vive un popolo le cui origini hanno radici nella mitologia greca. Gli Dei e l'amore scandiscono le vicende di questa etnia, isola pagana nel mondo islamico, che attrasse negli anni sessanta i giovani giramondo: vent'anni dopo il nostro fotografo l'ha rivisitata.


C’è una misteriosa isola etnica, nel cuore del continente asiatico, che per noi europei costituisce da sempre una specie di mito. L’antico Kafiristan rappresenta infatti l’ebbrezza, l’amore, la poesia e tutti i sentimenti pagani che abbiamo ereditato dalla civiltà del dio Pan. Questa mitica terra alle pendici della imponente catena montuosa dell’Hindukush, popolata dalle genti kalash, doveva esistere, necessariamente. Non fosse altro che per il nostro etnocentrismo, teso a proiettare schemi e valori che ci appartengono anche sulle culture più lontane. E a interpretarne i tratti distintivi, alla luce della nostra storia.

Vuole il mito che il dio greco Dioniso, durante il suo viaggio nelle Indie accompagnato da un corteo di festose baccanti e di silenti (spiriti dei boschi e della natura selvaggia immaginati in forma umana e con orecchie, coda e zampe equine) abbia posto le basi di un insediamento.

 

Si dice che Alessandro Magno, nel corso della sua grandiosa spedizione in Oriente (IV secolo avanti Cristo), fosse passato da questo avamposto ellenico, e che ebbe a pentirsene. Perché il fascino di quell’isola di grecità, con gli effluvi di mosto che ne emanavano, catturò non pochi suoi soldati, che disertarono. E qui il mito mette radici in terra,  Si comincia così a favoleggiare di una terra d’Oriente abitata da gente bionda, di carnagione chiara, con occhi cerulei, che passa il tempo a bere e a cantare, e che sacrifica giovani maschi di capra a un ventaglio di dèi . Con questo mito in mente, partono i primi antropologi armati di strumenti craniometrici, per misurare le caratteristiche fisiche di questi nostri cugini levantini.

 Partono scrittori per ambientare, tra quelle mitiche valli, racconti come “L’uomo che voleva essere re” di Rudyard Kipling. Partono cercatori di verità come Georges I. Gurdijeff, alla ricerca di personaggi illuminati (da leggere i suoi “Incontri con uomini straordinari”, pubblicato da Adelphi nel 1987). Partono, verso la fine degli anni Sessanta, anche gli hippy. Sono giovani un po’ stufi di seguire le tracce indiane già battute dalla “generazione bruciata” americana, e che desiderano invece vivere una utopia libertaria, che li conduca a scoprire le loro radici profonde.

L’orientalista Fosco Maraini, anch’egli vittima di una cotta per i kalash, che visitò nel 1959, al ritorno da una spedizione del Club alpino italiano sul Sarahgrar dell’Hindukush (7.349 metri), oggi commenta: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Una fanciulla, appoggiata a un muretto di sassi, stava suonando un flauto. Non si scompose per nulla al nostro passaggio, e continuò a riempire l’aria di una musichina lieve, commento perfetto a quanto vedevamo intorno a noi. Pareva impossibile non ci scappasse la parola arcadico’. Tanto infatti risultò adatta al luogo e alla gente, che la usammo, a proposito e a sproposito, per due o tre giorni:  ‘Hai visto l’arcadico vecchio?’. ‘Ecco le arcadiche fanciulle!’. ‘Dov’è l’arcadica capanna?’. ‘Buttami l’arcadica pentola”’.

Qual è la vera storia dei kalash? I linguisti hanno individuato nel loro idioma, il kalashwar, preponderanti influenze sanscrite. I paletnologi li definiscono indo-ariani. Gli storici delle religioni vedono nel loro pantheon indiscutibili affinità con gli dèi vedici. Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese.

