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Ipazia: una “martire” pagana

di Alessandra Colla - 05/11/2009

 "…attraverso la sua eloquenza e autorità…ottenne una tale influenza,
 che la cristianità la considerò una minaccia…"
 
Ipazia d'Alessandria
Devota agli Dèi e agli Avi,
matematica, astronoma e filosofa neoplatonica
.

Premessa
Ancora in tutto il XIX secolo «la memoria di Ipazia rimane, tra tutte le memorie umane, una delle più venerate»: lo scrive, curiosamente, il francese Charles Péguy, elogiando la nobiltà di questa paganissima figura femminile «rimasta in armonia così perfetta […] sino alla morte e durante la morte […] mentre il mondo intero crollava, frantumandosi per tutta la vita temporale dell’universo e forse per l’eternità».
Nel XX secolo, Ipazia cade nel dimenticatoio: e oltre vent’anni fa proprio a me, all’epoca studentessa fuori corso di filosofia, toccò parlarne per una pubblicazione non destinata al grande pubblico e tributaria del Libro di Ipazia di Mario Luzi (1978). Quella che segue è la mia ricerchina: un mio breve studio, fonti greche e latine, due poemetti francesi del XIX secolo (poemetti che riporterò altrove in questo sito). Non ho mai più scritto di Ipazia, in questi vent’anni. Ma nel pensiero di alcuni ne sono, chissà come, una cultrice. Può darsi che lo diventi davvero, in futuro.
«…Quella femmina… fatta a pezzi»
(“Risguardo IV”, Ar, Brindisi 1985, pp. 283-303)
La storiografia cosiddetta tradizionale (nel senso di consuetudinaria o convenzionale) ha fissato nell’anno 476 la nascita del Medio Evo, in concomitanza con la caduta di quel “Sacro” Romano Impero d’Occidente che, in realtà, non era più da un pezzo né sacro (perché affetto da decadente misticismo medio-orientale), né romano (perché già dalla fine del IV secolo i barbari si erano interessati all’Italia e a parte dell’Europa in veste di conquistatori), né — tantomeno — d’Occidente (perché l’avvenuta translatio imperii aveva reso Caput mundi una Bisanzio mercantile e levantina, al posto di una Roma peraltro già corrotta).
Di fatto, ogni periodo storico è qualcosa di relativo, e non certo di assoluto, tanto che gli anni scelti a designarne le scansioni temporali si configurano come puramente convenzionali e simbolici: ossia come dipendenti da diverse problematiche e inquadrati secondo differenti angolazioni.

In ogni caso, è fuor di dubbio che fra il IV e il V secolo della nostra èra si assiste al trapasso — sempre traumatico, e decisamente tragico — da un mondo (quello romano) ancora impregnato di certi valori (si pensi all’eroico quanto sfortunato tentativo operato da Giuliano, ultimo sovrano della dinastia costantiniana, di restaurare religioni e culti pagani) a un altro mondo, reso totalmente diverso e incomprensibile al precedente dalla massiccia penetrazione del cristianesimo nella vita pubblica e dal riversarsi delle popolazioni germaniche e in generale barbariche nel seno stesso di un impero ridotto ormai a un «tronco disseccato fino alle radici, ancora vigoroso all’esterno, ma di dentro moribondo» (parafrasando Leconte de Lisle).
A questa stregua, dunque, perché non considerare come avvisaglia del crollo della paganità e dei valori a essa connessi l’anno 313? Allora, in un convegno a Milano, gli Augusti Licinio e Costantino, dopo la vittoria riportata nell’anno precedente su Massenzio (sconfitto definitivamente al Ponte Milvio), si accordano e si spartiscono l’Impero, delimitando le rispettive aree di potere: al primo l’Oriente, al secondo l’Occidente. Nella stessa occasione, gli Augusti promulgano il famoso Editto di Milano: un editto di tolleranza che sopprime ogni discriminazione religiosa, concedendo quindi libertà di culto ai cristiani, stabilisce la restituzione delle proprietà ecclesiastiche in precedenza confiscate e abolisce il culto Pagano come religione di Stato, sostituendovi ufficiosamente il cristianesimo.

