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Quando gli italiani erano schiavi

di Uriel - 04/12/2009

Fonte: wolfstep

Come promesso, scrivo un post su quanto successe a Marcinelle, perche’ sembra che si fatichi a pensare un italiano schiavo , visto ed usato come schiavo, e ci si illude molto riguardo alla benevolenza e alla bonta’ che le altre nazioni europee avrebbero mostrato  verso i nostri emigranti. Andiamo nel dettaglio, ma prima occorrono alcune premesse storiche. (Ringrazio il buon Paolo per i link che mi ha fornito.)

 

Alla fine della seconda guerra mondiale, gli americani si chiesero in che modo tenere stabile l’europa occidentale. Il loro problema era che qualsiasi disomogeneita’ forte o qualsiasi conflitto avrebbero potuto venire sfruttati dai sovietici , che sarebbero cosi’ avanzati. In pratica, temevano che in una eventuale guerra tra, che so io, la Spagna di Franco e l’Italia, una delle due nazioni potesse allearsi con l’ Urss. O temevano che una fortissima differenza di ricchezza tra Francia e Italia o forti tensioni sociali all’interno delle singole nazioni potessero venir utilizzati come pretesto per una rivoluzione.

Conclusero che tutto il problema dell’europa veniva dalla distribuzione di carbone ed acciaio, e iniziarono a ideare ed imporre una struttura che poi divenne l’embrione della CEE, in seguito UE: la CECA. Lo scopo ti tale accordo era di garantire che tutte le industrie d’europa potessero godere di acciaio e carbone.

Ovviamente c’erano dei prezzi da pagare, e c’era chi li pagava in un modo e chi in un altro. All’italia, essendo il paese sconfitto, fu imposto di pagare in schiavi. Dico “schiavi” perche come vedremo oltre all’emigrazione che conosciamo, quella dei poveri che prendevano la valigia di cartone, c’era quella organzzata dalle nazioni. Coi vagoni piombati, come vedremo dai documenti.

Un flusso importante di treni piombati carichi di emigranti italiani era quello diretto in Belgio, dove c’erano miniere di carbone in una regione pianeggiante, sostanzialmente dei pozzi scavati in verticale. Pericolosissimi e poco efficienti, dunque occorreva risparmiare sulla manodopera.

Punto primo: come avveniva l’arruolamento ed il trasporto degli schiavi.

Il Primo Ministro belga Van Hacker, alla fine del conflitto lanciò la “battaglia del carbone”, riuscì  a promuovere una convenzione con il Governo italiano  ed il 23 giugno del 1946 venne firmato l’accordo che prevedeva l’acquisto di carbone a fronte dell’impegno italiano di mandare 50.000 uomini da utilizzare nel lavoro di miniera. Non meno di duemila uomini a settimana, centomila alla fine dell’anno. E così tra il ‘46 e il ‘57 arrivarono in Belgio 140mila uomini, 17mila donne e 29mila bambini. “I musi neri”, com’erano chiamati i lavoratori italiani a causa della polvere di carbone che ricopriva i loro corpi, venivano avviati a un lavoro pericolosissimo, privi di ogni preparazione e alloggiati in strutture fatiscenti. Trattati come bestie, erano costretti a lavorare in cunicoli alti appena 50 centimetri. Quell’accordo fu chiamato  “UOMO -CARBONE”. Nei comuni italiani iniziarono a comparire dei manifesti che informavano della possibilità di questo lavoro e in cui c’era scritto che un franco belga equivaleva a 12 lire italiane. Ma per quanto riguarda le mansioni effettive, diceva molto poco. Secondo l’accordo tutti i minatori in partenza dovevano confluire a Milano dove i medici avrebbero fatto dei controlli di tipo militare. Molti provenivano dal Sud Italia  alla ricerca di una vita migliore. Il viaggio in treno verso il Belgio durava tre giorni e tre notti. Non c’erano vagoni degni di tale nome, né servizi igienici, molti si sentivano come se stessero viaggiando in un carro bestiame. Uno dei testimoni racconta che, arrivati a Charleroi, vennero portati in una caserma con dei camion, dove rimasero in piedi per molte ore, senza nemmeno una coperta per ripararsi dal freddo, ed era  inverno.

Questo il fatto: viene firmato un accordo tra governi, e il governo degli sconfitti deve mandare schiavi in belgio. Cosi’ vengono irretiti mediante una propaganda fasulla, ingannati ed inviati a fare gli schiavi.

Gli alloggi erano delle baracche che pochi anni prima erano stati dei lager tedeschi per i prigionieri sovietici, e poi, quando le sorti della guerra si capovolsero, per gli stessi prigionieri tedeschi. Ora erano dei “volontari” italiani a occuparli. Oltre alle baracche vennero utilizzate anche delle cantine: queste costavano circa 500 franchi alla settimana.
Molti, dopo alcuni mesi, vollero tornare nella loro terra dove erano sì poveri, ma dove almeno potevano respirare aria buona. A legarli però c’era il contratto: questo infatti prevedeva cinque anni di miniera, con l’obbligo di farne almeno uno: chiunque avesse chiuso il contratto sarebbe stato arrestato. Poiché nel carcere, il Petit-Chateau (oggi diventato, per ironia della sorte, un centro di accoglienza per i profughi), si moriva di fame, erano in molti ad arrendersi e a tornare a lavorare

In pratica, non si tratta di una emigrazione “normale”: ad un paese sconfitto viene imposto un trattato, vengono organizzati dei treni coi vagoni piombati, che portano la gente (che credeva di andare ad emigrare) dentro dei veri e propri campi di lavoro. Bambini compresi.