tratto da

AIRONE n° 98 giugno 1989

Un popolo irriducibile


Purtroppo, la storia dei kalash coincide con l’inizio dei loro guai. A battezzarli kafiri (in arabo, “infedeli”) furono proprio i seguaci di Maometto che, nella loro gigantesca campagna di islamizzazione partita nel VII secolo dopo Cristo, giunsero ad accerchiare anche la patria dei kalash, chiamata Tsyam. Quegli “infedeli” si dimostrarono, però, degli irriducibili. Uguale insuccesso toccò, verso l’anno Mille, al fondatore del ramo turco dei Ghaznavidi, Mahmud, il sultano conquistatore dell’India. E neppure i diecimila cavalieri dell’esercito di Tamerlano, il celebre discendente di Gengis Khan, ebbero ragione, quattro secoli dopo, delle roccheforti dei ribelli. I quali, tuttavia, di fronte all’incalzare di nuovi invasori, si videro costretti ad abbandonare il Tsyam (che oggi sarebbe nell’Afghanistan) per ripiegare sempre più a settentrione, verso le aspre vallate montane del Pakistan nord-occidentale, dove a tutt’oggi risiedono. Il colpo di grazia ai kafiri afghani lo inferse, nel 1896, l’emiro Kabul Abdur Rahman che, con l’avallo del governo di Sua Maestà britannica perpetrò una vera strage. Ai pochi sopravvissuti lasciò la scelta: convertirsi all’Islam oppure morire. Persino il nome del Kafiristan venne cancellato dalle carte geografiche. Rahman lo cambiò in Nuristan, cioè “il paese della luce”. Naturalmente, la luce (nur, in arabo) della verità coranica. L’assedio musulmano delle ultime valli kafire in Pakistan (Bumburet Rumbur e Birir) non è mai cessato. L’Islam preme ancora. Ma nonostante le difficoltà nel mantenere la propria identità etnica nel più completo isolamento, i kalash resistono. Su molteplici fronti. In un contesto culturale dove l’ebbrezza viene ricercata nei prodotti della canapa indiana, tra i kalash continua il consumo rituale del vino; anche perché, secondo un loro mito, la prima vigna nacque dalla bocca spalancata di un potente sciamano.

Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “profondo” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali. Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una Dea Giunone che non disdegna offerte di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno. Delle tre feste tradizionali dell’anno kalash (Joshi in primavera, Prun in autunno e Chaumos in inverno), l’ultima è forse la più importante, perché al rigore della stagione fredda si affidano i più ferventi aneliti e le preghiere più sentite, nella speranza che la morte bianca celi la consueta promessa di rigenerazione. Il Chaumos dura circa due settimane, ed è concepito come una serie di atti di purificazione e di rituali propiziatori alla visita del grande dio della generazione Balumain, che avviene all’alba della notte più lunga dell’anno.


Una guerra di parole

Il calendario cerimoniale del Chaumos è ben definito. Il primo giorno si accendono ovunque fuochi con legna di ginepro, si bruciano le vecchie ceste usate e si formano cortei di giovanotti che “trottano” e nitriscono, per attirare il dio, che si presenta sempre a cavallo. Fin dal principio, esplode l’oscenità, con tutta la sua carica vitale e, dicono i kalash, persino medicinale: “Più sconce sono le nostre parole e più accorate le nostre preghiere, più guadagneremo in salute e in fortuna”. Il secondo giorno le donne si lavano i capelli e rinnovano le kupas, le splendide cuffie adorne di conchiglie e di perline colorate. Nella stalla si cuoce il pane. Il terzo è il giorno riservato agli insulti, veramente terribili, tra le ragazze dei diversi villaggi. È una guerra di parole che dura fino a notte, alla quale assistono i giovani maschi, pronti ad apprezzare la fantasia di questa o di quella. Poi viene il giorno della cottura dei fagioli, quello della confezione di piccole capre con la mollica di pane e della ridipintura dei fregi che adornano la jestak-han. Segue il giorno del ritorno dei morti (cui si deve offrire del cibo) che chiude la prima fase della festa. Cominciano allora sette giorni di astinenza, di abluzioni e di purificazioni per tutti, uomini, donne e bambini, durante i quali qualsiasi estraneo deve lasciare le valli kalash. Infine, arriva il giorno del grande sacrificio: decine di caproni vengono macellati ritualmente davanti al mahandeo, l’altare del “grande dio”, dalle cui pietre svettano quattro teste di cavallo, scolpite nel legno. E a questo punto che tra i giovani si possono osservare i “tremori”, interpretati come segnali di una possessione che rivela attitudini sciamaniche. L’addio a Balumain verrà celebrato da un corteo di donne ciascuna con una penna di pavone sulla kupas. In conformità all’antico pensiero védico, il pavone è l’animale dell’immortalità: oltre a essere molto prolifico, l’uccello rinnova ogni anno lo splendore dei suoi “occhi” cangianti sulla ruota cosmica della magnifica coda.