Da questo momento in poi, purtroppo è tutto un susseguirsi di trionfi per la cristianità, con le conseguenze disastrose che si possono facilmente immaginare.
 Qualche data: nel 318 Costantino concede ai vescovi cristiani alcune prerogative giurisdizionali, insieme al diritto di ricevere beni in eredità da parte delle singole chiese e comunità ecclesiali a esse congiunte, gettando così le basi del futuro potere temporale ecclesiastico. Nel 325 si tiene a Nicea un concilio, composto prevalentemente da vescovi orientali e convocato dall’imperatore Costantino: nel corso di esso si ribadisce la condanna dell’arianesimo (già sancita nel 320 in un sinodo riunito ad Alessandria d’Egitto: Ario, prete di Alessandria, insegnava che il Figlio non è della stessa sostanza del Padre, infliggendo così un serio colpo al dogma della Trinità) e viene invece formulata la confessione di fede secondo l’interpretazione di Atanasio, futuro vescovo di Alessandria e sostenitore dell’omoiusia (od omusia: identità di sostanza. Omusiani vennero detti i suoi seguaci), in base alla quale si afferma che il Figlio è effettivamente della stessa sostanza del Padre; nella stessa occasione viene formulato il Credo (nel 381, il Secondo Concilio Ecumenico di Costantinopoli confermerà le deliberazioni del Concilio di Nicea). Nel 360, l’unico bagliore che rischiara tenebre destinate a durare ancora per molto: a Lutetia, in Gallia, le legioni di Costanzo II si rifiutano di obbedire all’ordine di trasferimento in Oriente per una nuova campagna contro i Persiani e proclamano Augusto il loro comandante, il Cesare Giuliano, che entrerà trionfalmente a Costantinopoli nel 361, poco dopo la morte del deposto imperatore, avvenuta il 3 novembre dello stesso anno. Ma l’avventura di Giuliano (dai cristiani soprannominato poi spregiativamente l’Apostata) si conclude, troppo presto e troppo tragicamente, il 26 giugno del 363, in un combattimento vittorioso sotto le mura di Ctesifonte, nel corso di una campagna contro il re Sapore II, della dinastia Sassanide.

Nemmeno vent’anni dopo, nel 380, la situazione è radicalmente mutata: degli antichi splendori che Giuliano aveva tentato di resuscitare non restano che ricordi e — in troppo pochi animi — non sopite nostalgie; l’Impero è ormai una diarchia, non solo di nome ma, quel che è peggio, di fatto. I due Cesari, d’Oriente e d’Occidente, si disinteressano ormai nel modo più assoluto di tutto quanto non accade direttamente nell’area immediata della loro influenza: sono diversi i problemi, le esigenze, gli interessi; e di romano non sono rimaste che le leggi. Troppo poco per parlare di unità. Tuttavia, l’imperatore d’Oriente Teodosio I e quello d’Occidente Graziano trovano ancora un punto d’accordo con l’Editto di Tessalonica (appunto nel 380), che dichiara il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero, e proibisce i culti pagani. Ma la disposizione non sembra sufficiente: nel 391 Teodosio I, di passaggio a Roma e approfittando della posizione di secondo piano occupata da Valentiniano II (succeduto nel 383 al fratello Graziano), emana un ulteriore provvedimento di assoluto divieto del culto pagano a Roma. L’anno seguente, nel 392, altre leggi speciali di Teodosio I allargano all’Egitto la proibizione dei culti pagani, dando il via a una incontrollata e lunga serie di violenze iniziate nello stesso anno con la distruzione della biblioteca di Alessandria (e del Serapeion [1], centri fiorenti di intensa vitalità culturale e filosofica, nonché ultimo baluardo della sapienza greca e antica in genere, contrapposto al dilagante e ottuso dogmatismo cristiano), e destinate a sfociare — ma non a concludersi — nel 415 con l’uccisione della filosofa Ipazia.

