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Disoccupazione: com'è nata

di Massimo Fini - 11/11/2009

 

Tutti i reggitori dei Paesi industrializzati dichiarano che l'economia mondiale è in sia pur lenta ripresa, ma che la disoccupazione aumenta in modo vertiginoso. Come l'economia possa essere in ripresa proprio mentre sta mettendo sul lastrico milioni di persone si spiega solo col fatto che l'economia di mercato non ha nulla a che fare col benessere delle popolazioni, come dimostra anche l'esperienza degli Stati Uniti, il paese più ricco del mondo dove da decenni ci sono 35 milioni di poveri, un terzo degli abitanti.
La disoccupazione è un prodotto dell'attuale modello di sviluppo. Appare per la prima volta con la Rivoluzione industriale, partita dall'Inghilterra di metà del XVIII secolo e poi esondata su tutto l'universo mondo. Prima, nell'Europa preindustriale, medioevale non esisteva. Per la semplice ragione che ognuno, contadino o artigiano, viveva del suo e sul suo. Anche i famigerati servi della gleba, la parte più bassa e peraltro marginale della popolazione agricola, è vero che non potevano lasciare i campi del padrone, ma non ne potevano nemmeno essere cacciati. Non esistevano ancora quelli che Nietzche ha chiamato gli "schiavi salariati" (cioè noi). Quella società, a differenza della nostra che ha come stella polare quella "competizione" che, esasperata dalla globalizzazione, ci sta portando tutti, popoli del Primo e del Terzo Mondo, al fosso, era basata sulla "cooperazione". «In campagna» scrive lo storico Giuseppe Felloni «le terre sono distribuite con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficienza economica, mentre quelle per loro natura inadatte alla coltivazione (boschi, pascoli, paludi) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti precisi... le terre... per consentire il libero accesso di quanti usufruiscono degli usi civici, devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie». È il regime delle "terre aperte" (open fields) che reggerà per secoli il delicato ma straordinario equilibrio del mondo agricolo medioevale, fino a quando con la rivoluzione parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, si permise ai grandi proprietari terrieri di recintare i loro campi (enclosures), il che consentì sicuramente di aumentarne la produttività ma buttò milioni di contadini alla fame, pronti a servire da carne da macello per le fabbriche dell'incipiente industrializzazione.
Nel settore artigianale sono posti limiti severissimi alla concorrenza. Negli Statuti si leggono prescrizioni per noi oggi inconcepibili: «non togliere agli altri alcuno dei suoi clienti»; «nessuno deve allontanare i clienti dal negozio altrui né distoglierli dall'acquisto con cenni o gesti». Anche la pubblicità, la sovrana assoluta del nostro tempo, il motore di tutto il modello, è malvista: perché è considerata concorrenza, per giunta sleale, e comunque segno di un inqualificabile cattivo gusto.
Insomma a ogni nucleo familiare, lavorasse sui campi o nelle botteghe, doveva essere assicurato lo spazio vitale. Sembrava un sistema ragionevole. Ma non era razionale. Non era efficiente. E l'abbiamo abbattuto.