 

Figli di Dioniso

Re pastori, seguaci della cultura "caprina". Sono i kafiri: mille eredi biondi di Alessandro Magno. Nel Pakistan
di Italo Bertolasi
Nemici di Allah, infedeli. Una tra le più piccole e combattive popolazioni della terra è chiamata kafir. Un insulto e una minaccia rivolta a chi è colpevole di blasfemìa contro l'Islam. Ma i mille kafiri, che sopravvivono in un eden alpestre tra i labirinti rocciosi dell'Hindukush, mai domati e mai islamizzati, si autoproclamano kalash. Uomini liberi. Dell'antico e leggendario regno del Cafiristan rimangono tre valli nell'alto Chitral pakistano: Rumbur, Bumburet, Birir. Piene di pini, querce, noci. Gonfie di acque. La loro esistenza è un rebus antropologico, un miracolo di sopravvivenza in un ambiente estremo, e unico esempio di vittoriosa resistenza etnica contro i disegni della teocrazia militar-religiosa che regge il Pakistan. Il Pakistan conta un 97 per cento di musulmani (musulman vuol dire credente) e solamente un 3 per cento di kafiri. Tra questi ci sono i parsi, ultimi superstiti della potente comunità zoroastriana; e i cattolici, sempre più perseguitati: il vescovo di Faisalabad, John Joseph, si è suicidato il maggio scorso per denunciare le condanne a morte pronunciate contro i cattolici accusati di blasfemia. I kafiri kalash si proclamano anche "ultimi greci dell'India": sostengono di discendere dagli eroi
dell'invincibile armata di Alessandro il Grande che nel 326 a. C. attraversò il Cafiristan per conquistare l'India. Nei bashikek - i loro canti epici - ricordano come sperma greco e magie di fate (le suchi) hanno originato montanari biondi dagli occhi azzurri. Che coltivano la vite, bevono vino, celebrano riti orgiastici e dionisiaci dove le belle kafire danzano come vere baccanti. Gli antropologi che li hanno studiati dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-ariani attraverso le valli dell'Oxus (l'Amu Darja). L'antica patria cafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose dell'odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio. La prima volta li ho visitati trent'anni fa. Allora non c'erano turisti. C'erano soltanto sentieri avventurosi attraverso gole e torrenti che mi hanno riportato in "un'isola antichissima di genti, cose, idee, costumi sopravvissuti alle frane del tempo". In una terra di pace che aveva ammaliato nel 1959 Fosco Maraini, scrittore e antropologo, autore del libro Gli ultimi pagani (ed. RED). Kipling vi ambientò il romanzo L'uomo che voleva essere re e il "visionario" russo Gurdjieff ricorda nei suoi diari di viaggio l'incontro con i "cercatori di verità" dell'Hindukush. Mentre gli hippy degli anni '70 vedevano nel microcosmo cafiro il modello di una comunità ideale. Oggi anche il Cafiristan è una terra violata da strade militari con una sorta di "dogane" che ti costringono a pagare un biglietto d'ingresso per entrare a vederli, come in un museo o in uno zoo. Le belle foreste di pini e ginepri, da terreno di caccia e di legnatico, sono state confiscate dal governo e i fondovalle svenduti ai coloni pakistani che hanno invaso le terre. I nuovi arrivati sono usati come muro umano per arginare l'ondata di afghani in fuga attraverso le valli cafire. I profughi afghani in Pakistan sono oggi quasi un milione. Mi sono affezionato ai kafiri e sono ritornato tra loro più volte: ad accogliermi c'era sempre il capo villaggio Bumbur Khan e il kasi - il cantastorie e guardiano delle tradizioni - Khoshinawas. Una vera enciclopedia vivente che ricorda centinaia di bidra kalein, i miti della tribù cantati durante le feste. Bumbur Khan ha due mogli, una dozzina di figli e ha trasformato il granaio domestico in un lodge dove accoglie turisti e studiosi. Trent'anni fa, quando passeggiavamo per la valle di Bumburet - la sua valle - mi mostrava lo scempio perpetrato dalle spedizioni "scientifiche" e da atti di terrorismo islamico. Gli antropologi avevano profanato le basciali, i templi riservati alle donne che conservano la vulva in legno di Dezalik, la dea del Parto. Entrando, fotografando e misurando tutto avevano costretto i kafiri a demolire questi spazi magici e a riconsacrarne dei nuovi. Gli studiosi avevano rubato i gandau, le statue lignee che raffigurano gli antenati usate per proteggere i villaggi, i campi e i cimiteri. Di notte giravano bande di fanatici musulmani che li decapitavano: per loro erano "idoli demoniaci". Oggi la strage di questi totem è compiuta: del centinaio di gandau di allora non ne rimane che una solitaria coppia. Ma ci sono ben più tragiche calamità. La piccola comunità cafira è divisa da tremendi conflitti. C'è chi ha "tradito" la propria gente islamizzandosi