Il fondo, però, non è ancora toccato, anche se ormai manca poco: nel 394 un quarto editto di Teodosio I abolisce i giochi di Olimpia (in questa data, infatti, cessa il computo degli anni per Olimpiadi, almeno ufficialmente), e ordina la chiusura del celebre tempio dedicato a Zeus che sorgeva in quella città [2]. Non a torto, questo provvedimento che sancisce, in certo modo, la fine ufficiale della religione pagana, viene considerato anche come il colpo definitivo al cuore della civiltà stessa del mondo antico. Ormai l’Impero è, di fatto, romano-barbarico [3].
Illustrazione da Hypatia, romanzo di C. Kingsley, 1853
Questi, dunque, sono gli antefatti del dramma che travolgerà Ipazia. Nei cento anni che ne precedono l’assassinio, l’arte e la cultura subiscono una battuta d’arresto, almeno per quanto ne riguarda la libertà d’espressione: forma e contenuti sono appiattiti, quasi schiacciati dalla crescente potenza della nuova religione che tutto abbatte e sconvolge. In un clima dominato solo dalla letteratura patristica e da un’arte di ispirazione religiosa ed ecclesiastica, sopravvive soltanto la filosofia, e segnatamente quella neoplatonica.
Il neoplatonismo sorse nella prima metà del III secolo della nostra èra ad opera di Ammonio Sacca, che fondò la Scuola di Alessandria. Non avendo lasciato nulla di scritto, di lui sappiamo solo quel che ne riportarono i suoi discepoli: da Porfirio di Tiro, a esempio, apprendiamo che Ammonio nacque e fu educato in una famiglia cristiana, ma che, una volta accostatosi alla filosofia, abbracciò nuovamente la religione pagana. Ma Ammonio Sacca verrà superato, e di gran lunga, dal discepolo Plotino, considerato a buon diritto l’autentico grande filosofo di questo indirizzo: il suo insegnamento (sviluppato nella seconda metà del III secolo) conferisce al neoplatonismo la sua formulazione teoretica più elevata e vigorosa. Nel IV secolo il neoplatonico Giamblico fondò una scuola in Siria, dalla quale derivò, nello stesso periodo, la scuola di Pergamo [4]. è proprio in quest’epoca che si manifesta la grande importanza politica del neoplatonismo: esso, infatti, rappresentò la concezione filosofica pagana contrapposta, fino a tutto il V secolo, all’ormai imperante Stimmung cristiana. Fin verso la metà del V secolo, tuttavia, la scuola neoplatonica di Alessandria fu improntata a un orientamento nettamente filosofico-scientifico, del quale furono esponenti di rilievo Teone e sua figlia Ipazia.
Di Teone Alessandrino si sa ancor meno che della figlia: matematico noto a ai suoi tempi, subì il fascino dell’altra scuola neoplatonica, quella siriana, che tentava una sistematica utilizzazione della matematica e delle discipline a essa connesse per fini più propriamente metafisici; è appunto in questa prospettiva che Teone curò una famosa edizione degli Elementi di Euclide, e scrisse un commento al trattato Mathematiké syntaxis di Tolomeo.
Della figlia Ipazia (o Ippazia) sappiamo poco di più, e c’è da pensare che la sua fama ingiustamente oscurata sia giunta fino a noi solo a causa della sua tragica fine. La data della sua nascita è incerta: si presume possa essere collocata fra il 360 e il 370. Assai più sicura, invece, è la data della morte, precisata fin quasi al giorno, che Cassiodoro Epifanio, nell’Historia ecclesiastica tripartita [5], situa «nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo anno di regno di Onorio e il sesto di Teodosio», vale a dire circa nel 415, «nel mese di marzo, nei giorni precedenti la Pasqua». I cenni sulla vita di Ipazia sono scarsi: il padre Teone la istruì a fondo nelle discipline matematiche ed astronomiche; dopo aver completato i suoi studi ad Atene, Ipazia preferì dedicarsi poi alla filosofia e al suo insegnamento e, tornata ad Alessandria, vi aprì ella stessa una scuola, e tenne poi le sue lezioni anche nel Serapeion [6].

