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L'Italia combatte in Afghanistan per il prestigio degli Stati Uniti

di Roberto Zavaglia - 27/11/2009

 

Sarà davvero interessante sentire le argomentazioni del governo in merito all’aumento delle truppe italiane in Afghanistan, se, come ha promesso il ministro della Difesa La Russa, la questione verrà discussa in Parlamento. La decisione sembra già presa, anche se non si conoscono i tempi operativi e l’entità dei rinforzi. Berlusconi, mercoledì scorso, ha confermato a Obama e al segretario generale della Nato Rasmussen che il nostro Paese non si sottrarrà ai doveri imposti dal “surge” afgano. Forse, ne sapremo di più al termine del vertice dei ministri degli Esteri della Nato, in programma tra il 3 e il 4 dicembre, anche se per sapere il numero aggiuntivo dei soldati dei vari Paesi bisognerà, probabilmente, attendere qualche giorno, quando, sempre a Bruxelles, si svolgerà la Conferenza dell’Alleanza Atlantica sui rinforzi in Afghanistan.
  Obama, fresco vincitore del premio Nobel per la pace, ha dunque deciso l’escalation della guerra. Non è stata una scelta facile. Nella stessa Amministrazione i pareri erano diversi, con il vicepresidente Biden che si opponeva all’invio di altre truppe chiesto dal comandante sul campo, il generale McCrystal, sostenendo che bisognava disimpegnarsi dalla guerra contro gli insorti per concentrarsi nell’attacco alle basi di al Qaeda con bombardamenti mirati e incursioni di forze speciali. Alla fine, il presidente Usa si sarebbe risolto a inviare un numero di soldati oscillante tra i 30 e i 34mila, solo poche migliaia in meno di quelli invocati da McCrystal. I militari statunitensi sul campo arriverebbero, pressappoco, a 100mila, mentre agli europei, che ora sono 36mila, viene chiesto di mandarne circa 5mila. A questi bisogna aggiungere i contingenti degli altri Paesi che partecipano alla missione Isaf e, soprattutto, l’esercito afgano. I militari afgani, tra esercito e polizia, dovrebbero passare, in qualche anno, dall’attuale numero di 180mila a quello, strabiliante per un Paese come l’Afghanistan, di 400mila.
  Si penserebbe che una macchina da guerra di queste dimensioni, disponendo delle più sofisticate e micidiali tecnologie militari, debba avere in breve la meglio sui talebani che combattono, per lo più, con armi leggere e bombe rudimentali. Gli stessi analisti militari Usa, invece, prevedono che l’ invincibile Armada afgana servirà solo a non far peggiorare la situazione sul campo, procurando al governo di Karzai il tempo necessario per allestire un esercito sufficiente a cavarsela da solo. E’ la cosiddetta afganizzazione del conflitto che, arrestando l’avanzata degli insorti, dovrebbe consentire il disimpegno progressivo delle forze occidentali. Per fiancheggiare i combattenti “ufficiali”, i comandanti Usa stanno ingaggiando una serie di bande armate tribali che svolgano lo stesso compito assolto, in Iraq, dalle milizie sunnite impiegate contro le forze jihadiste. 
  In un Paese come l’Afghanistan, diviso da secolari rivalità etniche e tribali, dove ogni capo villaggio ha a disposizione uomini armati, non è difficile, pagandoli bene, radunare un bel po’ di miliziani collaborazionisti i quali, però, tenderanno a difendere gli interessi della propria fazione, prevaricando quelle nemiche. Gli Usa rischiano di lasciare in eredità all’Afghanistan la perpetuazione di quella guerra civile che aveva, alla fine, facilitato l’affermazione dei talebani che  si erano presentati come l’unica forza in grado di riportare la pace. Davvero un bel risultato per chi parlava di instaurazione della democrazia, di diritti delle donne e di altre simili amenità.
  In ogni caso, quando le forze occupanti se ne andranno, è probabile che la spuntino ancora i talebani, che saranno esacerbati dall’avere dovuto combattere contro altri afgani pagati dagli stranieri. Le conseguenze sul piano della convivenza civile si possono facilmente immaginare. Al “pacifista” Obama, però, queste considerazioni non interessano. A lui preme salvare il prestigio proprio e del suo Paese. In campagna elettorale, l’allora candidato democratico aveva più volte proclamato che l’Afghanistan era la guerra giusta, da vincere ad ogni costo. Oggi, sembra accontentarsi di non subire una disfatta che sarebbe un’ulteriore onta per la già ammaccata reputazione statunitense. In pratica, i comandi Usa hanno scelto di intensificare, per un numero di anni imprecisato, un conflitto che sanno di non potere vincere. I sovietici persero in Afghanistan 15mila soldati, senza riuscire a controllarne mai più di un quinto del territorio. Alla fine, dovettero andarsene, incassando una sconfitta che contribuì ad accelerare la dissoluzione dell’Urss.
  E’ quel genere di disfatta, tale da mettere in crisi un disegno imperialistico, che gli Usa, oggi, cercano di evitare, chiedendo agli alleati di inviare altri soldati senza un obiettivo preciso, in attesa di “tempi migliori”. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha ammesso che Washington non mira più a cambiare il Paese, instaurando la democrazia, ma solo a combattere il terrorismo. Se fosse vero, ci sarebbero altre strade rispetto all’escalation generale del conflitto, anche perché l’Afghanistan non è una nazione dalla quale eventuali terroristi potrebbero nuocere più di tanto agli Stati Uniti. Gli  attentati dell’11 settembre, secondo la versione ufficiale, sono stati organizzati in Europa. L’unica, ormai difficilissima, via di uscita, per gli Usa, sarebbe, invece, quella di favorire una riconciliazione nazionale, promettendo ai talebani di sparire il prima possibile, in cambio della loro partecipazione a un governo di coalizione.
  I rinforzi che gli europei concederanno non saranno decisivi sul piano militare, ma, per Washington, sono importanti politicamente. Il bubbone afgano deve essere un problema dell’Occidente e non dei soli Stati Uniti. Quello che ci viene chiesto è di farci coinvolgere ancora di più in un disastro causato da errori altrui. Berlusconi, che con il “partito occidentalista” ha già i suoi problemi per via dei rapporti di amicizia con Mosca, non si sottrarrà alle richieste di Obama, sperando che il nostro contingente non subisca perdite tanto numerose da metterlo in difficoltà. Per adesso, i 21 caduti italiani, in quasi otto anni di presenza, non sono stati sufficienti a turbare più di tanto la pubblica opinione. Niente, però, ci assicura che le perdite non possano aumentare, soprattutto se, in conseguenza del previsto incremento delle operazioni belliche, le nostre truppe fossero più coinvolte nei combattimenti.
  L’egemonia mondiale Usa è incrinata, ma ha ancora, evidentemente, un forte potere di condizionamento se gli europei si lasciano ulteriormente coinvolgere in un conflitto insensato. In una guerra che si trascina senza fine, nessuno, nei governi occidentali, sembra preoccuparsi delle  conseguenze subite dal Paese dove si combatte. Il militarismo nichilista ha ormai sostituito il militarismo umanitario dell’esportazione della democrazia.