o facendosi cristiano. Negli ultimi anni girano in valle strani missionari americani che assomigliano a mujiadin. La valle è ferita da recinti e fili spinati che difendono le proprietà private dei coloni padroni. Così si bloccano sentieri vitali che conducono ai pascoli d'alta montagna. E non c'è più libertà di muoversi nella propria terra. Poi c'è il progetto violento d'acculturazione: maestri e mullah fanatici - preti islamici - costringono i bimbi kafiri a esprimersi solo in urdu - la lingua del Pakistan - e a studiare il Corano. L'educazione cafira, invece, è un galateo di libertà. I bimbi frequentano l'unica scuola utile: il villaggio. Oggi i kafiri vivono sempre più stretti nei loro nidi d'aquila
abbarbicati a mezza montagna, collegati da sentierini che costeggiano acquedotti pensili. I villaggi sono rimasti come centinaia d'anni fa. Raccolti intorno ai templi - le Jesta Khan - dove si venera Jesta, l'energia materna che conserva il mondo. Il tempio cafiro è un mandala - un cosmogramma - e una "macchina del tempo". Nelle giornate di sole dal tetto bucato scende un filo di luce diaframmata da travi sovrapposte a spirale. È un complicato orologio solare: nel giorno del solstizio d'inverno il raggio di luce bacia la statua di Jesta e fa esplodere la gran festa del Chaumos. La geomanzia cafira attribuisce ai luoghi più alti un'aura di potere e sacralità. Le valli sono così disegnate da curve di livello energetiche e spirituali. Le terre basse, vicino al fiume, occupate dai musulmani, sono sempre di più impure e pericolose. Qui da sempre i kafiri hanno i loro cimiteri con le casse di legno fuori terra, sigillate da enormi pietroni, e le basciali, le case del parto. A mezza montagna è edificato il villaggio a gradoni, e in cima le stalle delle capre che ogni tanto accolgono le suchi, le fate che incarnano la forza fecondante di madre Natura. Più su, enormi macigni irradiano invece la forza maschia e solare di Mahandeo e di Balumain. Le fate cafire risiedono nelle terre purissime delle vette. Proteggono i markor (gli stambecchi), i dehar (gli sciamani), i re pastori e tutta la natura nuda e selvaggia dell'alta montagna.
 Le vette sacre sono un luogo tabù. Sarebbe una vera profanazione ascendere la piramide del monte Palar, dove risiedono dèi e antenati in palazzi d'oro che si vedono ogni tanto luccicare al sole. Morte e follia castigano chi offende madre Natura inquinando acque sorgive, tagliando alberi fratelli o assassinando animali guida. Il mondo cafiro è così diviso tra sacro e profano, puro e impuro. Tutto quello che è alto e selvaggio - monti, animali selvatici ma anche capre e stalle - è puro; mentre tutto quello che è in basso, non è libero ed è stato addomesticato - fondovalle ma anche vacche e polli - è impuro. I kafiri appartengono a una cultura caprina, che predica il nomadismo, la sacralità della wilderness e del caprone totem, in netto contrasto con i popoli contadini e sedentari dell'India che appartengono invece alla "cultura della vacca sacra". La capra è un tesoro. Il potere di un uomo si misura dal numero delle sue capre e i re - i capo villaggio - sono onorati col titolo di "uomini dalle molte corna". Il simbolismo della capra compare dappertutto: nelle danze e nelle lotte a suon di cornate dei caproni, nei ricami delle tuniche che raffigurano capre stilizzate e nel make-up delle donne che si tingono impressionanti sopracciglia cornute. In questo universo agreste i pastori eremiti che trascorrono tutta l'estate negli alpeggi sono considerati dei budalac, eroi. Bumbur mi invita a salire in montagna per incontrarli. Mi spiega che la scuola di vita che ti fa diventare un vero uomo è lassù in alta montagna, tra capre e pastori. Gli alpeggi cafiri sono in mezzo a un mosaico di terre di nessuno che dividono Pakistan e Afghanistan, dove puoi incontrare, come cent'anni fa, banditi armati fino ai denti. Ma sotto protezione cafira mi sento al sicuro e salgo scortato dal figlio di Bumbur Khan. Vorremmo incontrare un famoso pastore-sciamano sepolto da anni in un eremo di montagna. Lo raggiungiamo dopo una faticosa arrampicata: la sua reggia è in cima a una rupe con vista panoramica su tutti i quattro lati. È ricoperto di stracci ma il suo sguardo rivela una forza magnetica. È circondato da cani lanosi che sembrano levrieri afghani e da altri pastori. Ci offre del tè e un po' di ciapati (un pane sottile cotto alla piastra) condito con una gustosa ricotta. Mi vuol mostrare le famose dizilawat - le rocce della creazione - dove si offrono acqua, latte, vino, sangue di capra e incenso di saras (ginepro) a Sajigor, il dio delle vette. Quest'eremita ci svela di essere anche