Seguace delle dottrine neoplatoniche, e orientata verso una conciliazione delle teorie platoniche e aristoteliche, divenne ben presto celebre per il suo vasto sapere e per la sua bellezza: nei suoi Poèmes antiques Leconte de Lisle ne fa una giovane donna, e parla dello «spirito di Platone» e del «corpo di Afrodite» mirabilmente congiunti. La realtà storica è un po’ diversa, giacché nel 415 Ipazia doveva avere all’incirca fra i quarantacinque e i cinquantacinque anni. Autrice indubbia di commenti a opere di Apollonio, Diofanto e Tolomeo, di lei non ci è giunto alcuno scritto, ma si sa che le sue lezioni erano frequentatissime in grazia della sua abilità di oratrice e del suo scrupoloso attenersi al pensiero autenticamente platonico e aristotelico. In un’epoca in cui l’oscurantismo tipico di un sistema statale corrotto e fatiscente si compiaceva di fariseismi e cacce alle streghe (e più che mai la donna e la ragione erano considerate opera delle potenze maligne), la vergine Ipazia era (stando a quanto ne dice ancora Cassiodoro Epifanio) stimata e rispettata «per la sua castità e integrità di costumi». Non bastano quindi — non possono bastare — l’invidia, la maldicenza e il risentimento in senso nietzscheano a spiegare la fine oltraggiosa riservata a Ipazia da un gruppo di straccioni fanatici: a monte, sicuramente, c’è ben altro.

 
Nonostante l’atmosfera di terrore e di morte aleggiante su Alessandria in disfacimento, simbolo della ben più vasta crisi che stava attanagliando tutto il mondo civile allora conosciuto, e a dispetto dell’ardore religioso troppo presto e troppo facilmente mischiato all’ingiustizia della forza e del numero, non mancavano gli spiriti liberi: fra questi erano Sinesio [7], allievo di Ipazia prima e vescovo cristiano poi, che non mancò mai di intrattenere con lei rapporti di pura e profonda amicizia, né venne meno, anche dopo la conversione, agli elevati precetti filosofici neoplatonici; e Oreste, prefetto di Alessandria, del quale ancora Cassiodoro ci dice che s’incontrava di frequente con Ipazia, presumibilmente per gli stessi motivi di Sinesio. In realtà (almeno secondo quanto riporta la Historia ecclesiastica tripartita), sembra che nei tempi immediatamente precedenti l’assassinio di Ipazia — non viene specificato se si tratti di giorni, settimane, mesi o forse di più ancora: ma non ci sembra improbabile supporre un lasso di tempo piuttosto lungo, se ci soffermiamo un attimo a considerare le conseguenze scaturite dagli editti del 391 e 392 — sembra, dunque, che violenze e soprusi venissero perpetrati ai danni dei cristiani di Alessandria e delle zone limitrofe. Gli incidenti non dovettero essere, tutto sommato, di scarsissima rilevanza, se è vero che i monaci del deserto (cui fa cenno Leconte de Lisle) stanziati sul monte Nitia calarono su Alessandria e «nel nome di Cirillo diedero zelantemente inizio a scontri» [8] con la popolazione. I primi tumulti non ebbero un esito molto felice per i monaci, giacché si conclusero con l’uccisione di Ammonio, uno dei quattro «venerabili uomini» che «reggevano i monasteri dell’Egitto» (gli altri tre erano Dioscoro, Eusebio ed Eutimio).

