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Dobbiamo essere realisti: vale a dire, pretendere l'impossibile

di Francesco Lamendola - 09/11/2009


Non crediamo di dire chissà quale novità affermando che la psicanalisi freudiana altro non è che uno dei principali strumenti coi quali il Pensiero Unico cerca di impaurire, ricattare e sottomettere gli esseri umani nella fase della modernità avanzata e della post-modernità.
Il suo scopo non è quello di liberare le energie positive, che giacciono latenti nel fondo della persona, ma, al contrario, quello di persuadere ciascuno che la cosa migliore che si possa fare nella vita è adeguarsi allo stato di cose esistente nella società e mettere i propri sogni nel cassetto, buttando via la chiave: solo a tali condizioni sarà possibile conquistare non già la felicità, che - secondo gli psicanalisti - non esiste, ma una sua contraffazione abbastanza accettabile, ovvero, per parlare con maggiore franchezza, una sorta di tranquilla disperazione.
Tutto questo, sulla base di una definizione tanto arbitraria quanto filosoficamente semplicistica e inconsistente del cosiddetto «principio di realtà», ossia il mondo esterno, visto come la pietra del paragone, rispetto alla quale l'individuo non può fare altro che conformarsi nella misura maggiore possibile; concetto che abbiamo già sviluppato nel precedente articolo «Il «principio di realtà» non è che il nichilismo freudiano spacciato per verità obiettiva» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Ebbene, a questo radicale pessimismo antropologico - che, in Freud, si «giustifica» col fatto che solo la «civiltà» ci può salvare dalle nostre cattive inclinazioni, dai nostri istinti di incesto, parricidio e omosessualità latente - occorre rispondere con una altrettanto fiera e radicale negazione, in nome del sacrosanto diritto della persona a divenire veramente se stessa, cioè ad accettare, sviluppare ed espandere tutta l'umanità di cui essa è capace, tutta la ricchezza inestimabile che porta segretamente nascosta in fondo all'anima.
Dobbiamo fare nostro, ma in un senso esistenziale  più serio e strettamente personalistico, lo slogan sessantottesco: «Siate realisti: vogliate l'impossibile!». Chi lo ha detto che la felicità non esiste? Chi lo ha detto che tutto quel che possiamo sperare dalla vita è di riuscire ad adattarci al mondo esterno, accettandolo come un Verbo immodificabile, e sacrificando sull'altare di questa religione repressiva la parte migliore di noi stessi? Chi lo ha detto che l'essere umano è, fondamentalmente, «spazzatura», come pretendeva il padre e sommo sacerdote di quella forma di magia nera che è la psicanalisti (cfr. il nostro recente articolo: «Liberarci dall'ombra maligna di Freud,  cattivo maestro che considerava gli uomini «spazzatura»)?
Freud, che disprezzava gli esseri umani e verso i quali non provava pietà, ma disgusto, avrebbe voluto vederci tutti quanti inginocchiati, in servile adorazione dell'esistente; non per nulla la lezione di Hegel era passata anche su di lui, imprimendovi un marchio indelebile.
È incredibile, e altamente ironico, il fatto che la psicanalisi sia stata spacciata, anche negli anni della contestazione giovanile, come una delle strade che portano verso la liberazione, mentre è vero esattamente il contrario; ed osiamo affermare che le vere ed ultime ragioni del conflitto insanabile tra Freud e il discepolo eretico Jung non vertevano tanto questioni relative all'inconscio, alla natura del sogno o ad altre teorie specifiche, ma sul fondamentale ottimismo antropologico del secondo, che non condivideva l'apocalittico atteggiamento del maestro nei confronti della possibilità di essere felici, realizzando se stessi.
C'è un passo rivelatore, nelle memorie di Jung, che ben chiarisce questo fatto.
È riportato nel libro «Ricordi, sogni, riflessioni» (titolo originale: «Erinnerungen, Traume, Gedanken von C. G. Jung», New York, Random House, 1961; traduzione italiana di G. Russo, Milano, Rizzoli, p.191):

«Ho ancora vivo il ricordo di ciò che Freud mi disse: "Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo". Me lo disse con passione, col tono di un padre che dica: "E promettimi solo questo, figlio mio, che andrai in chiesa tutte le domeniche!". Con una certa sorpresa gli chiesi: "Un baluardo, contro che cosa?". Al che replicò: "Contro la nera marea di fango", e qui esitò un momento, poi aggiunse: "dell'occultismo". Innanzi tutto erano le parole "baluardo" e "dogma" che mi avevano allarmato; perché un dogma, e cioè un'incrollabile dichiarazione di fede, si stabilisce solo quando si ha lo scopo di soffocare i dubbi una volta per sempre. E questo non ha nulla a che fare col giudizio scientifico, ma riguarda solo un personale impulso di potenza.»