un erborista e un dehar, uno sciamano. Passo giorni di sogno: sopra le testa volano i bombardieri afghani mentre il nostro re ci vuole convincere a rimanere in montagna promettendoci che con una full immersion di qualche mese si può diventare sciamani. Scendo a valle ripensando a quell'offerta: nessun uomo bianco ha mai seguito la via dei dehar. Ma il mondo è cambiato anche in queste valli e i giovani kafiri non ne vogliono più sapere di isolarsi in montagna per diventare sciamani. Il figlio di Bumbur, esempio perfetto di nuovo kafiro, sogna Peshawar e le grandi città. Ha sempre con sé una radio che rompe il silenzio della montagna. Quando si visita il Cafiristan si rimane sedotti dalla bellezza delle donne kafire. Ti sorridono senza chador e senza veli. Per farsi più belle indossano maestose kupas, copricapi-criniera fatti di lane, argenti e conchiglie. E si tingono gli occhi con kajal nero e sugo rosso di sambuco. Nella festa della primavera - lo joshi - le ho viste danzare lo zabum. Accese dal rombo dei tamburi girano su se stesse come trottole fino allo sfinimento. Il corpo è scosso da un tremito sacro che i kafiri chiamano umbulu. Lo sguardo è in cielo. È una danza nuda ed estatica ispirata al movimento di rotazione dei pianeti per "ricreare" ordine e armonia. È "fuoco che brucia e sole che sorge di nuovo", spiega Kasi Khoshinawas. In autunno ho visto imbottigliare il vino. Gli onjesta mosh, i bimbi vergini, iniziano a pigiare l'uva in mastelli di latta. Il lavoro è poi completato dai fratelli maggiori. Il mosto è conservato fino a dicembre per la sbronza rituale della festa del solstizio: una specie di Natale. La vite cresce abbarbicata agli alberi di noce e l'uva matura ad altezze vertiginose. La coltivazione di quest'uva alpina rimanda a una nuova leggenda. L'uva sacra a Dionisio è stata forse portata fin quassù da eroi che hanno percorso una "Via del Vino e dell'estasi" che partiva dal Mediterraneo. Più segreta della famosa e trafficata "Via della Seta". Il vino che per ogni buon musulmano è una droga sacrilega, per i kafiri è un'ambrosia offerta a Balumain, un Dioniso locale, che alla fine dell'inverno fa ritorno nel Cafiristan. Per raggiungere le tre valli cafire d'inverno devi per forza volare sugli aeroplanini a elica che collegano Peshawar a Chitral. Le tempeste di neve sommergono il Logorai Pass isolandole dal mondo. Ho voluto festeggiare lì il chaumos, la festa del solstizio invernale. Un'orgia pantagruelica (chaumos vuol dire quattro volte carne) e un rito per propiziare il ritorno del sole, del calore e della vita. Nei giorni di vigilia si preparano i shishao (pani ripieni di noci e cotti dai ragazzi vergini), e i kuturuli (dolci a forma di genitali femminili), che sono offerti a Kushumai, dea dei campi e dell'amore. E nel giorno del ditsh - della gran purificazione - si fanno bagni di sangue, di fuoco e d'acqua ghiacciata di torrente e ancora fumigazioni di ginepro. Per proteggere questa purezza rituale i kafiri si ritirano nei loro villaggi imponendosi il divieto di far sesso e di avvicinarsi a tutto ciò che è pragata, impuro. Per tre giorni nessun kafiro potrà allora incontrarsi con un musulmano. Mi ero anch'io asperso con il sangue del capretto sacrificale, benedetto con l'incenso di ginepro e purificato con un bel bagno di torrente. Bumbur mi spiegava che questo fanatismo per la purezza è una cura intelligente che rinforza i villaggi e la cultura cafira. Tabù, bagni e diete sono antidoti contro malattie e disgrazie. Danze e feste un modo per rinsaldare il gruppo e alleviare i conflitti sociali. Il chaumos è una performance politica dove si afferma la voglia di resistere alla repressione islamica. Tutto questo viene simboleggiato dal rogo di un fortino di assicelle di pino pieno di nemici e di altri demoni. La notte santa del solstizio è anche la notte dei sacrifici. Guidati dai prodi budalak - i re pastori - si sale in montagna invocando Balumain, dio Ariete: "Noi ti onoreremo con fiumi di fango. Donaci il calore della primavera e il seme caldo che ingravida i ventri delle nostre donne". Per raggiungere le rocce sacre, troni di Balumain, scaliamo un canalone senza tracce di sentiero. Il luogo più sacro è il più selvaggio e il dio del solstizio sceglie d'atterrare ogni anno su un gruppo di rocce antropomorfe in cima a una frana. Ogni capofamiglia porta un caprone da sacrificare: anch'io ho un bel caprone rosso. La capra sarà sacrificata quando il suo corpo sarà scosso da brividi: segno che la divinità prende possesso della vittima. Il tremito può contagiare i dehar e i giovani più sensitivi che cadono in trance manifestando la loro vocazione sciamanica.
 