Fu probabilmente in quell’occasione che Ipazia, preoccupata dell’incolumità di quanti le erano cari, consigliò Oreste di diradare e fors’anche di interrompere i rapporti, soprattutto quelli di amicizia, col vescovo Cirillo. L’ascendente di Ipazia sulle autorità civili di Alessandria, del resto, doveva essere notevole, e non si limitò forse a manifestarsi solo in questa circostanza: certo è che la Historia ecclesiastica tripartita e altre fonti ancora testimoniano che Ipazia venne ritenuta colpevole delle persecuzioni nei confronti del vescovo Cirillo — persecuzioni seguite alle intemperanze giustificate dai monaci del deserto, a torto o a ragione, nel nome, appunto, di Cirillo —, e per questo motivo massacrata barbaramente. A pochi giorni dalla celebrazione di un nuovo rito d’amore, la Pasqua, nel nome di un nuovo dio di misericordia…
Note
[1] Denominazione propria di qualunque tempio dedicato al dio Serapide. Il più famoso, vasto e imponente, eretto in puro stile greco dall’architetto (anch’esso greco) Parmeniskos, sorgeva in Alessandria. Quando l’Egitto passò sotto la signoria di Roma, il tempio fu per secoli meta ininterrotta di visitatori, anche illustri, provenienti da ogni parte dell’Impero romano: lo storico Tacito (Storie, lib. IV, cap. LXXXI, LXXXII) menziona la visita al tempio dell’imperatore Vespasiano. La fortuna del Serapeion cominciò a venir meno a partire dal 391, anno in cui il paganesimo alessandrino subì uno dei colpi più duri a opera del cristianesimo trionfante.
[2] Ancora a proposito della relatività dei periodi storici dal punto di vista meramente storiografico, ricordiamo qui che alcuni studiosi propongono di iniziare con questa data il cosiddetto Medio Evo.
[3] Incalcolabili furono le conseguenze: forse la più grave, anche se la meno riconosciuta, consiste nel passaggio dalla «cultura (o civiltà) della vergogna» alla «cultura (o civiltà) della colpa», secondo la felice distinzione introdotta alla fine degli anni Trenta dall’antropologa americana Margaret Mead. Come il termine stesso indica, nel primo tipo di civiltà il valore fondamentale è quello di ‘onore’, che implica un nesso intimo, diretto con l’ambiente sociale in cui la persona si situa. L’onore comporta un modo particolare di rapportarsi alla comunità cui si appartiene, una relazione qualitativa che investe tutto il ceppo familiare del membro, e addirittura la cerchia di chi gli è vincolato da legami di amicizia, affetto e simili. Ne deriva che è sufficiente una mancanza nei riguardi del gruppo, perché il trasgressore possa disonorare il proprio nome e di conseguenza quello del proprio gruppo familiare, coinvolgendo così negativamente anche ‘estranei’ , per vari motivi vincolati al soggetto della trasgressione e al suo gruppo di appartenenza. In questo tipo di civiltà, dunque, la massima pena per il membro consiste nel venire estromesso dalla vita della comunità, nella perdita di reputazione: parafrasando il Nietzsche di Al di là del bene e del male («Sentenze e intermezzi», 183), la comunità è scossa non tanto dal fatto che uno dei suoi membri abbia potuto ingannarla, quanto dal fatto che ora essa non potrà più credergli. La cultura così contrassegnata è propria dei Greci, dei Latini, dei Celti, degli Scandinavi, degli Ario-Indù — ovvero del complesso delle genti indoeuropee. (Propria, ma non esclusiva: si pensi, nell’area estremo-orientale, alla civiltà giapponese e al valore sommo che in questa rivela la polarità ‘onore-vergogna’). Le «culture della vergogna» si contrappongono radicalmente alle «culture della colpa», nelle quali l’‘impressione’, il sentimento basilare sotteso alla struttura della società è appunto quello di ‘colpa’. Ma si badi: colpa non tanto nei confronti della comunità, bensì nei confronti di una entità suprema da cui si suppone discendano norme rigidamente dogmatiche, tradotte in precetti morali. Da questa ‘emozione della colpa’ nasce la categoria mentale-morale di ‘peccato’, connessa al convincimento dell’ineluttabilità di sanzioni, eseguibili sia nel presente che in una vita ultraterrena. Com’è noto, questa interiorizzazione della mancanza
viene istituzionalizzata (dopo essere stata, in un certo senso, ipostatizzata) nelle religioni monoteistiche.
