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Fermenti di antimodernità

di Luciano Fuschini - 03/12/2009

   



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Quella che in termini gramsciani potremmo definire l’egemonia culturale del progressismo scientista e “sviluppista”, a ben vedere comincia a mostrare crepe vistose. Sono visibili fermenti che possono preludere a una svolta reazionaria. Chiariamo subito il significato dei termini, operazione sempre doverosa per evitare equivoci. Reazionario non è affatto sinonimo di conservatore. Conservatore è chi vuole mantenere lo stato di cose vigente; il reazionario vuole cambiarle appellandosi ai valori del passato, o meglio a ciò che deve restare costante pur nel divenire; il progressista vuole cambiarle in nome di un futuro immaginato diverso e più avanzato rispetto a tutto ciò che la storia ha precedentemente prodotto. La misura del cambiamento, qualora sia radicale, può far parlare di rivoluzione sia nella prospettiva reazionaria che in quella progressista.
Considerando che il crollo dell’Impero sovietico è stato più un’implosione, un’autodissoluzione, che una rivoluzione, l’ultima grande rivoluzione politica del Novecento è stata quella khomeinista in Iran, una rivoluzione reazionaria. Il progressismo, il laicismo, l’adesione ai modelli di vita occidentali, erano stati il segno distintivo del regime monarchico che fu rovesciato da un compatto moto popolare guidato dal clero tradizionalista, nel nome dei valori antichi dell’Islam. Una rivolta popolare che richiama alla mente quella dei vandeani durante la rivoluzione francese, quella dei sanfedisti nell’Italia e nella Spagna napoleoniche (in Spagna gli insorti gridavano “abbasso la libertà!”, visto che i francesi invasori si dicevano portatori della libertà contro clero e aristocrazia), quella dei “briganti” nel meridione d’Italia aggregato a viva forza alla liberal-progressista monarchia sabauda, quella del movimento mujahid nell’Afghanistan “liberato” dai sovietici (che dicevano di aver portato il progresso, il socialismo e l’emancipazione delle donne, come la NATO oggi, con la variante della democrazia al posto del socialismo) e quella dei talebani nell’Afghanistan odierno. Lotte su cui grava lo sprezzante giudizio degli storici accademici ma che, con tutte le loro ambiguità e strumentalizzazioni da parte di altre potenze straniere che cercavano di approfittare della situazione per indebolire la potenza rivale, avevano una carica di passioni vitali e di valori autentici. Fu una lunga serie di sconfitte, cui deve aggiungersi la tragedia della vana resistenza delle popolazioni indigene travolte dal colonialismo, perché la modernità industrialista era nella sua fase di piena espansione. Oggi è significativo il fatto che il vitalismo reazionario della rinascita islamica appaia tutt’altro che perdente.
Nel nostro Occidente da alcuni decenni si consolidano movimenti localistici la cui ispirazione ideale profonda è sanamente reazionaria: recupero delle radici culturali, ritorno alla terra e all’artigianato, senso della comunità solidale.
Sono ormai una realtà profondamente radicata i movimenti ecologisti, col loro sviluppo più recente in direzione della Decrescita. Anche in essi ribollono fermenti di antimodernità, di cui dovrebbero essere più coerentemente consapevoli.
Insomma, c’è un terreno fertile e già dissodato su cui innestare la pianta dell’antimodernità. Non dobbiamo sentirci isolati e incompresi.
Sia ben chiaro: abbiamo ben poco da spartire con il truce fanatismo islamista. Semmai potremmo interloquire col cattolicesimo tradizionalista, invitandolo a liberarsi del perbenismo quietista e conservatore, per recuperare lo spirito del Cristo che scacciava i mercanti dal tempio e del profetismo apocalittico scagliato contro ogni acquiescenza ipocrita.
Abbiamo ben poco da spartire col leghismo alleato di Berlusconi, becero e razzistoide. Però in quell’area ci sono fermenti di rivolta e confuse esigenze suscettibili di sviluppi in senso antimoderno, quando le attese sul federalismo fiscale e sulla carica innovativa dell’attuale governo si saranno dissolte.
Abbiamo poco da spartire con un ambientalismo e una decrescita tuttora egemonizzati da un sinistrismo progressista, illusi che pensano di affidarsi ancora alla Tecnica, quella “buona” capace di produrre energia pulita, senza rendersi conto che l’inquinamento più letale è quello che sta desertificando le menti. Tuttavia in quell’area c’è la possibilità di lavorare per far crescere la consapevolezza che una lotta coerente contro la devastazione ambientale comporta la messa in discussione di tutta una filosofia modernista dalle radici plurisecolari.
Ci sono le condizioni per la critica di tutte le fondamenta, economiche e ideali, del progressismo e dell’industrialismo. C’è da recuperare il grande filone culturale del pensiero reazionario, che va liberato dal pregiudizio in gran parte errato della sua compromissione col fascismo. Ci sono le condizioni perché i ribelli dell’antimodernità non disperino.