L’ultima falange macedone



LE VALLI TRA le scoscese montagne settentrionali del Pakistan affascinano da secoli i viaggiatori. Marco Polo, diretto in Cina, le percorse risalendone i passi. Centinaia di anni dopo Rudyard Kipling usò le loro maestose cime innevate come sfondo per "L’uomo che volle farsi re". E Shangri-La, la tranquilla utopia di "Orizzonte perduto" di James Hilton, era nascosta là in mezzo.

Sono arrivato in queste regioni selvagge sulle orme di una leggenda. Una leggenda secondo la quale qui, a oltre 16.000 chilometri dall’Europa, vivono i discendenti di alcuni dei soldati che seguirono Alessandro Magno dalla Grecia settentrionale al Punjab, in India, tre secoli prima di Cristo.
Cresciuto in una regione della Macedonia che oggi fa parte della Grecia, Alessandro ebbe come istitutori alcuni dei più grandi intellettuali del suo tempo, tra cui il filosofo Aristotele. Poi suo padre, il re di Macedonia Filippo, fu assassinato, e Alessandro, appena ventenne, si occupò di consolidare il regno. Quindi mosse contro Dario, il potente re di Persia, e dopo averlo sconfitto guidò un esercito di 70.000 uomini in un’epica marcia di conquista. Strada facendo, però, Alessandro lasció indietro parte dei suoi uomini, sostituendoli con altri più freschi. Da allora, avventurosi viaggiatori occasionali tornavano dalle valli isolate, di quello che adesso si chiama Pakistan, raccontando dell’esistenza di popolazioni che forse discendevano da quegli antichi soldati macedoni.