[4] Della scuola di Pergamo fu illustre allievo il futuro imperatore Giuliano; discepolo degli scolari di Giamblico, Giuliano riteneva che il neoplatonismo coniugasse il doppio vantaggio di rimanere entro la tradizione dell’antica cultura pagana, e al tempo stesso di soddisfare le nuove esigenze religiose venute a diffondersi nell’Impero.
[5] La Historia ecclesiastica tripartita — così chiamata perché, dapprima composta da Cassiodoro Epifanio, fu in seguito risistemata e ampliata da Socrate Sozomeno e da Teodoreto — narra (in 12 libri) gli avvenimenti svoltisi dall’anno 324 fino all’anno 439 (443).
[6] Pochi anni dopo la morte di Ipazia il neoplatonismo ritornò in Atene, dove sorse una nuova scuola che si proponeva di riprendere la grande tradizione dell’Accademia platonica; lo scolarca più illustre fu Proclo (410-485). L’Accademia neoplatonica verrà poi definitivamente chiusa nel 529 per ordine dell’imperatore Giustiniano.
[7] Sinesio, patrizio di Cirene, nacque forse nel 370, e fu quindi praticamente coetaneo di Ipazia, della quale fu discepolo ad Alessandria. Probabilmente nel 406, divenne vescovo di Cirene, sembra con scarsa convinzione e addirittura prima di aver abbracciato completamente la fede cristiana. Di lui ci sono pervenuti, oltre alle lettere, alcuni Inni e un trattato filosofico, il Diòn (composto forse tra il 404 e il 405), scritto in difesa della cultura ellenica, ritenuta il mezzo più efficace per sviluppare le potenzialità dell’intelletto umano. In questa prospettiva la cultura greca non è considerata in opposizione a quella cristiana, non è la «dea Ragione» cara agli immortali princìpi dell’89, bensì appare come un metodo al di là e al di sopra delle fedi, al cui sviluppo è in grado di contribuire validamente. Sinesio morì nel 413, due anni prima della sua maestra Ipazia.
[8] San Cirillo d’Alessandria è ricordato come uno dei più grandi teologi della Chiesa Orientale. Nacque probabilmente in Alessandria verso il 370 (anch’egli, dunque, contemporaneo e addirittura coetaneo di Ipazia e di Sinesio), nipote del patriarca di quella città, Teofilo. Nel 412 succedette allo zio nella sede patriarcale di Alessandria, dove rimase fino al 444, data della sua morte. Gli inizi del suo episcopato si rivelarono alquanto burrascosi, e soprattutto movimentata fu la lotta da lui sostenuta contro il governatore imperiale di Alessandria, Oreste. Sembra non fosse lui il diretto responsabile dell’assassinio di Ipazia, caduta vittima, in realtà, di un tumulto popolare perché sospettata di essere la consigliera di Oreste: al riguardo, Cassiodoro Epifanio afferma decisamente che «questo fatto attirò non poco livore nei confronti di Cirillo e della Chiesa di Alessandria».
LE FONTI
Da Historia ecclesiastica Philostorgii, VIII - 9 [a] [1]
«Costui [Filostorgio] dice che Ipazia figlia di Teone era stata istruita dal padre nelle scienze matematiche; e tuttavia era divenuta assai più erudita del proprio maestro, sopra tutto riguardo all’arte di osservare le stelle, e insegnava a molti le scienze matematiche. Ma quest’empio [Filostorgio] dice pure che sotto il regno di Teodosio il Giovane quella femmina venne fatta a pezzi dai sacerdoti del culto omusiano.»