E, in secondo luogo - aggiungiamo noi - l'idea di fare della psicanalisi pansessuale una diga contro la «nera marea di fango dell'occultismo» è una idea che testimonia da sé fino a che punto l'arroganza positivista e scientista di Fred gli avesse annebbiato lo spirito critico, trasformandolo nel Mosé terribile di una nuova implacabile religione poliziesca, i cui assiomi sono il materialismo e il razionalismo.
Ma torniamo al discorso sulla felicità e sulla possibilità, per la persona umana, di realizzare pienamente se stessa, non già adeguandosi servilmente alla realtà esterna, quale che essa sia, ma, al contrario, conservando una strenua fedeltà nei confronti dei propri sogni, e particolarmente di quelli dell'infanzia.
Una zelante discepola della religione freudiana, l'americana Judit Vorst, ha espresso molto bene il punto di vista psicanalitico ortodosso al riguardo, nel suo libro «Distacchi», di cui riportiamo uno dei passaggi-chiave (il titolo originale è ancora più eloquente: «Necessary Losses», Simon e Schuster, 1986; traduzione italiana di Laura Sgorbati Buosi, Frassinelli, 1987, pp. 159-60 e 167-68):

«Crescere significa abbandonare i più cari sogni megalomaniaci della nostra infanzia. Crescere significa capire che non si possono realizzare. Crescere significa avere la saggezza e la capacità di ottenere ciò che vogliamo entro i limiti imposti dalla realtà - una realtà che consiste di poteri ristretti, di libertà limitata e di legami imperfetti con la gente che amiamo.
Una realtà costruita, in parte, sull'accettazione delle nostre perdite necessarie.
Eppure, sebbene ripudiamo i desideri irrealizzabili, questi si impongono su di noi in maniera subdola Sotto forma di sintomi, errori, contrattempi e vuoti di memoria. Sotto forma di lapsus verbali o scritti (cara Morta, voglio dire Marta), sotto forma di incidenti (perché di proposito non vorremmo certamente versare una salsa sull'abito candido di una nostra rivale- sarebbe cattiveria) e sotto forma di sogni che facciamo di notte e di giorno.
Per quanto si sia adulti, i desideri proibiti, i desideri impossibili della nostra infanzia continuano a insistere per ottenere gratificazione.
E infatti i nostri sogni a occhi aperti, le nostre fantasie, sono dei modi per ratificare questi desideri. Nelle fantasie i nostri desideri possono sempre realizzarsi. Queste finzioni consce esprimono i diversi interessi della vita quotidiana.. ma sono sempre connesse agli inconsci e inconfessati precoci desideri.[…]
Quello che viene chiamato "test di realtà" inizia - attraverso la frustrazione - quando scopriamo che desiderare non significa avere, quando scopriamo che non possiamo essere scaldati o confortati o nutriti a lungo dalle fantasie dei nostri desideri. Acquisiamo un senso di realtà, che significa che possiamo determinare se qualcosa esiste veramente oppure no e che, indipendentemente dalla vividezza dell'immagine gratificante che noi creiamo, possiamo accorgerci che è un'immagine nella nostra testa e non una presenza viva nel nostro letto.
Un senso della realtà ci consente anche di valutare noi stessi e il mondo con relativa precisione. Accettare la realtà significa che siamo giunti a patti con le limitazioni e le imperfezioni del mondo - e anche con le nostre. Significa inoltre stabilire obiettivi accessibili a noi stessi, compromessi e surrogati da mettere al posti dei nostri desideri infantili perché…
Perché, in quanto adulti sani, sappiamo che la realtà non ci può offrire l'assoluta certezza e l'amore incondizionato.
Perché, in quanto adulti sani, sappiamo che la realtà non può compensarci per le delusioni, le sofferenze e le perdite del passato.
E perché, in quanto adulti sani, capiremo infine la natura limitata di ogni rapporto umano vivendo i nostri diversi ruoli di amico, coniuge, genitore, familiare.
Ma il problema è che pochi di noi sono veramente adulti sani…»