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Nel 1933, per esempio, un esploratore inglese, il colonnello R. Schomberg, giunse per tortuosi sentieri di montagna nella fortezza della tribù degli Hunza e visitò la vicina regione di Nagar. Il signore degli Hunza, il Mir, narrò Schomberg, era orgogliosissimo di discendere da Alessandro. "È buona diplomazia da parte della straniero osservare che c’è grande somiglianza tra il profilo del Mir e quello in rilievo su una moneta greca" scrisse l’esploratore inglese "ma la cosa strana è che la somiglianza esiste davvero." Voglio accertarmene di persona. Il mio viaggio si conclude circa 600 chilometri a nord di Islamabad, nel cuore delle grandi montagne del Karakorum. L’ampia valle di Hunza, sul confine pakistano con la Cina, sembra galleggiare nel cielo, un anfiteatro di pietra sorvegliato da gigantesche sentinelle alte più di 7000 metri. In mezzo a questi colossi di roccia e di neve vivono montanari robusti e longevi. Sul lato sottovento dei ripidi pendii di un gigante innevato, capanne di fango sono disposte come le pietre di un guado lungo le pareti color cannella della valle. Appollaiato su una lingua di roccia sopra le capanne c’è il Forte Baltit, una rocca di pietra e legno costruita 700 anni fa, circondata da bui precipizi.