Da Historia ecclesiastica Philostorgii, VIII - 9 [b]
«La filosofa Ipazia: Filostorgio dice che Ipazia, figlia di Teone, fu istruita dal padre nelle discipline matematiche, ma che divenne di gran lunga più erudita del suo maestro, sopra tutto in astronomia, e che insegnò a molti le discipline matematiche. Tuttavia questo empio [Filostorgio] afferma che sotto il principato di Teodosio il Giovane costei fu fatta a pezzi dagli omusiani.»
Da Historia ecclesiastica tripartita - Cassiodori Epiphanii: XI - 12, 1/5
«12. 1 Vi era allora in Alessandria una donna di nome Ipazia, figlia del filosofo Teone e tanto colta da emergere tra i filosofi suoi contemporanei, e da ricevere proprio lei la successione nella scuola platonica derivata da Plotino, così da tenere ella stessa tutte le lezioni filosofiche. Per questo motivo tutti accorrevano a lei a causa della sua autentica fedeltà professata nei confronti dell’antica dottrina.
«2 Infatti ella si prestava di buon grado anche a contraddittori e dispute senza alcun imbarazzo, anzi, si mostrava anche in mezzo agli uomini, ma con tale riservatezza che tutti la stimavano e la rispettavano per la sua castità e integrità di costumi.
«3 Fu allora, dunque, che divampò l’invidia contro questa donna. Infatti, poiché frequentemente si incontrava con Oreste, la popolazione ecclesiastica le si sollevò contro, poiché sembrava che lei stessa l’avesse dissuaso dall’intrattenere rapporti di amicizia col vescovo.
«4 Per questo motivo alcuni uomini travolti da un acerrimo odio, e a capo dei quali era un lettore [2], un certo Pietro, avendo ordito una congiura, spiarono la donna mentre tornava a casa e, fattala scendere a forza dalla carrozza, la trascinarono alla chiesa, che è chiamata di Cesare, e là, spogliatala delle vesti, la lapidarono. In seguito, dopo averla letteralmente fatta a pezzi, ne bruciarono i resti.
«5 Questo fatto attirò non poco livore nei confronti di Cirillo e della chiesa di Alessandria; infatti è noto che stragi e violenze sono aliene dai Cristiani. Questi avvenimenti dunque accaddero nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo anno di regno di Onorio e il sesto di Teodosio, nel mese di marzo, nei giorni precedenti la Pasqua.»
Note
[1] La Historia ecclesiastica Philostorgii è contenuta nella monumentale Patrologia graeca, curata dall’abate francese Jacques-Paul Migne in due edizioni: una col testo greco e la traduzione latina (in 166 volumi), di cui ci si è serviti nel presente saggio; e una con la sola traduzione latina (in 85 volumi). Per amore di completezza e nel rispetto obiettivo dell’informazione storica si è inteso qui riportare sia la traduzione del testo greco [a], sia quella del testo latino [b]: come il Lettore può notare, emergono dalla comparazione dei testi tradotti leggere sfumature, per lo più lessicali. Del resto la formula «questo empio» rilevabile in entrambe le lezioni indica chiaramente che non si tratta qui dell’originale storia ecclesiastica di Filostorgio, bensì di una registrazione effettuata probabilmente in epoca posteriore (non sappiamo di quanto) alla stesura personale di Filostorgio stesso: inevitabili, quindi, distorsioni e travisamenti, anche impercettibili seppure forse intenzionali, del testo originariamente stilato dall’autore. Si ribadisce qui la volontà di offrire al Lettore, laddove sia possibile, l’opportunità di accedere direttamente alle fonti o, quanto meno, di riferirvisi con la massima precisione e imparzialità. Sulla Historia ecclesiastica tripartita, si veda la nota 5, più oltre.
[2] Titolo ecclesiastico indicante, nella Chiesa latina, il chierico che ha ricevuto il secondo degli ordini minori.