Coerentemente con l'impostazione poliziesca e al tempo stesso narcisistica della psicanalisi (nonché con una tendenza caratteristica della cultura americana, ove la cosa è ritenuta molto simpatica) l'Autrice non risparmia al lettore, nella parte conclusiva del suo libro, notizie più o meno dettagliate sui propri figli, genitori e marito, nonché sulla propria lotta contro i mali della mezza età e specialmente l'osteoporosi, il cui scopo è quello di presentare se stessa come un prodotto riuscito delle teorie freudiane: una persona che accetta il mezzo grigiore e il mezzo sonnifero della vita di ogni giorno, matrimonio compreso, in ossequio al principio di realtà, spacciandolo per il massimo di felicità che sia concesso agli esseri umani.
Della sua rassegnazione, della sua tranquilla disperazione, Judith Viorst vorrebbe fare una regola, alla quale noi tutti dovremmo uniformarci. È questa la «saggezza» che una delle tanti, banali sacerdotesse del freudismo vorrebbe dispensare ai propri lettori: forse perché, se riuscisse a convincerli ad ammainare la bandiera dei propri sogni, potrebbe sentirsi meno a disagio con se stessa, per avere vissuto una vita a mezzo servizio.
Intendiamoci: è giusto affermare che l'adulto maturo e responsabile è colui il quale si libera dall'aspettativa infantile di vedere realizzati automaticamente i propri desideri. È una verità ovvia  e perfino lapalissiana: non basta piangere e pestare i piedi in terra, perché gli altri accorrano a darti quello che desideri, come faceva la mamma quando eri piccolino.
Ma che cos'ha a che fare, questa ovvia constatazione, con i sogni di una persona e con lo scontro fra essi e la realtà? Assolutamente nulla. O i freudiani non sanno letteralmente quello che dicono, oppure giocano deliberatamente sul malinteso. I sogni di una persona relativi alla propria vita, al proprio futuro, sono una cosa completamente diversa dal delirio di onnipotenza del bambino, ammesso e non concesso che quest'ultima espressione sia adeguata ad esprimere il protendersi del bambino verso le cose che desidera, per averle tutte e subito, senza ovviamente tener conto della realtà oggettiva. È difficile, se non impossibile, confondere le due cose, a meno che si sia mossi da una deliberata mala fede.
La verità è che noi consideriamo impossibile realizzare quelle cose in cui non crediamo sino in fondo, o alle quali non riusciamo ad attribuire un significato.
È noto il racconti dello psichiatra Viktor Frankl (il fondatore della logoterapia) allorché, stremato dalla fame e dal freddo, stava per soccombere al desiderio di annientamento, in un campo di concentramento, durante la seconda guerra mondiale; e di come la chiara immagine di se stesso che raccontava la propria esperienza nel corso di una affollata conferenza, gli diede la forza di riprendersi e di resistere, continuando a marciare sotto la pioggia, pur essendo allo stremo delle forze e con i piedi piagati.
Se avesse riconosciuto, in base al «principio di realtà», che la sua situazione era disperata e che nulla autorizzava a pensare che avrebbe potuto sopravvivere, sicuramente egli sarebbe morto. Ciò che lo ha tenuto in vita è stata la capacità di sperare contro ogni speranza, di credere nell'impossibile.
Non esistono sogni veramente impossibili, per colui che li sappia conservare vivi e freschi nella propria anima: non, almeno, per la persona psichicamente e spiritualmente sana e normale, che non si pone obiettivi quantitativi, ma qualitativi; e che sa che l'unica maniera di agire sul mondo, trasformandolo, è quella di lavorare a fondo su se stessa.
Il freudismo vorrebbe farci credere che ciò è impossibile e, per giunta, vorrebbe insinuare il dubbio che al fondo di gran parte di quello che sentiamo, pensiamo, diciamo e facciamo, vi è una motivazione torbida e inconfessabile, diametralmente opposta alle nostre intenzioni dichiarate. Se uno si rivolge a una persona di nome Marta, scrivendo Morta, non c'è alcun dubbio che il segreto desiderio di quegli è vedere eliminata quella tale persona: così insegna la polizia psicanalitica di Freud, e così ripetono, come tante scimmiette ammaestrate, i suoi successori e volonterosi sacerdoti, che si fanno pagare un tanto all'ora per propalare questo subdolo veleno.
Allo stesso modo, non c'è dubbio che se io dico di amare una persona, e se mi impegno per dimostrarlo con tutte le mie risorse affettive, ciò nasconde profondi (e rimossi) sentimenti di ostilità, perfino di odio, se non addirittura il senso di colpa per il segreto desiderio che quella persona scompaia per sempre.
A questo punto, è chiaro dove ci porta, inevitabilmente, la rigorosa applicazione della polizia psichica freudiana: al riconoscimento che voler realizzare i propri sogni è non solamente impossibile, ma anche immorale, perché i nostri sogni sono spazzatura, così come lo siamo noi: una nera marea di fango, ove pullulano istinti e pulsioni crudeli e vergognosi, da cui la «civiltà» non è riuscita a guarirci, se non in superficie.
Invece non è così.
Noi possiamo innalzarci al di sopra della nostra parte peggiore, e puntare a realizzare il meglio di cui la natura umana è suscettibile (che non è certamente poco); a condizione che impariamo a guardare alla realtà esterna non come a un dato immodificabile, che deve essere supinamente accettato e adorato, ma come il prodotto, dinamico e provvisorio, di una continua interazione fra noi e l'altro, e, prima ancora, fra noi e noi stessi.
Infatti, per poter agire efficacemente sulla cosiddetta realtà esterna, dobbiamo prima impegnarci a fondo per agire su noi stessi: non con la stanca rassegnazione di chi sa di doversi arrendere, prima o poi, all'inevitabile, ma, al contrario, con tutta la freschezza e l'energia di chi crede nei propri sogni, e sa che essi hanno una forza tale da poter diventare realtà.
Ecco perché dobbiamo imparare ad essere realisti: vale a dire, pretendere l'impossibile.