Sui gradini del forte mi accoglie Ghazanfar Ali Khan, 50 anni, Mir degli Hunza. "La mia dinastia regna da 900 anni" mi dice il Mir. "In origine i miei antenati vennero dall’Iran, ma secondo la tradizione quattro soldati del'esercito di Alessandro il Grande attraversarono i passi per colonizzare la nostra terra." Le persone che vedo sono notevolmente diverse dai pakistani di pelle scura dei bassopiani. Rosei nelle guance e bianchi di pelle, molti dei 50.000 Hunza hanno occhi blu, verdi o grigi, e capelli che variano dal giallo granturco al al nero corvino. Alcuni ragazzi hanno anche capelli rossi e efelidi. Ma ancora più addentro le montagne, mi dicono, c'è un altra tribù, i kalash, tra i quali la somiglianza con i presunti antenati europei è ancora più sorprendente.
Per arrivarci ci vogliono tre giorni di fuoristrada.
Bumoret, una valle quasi nascosta dentro una gola scavata da un fiume generato da un ghiacciaio, si trova tra due erte montagne ricoperte di fitti boschi di querce e cedri. Ai suoi margini vedo passare una ragazzina che spinge davanti a sè un gregge di capre dal pelo lungo.
"Isphpadta baba" la saluto. "Salve sorella".
"Isphpadta baya" mi risponde sorridendo. "Salve fratello".
Ha capelli biondi, occhi azzurri, pelle chiara e naso aquilino. In mano tiene un flauto di canna che è il simbolo di Pan, il dio greco dei pastori. Uno strumento che per un attimo ritualizza un remotissimo passato.
Le case dei Kalash sono incastonate nel fianco della montagna e sono fatte di fango, tronchi e centinaia lastre di pietra fittamente disposte a strati. Le donne siedono davanti alle porte, al sole del mattino, filando lana di capra, mentre le bambine portano fiori color oro raccolti nei prati. Tutte indossano vesti ricamate fatte in casa e copricapi che pendono da un lato come criniere. Sono quasi tutte bionde, con occhi blu o grigi valorizzati dal trucco: una polvere nera fatta, mi dicono, di corno di capra macinato. Intorno a un cantastorie si è radunata una piccola folla. "Alessandro il Grande passò di qui per conquistare l’India" grida il narratore. "Prima di tornare in patria lasciò in queste terre alcuni dei suoi soldati, che si stabilirono qui e sposarono le donne di queste parti. Noi siamo i loro discendenti."
Non sono l'unico straniero ad ascoltarlo. Athanasios Lerounis, un insegnante di Atene che ama la montagna, è venuto qui per la prima volta cinque anni fa, e da allora ci ritorna ogni anno. "Gli dei dei Kalash hanno molti punti in comune con quelli greci" mi dice. "Il padre degli dei e degli uomini per i Kalash si chiama Di-Zau. Nel pantheon greco il padre degli dei è Dias-Zeus. Il dio greco Apollo e il dio kalash Balumain hanno gli stessi simboli: il sole, la luce, il cavallo e il corvo."
Lerounis aggiunge che la lingua dei Kalash non ha alfabeto, e viene considerata di tipo indo-ariano. Poi indica i simboli solari che i Kalash incidono su pali di legno davanti alle loro case. "È lo stesso simbolo usato dal padre di Alessandro il Grande" spiega il professore. "I Kalash incidono anche sulle porte delle loro case un antico simbolo associato ad Alessandro: due corna di capra."
I canti di questa popolazione sono simili a quelli, antichissimi, che Lerounis ha sentito nella Grecia nordoccidentale, e i loro balli disegnano figure circolari, come quelli dei greci. "Ballare in cerchio non è affatto comune in Asia" sostiene Lerounis. Colpito dal fatto che i Kalash non avevano scuole, Lerounis ha fatto presente la situazione all’Associazione degli insegnanti greci che, lavorando assieme a volontari, hanno procurato aule e insegnanti a oltre 500 ragazzi Kalash. Nel 1997 il governo di Atene ha invitato cinque bambini a visitare la Grecia. Una di loro era Gulnaz, che ora ha 14 anni e dice di essere rimasta sbalordita vedendo le città greche piene di gente che le somigliava. "Ho anche visto un antico dipinto in cui i soldati di Alessandro hanno cappelli piatti come quelli che ancora oggi portano da noi gli uomini" ricorda.
In futuro la scienza darà forse ragione alle leggende degli Hunza e dei Kalash. Il dipartimento di Genetica della facoltà di Medicina della Stanford University sta analizzando campioni di sangue per individuare i marker del DNA di una particolare popolazione e confrontarlo con quello di altri popoli. Si tratta di un progetto ambizioso che sta "scrivendo" la storia genetica dei popoli del mondo.


A capo del team "pakistano" c’è il dottor Qasim Mehdi, che ha studiato il DNA di 18 popoli e afferma: "Confrontati con tutte le altre popolazioni pakistane e perfino con numerose popolazioni europee, gli Hunza risultano geneticamente più vicini ai baschi spagnoli, ma sembrano avere qualche somiglianza anche con gli iraniani." Mehdi aggiunge che il DNA dei Kalash presenta inoltre un parentela genetica con gli italiani e i tedeschi. Negli ultimi tempi il dottor Mehdi è impegnato nel confronto del DNA degli Hunza e dei Kalash con quello dei greci e dei macedoni. Ma i collegamenti già accertati non escludono che le due popolazioni discendano dai soldati del grande conquistatore. "Alessandro accoglieva nel suo esercito uomini di altre regioni europee, e reclutò migliaia di iraniani" osserva il dottor Mehdi.
L'ultimo giorno con i Kalash assisto a una festa per il raccolto. I pastori scendono al villaggio alle prime luci del giorno portando bianchi formaggi di capra e pregano davanti a un altare all’aperto macchiato del sangue di innumerevoli capre sacrificate e decorato con teste scolpite di cavalli e di uomini.
A mezzogiorno gli abitanti del villaggio si radunano in un prato su un pendio. Vestite con i loro abiti e copricapi più belli, le donne intonano antichi canti lamentosi tenendosi con le braccia intorno alla vita, al modo dei greci, e danzano in cerchio al suono travolgente di un tamburo. Il ballo continua fino a notte. Mentre le guardo, mi sembra di viaggiare indietro nei secoli, e spero con tutto il cuore che la scienza possa confermare le storie leggendarie che circolano sull’ascendenza di queste popolazioni piene di mistero.