Certo, gli italiani emigravano anche in Germania, America e altrove: ma andavano alla fortuna. Ovvio che ad alcuni sia andata male, ma non erano infilati in un campo di lavoro, e specialmente non erano vincolati ad anni di miniera dalla legge.

Quali fossero le condizioni di lavoro degli italiani e’ abbastanza noto, per via degli atti di processo e delle dichiarazioni dei sindacalisti.

La vetustà dei pozzi viene indicata in un rapporto dei sindacati come causa principale della catastrofe. Inoltre il pozzo, scavato per alcuni decenni, doveva produrre dalle 100 alle 200 tonnellate di carbone, ma nel 1956 se ne estraevano 800 tonnellate. Il segretario generale delle miniere della FGTB si esprimeva in questi termini: un puits de ce diamètre ne peut renfermer toutes les tuyauteries, les câbles, les balances, etc. et assurer en même temps la vie des mineurs (Un pozzo di questo diametro non può contenere tutti i cavi, tubi, bilance, ecc., e assicurare anche la vita dei minatori).(1)

L’evidenza della disparita’ di trattamento tra i minatori italiani e quelli belgi fu tale che il governo italiano rescisse completamente l’accordo con il Belgio. Il risultato fu che i belgi rimasero senza schiavi, e molti italiani tornarono a casa, in uno strano fenomeno di riflusso.Che cosa fecero allora i Belgi? Sostituirono le scimmie italiane con altre scimmie:

In 1946, the Belgian and Italian governments signed a pact to ship in Italian labour to work in the mines. The Italians came in huge numbers, though they were greeted with prejudice and much harshness. Then came a terrible mining disaster at Marcinelle in 1956, when 262 miners were burned to death in an underground fire, more than half of them Italians. Evidence of poor safety standards set off a political scandal in Italy of such dimensions that the 1946 migration agreement was scrapped by the government in Rome.

At the risk of over-simplifying the history of others, it is commonly said in Belgium that the Marcinelle fire was the start of mass immigration from Muslim countries like Morocco and Turkey, as Belgian employers and authorities suddenly found it much harder to recruit Italians (and found themselves competing with other western countries for Spaniards, Greeks and Portuguese). The focus quickly shifted south: Belgian recruitment offices opened in major Moroccan towns, and a campaign promoting the opportunities in Belgium was launched. A bilateral accord was signed in 1964, streamlining labour migration from Morocco to Belgium.(2)

Faccio notare che NON hanno migliorato gli standard, o cambiato le condizioni di lavoro: hanno semplicemente cercato altri schiavi.

Che la cosa fosse organizza dal governo belga e non si trattasse di una migrazione spontanea tra una zona povera ed una “naturalmente ricca e’ noto”:

A fronte di questa favorevole opportunità di attenuazione della disoccupazione e di approvvigionamento energetico stava, però, ciò che tanto la propaganda immigratoria belga, quanto quella emigratoria italiana preferivano tacere, vale a dire le drammatiche condizioni di vita nei bacini industriali del Belgio e di lavoro nelle strutture ormai logore della sua industria estrattiva, la cui agonia era solo apparentemente mascherata dall’accentuata fase di domanda di carbone durante la guerra e nella peculiare congiuntura della ricostruzione europea. In realtà la macchina dell’industria mineraria nei bacini meridionali del Belgio era mantenuta artificialmente in vita dall’intervento e dalle sovvenzioni del governo, ma venne rapidamente sopraffatta dalla caduta dei prezzi del carbone nei mercati mondiali alla fine degli anni ’(3)

In definitiva, i lavoratori venivano ingannati con false promesse (contrariamente a quanto avveniva per altri paesi ove gli emigrati arrivavano con le speranze e/o con il contatto di un parente o di un amico gia’ emigrato, caricati su treni di stato e inviati nelle baracche.

La cosiddetta «battaglia del carbone» era stata lanciata nel febbraio del 1945 dal primo ministro Achille Van Acker, con l’obiettivo di convincere il maggior numero di cittadini belgi a scendere nei pozzi ed a «tornare» a lavorare in miniera, ma la propaganda governativa non era riuscita ad ottenere i risultati sperati. Nonostante le minacce di coscrizione obbligatoria, gli incentivi e le vantaggiose condizioni proposte dallo «Statut de mineur» – miglioramento di salari, pensioni, ferie, costruzione di nuove case operaie – i belgi non erano infatti più disposti a scendere nelle miniere, sia per la durezza del lavoro, sia soprattutto per la sua pericolosità.

Faccio notare la differenza di trattamento: per invogliare i belgi pensioni, ferie, case, salario. Gli Italiani lavoravano chiusi nelle baracche usate per i prigionieri di guerra, non avevano pensione, niente ferie, etc. Tra parentesi, c’erano altri lavoratori dentro quella miniera, ed erano proprio…. prigionieri di guerra tedeschi!

Silvio Di Luzio, classe 1926 di Torricella Peligna, è l’unico reduce della squadra di salvataggio che si calò nella miniera in fiamme. Riuscì a salvare tre minatori. Altri tre li portarono in salvo i suoi colleghi dell’altra squadra. Poi le fiamme avvolsero anche il secondo montacarichi della miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, un sobborgo della città mineraria di Charleroi. E da quel buco scavato fino a 1035 metri, nelle viscere della terra, non uscirono che cadaveri.

Il re dei belgi rimase sorpreso dal coraggio di questo abruzzese. E come riportano le cronache dei giornali del tempo, in italiano durante il pranzo reale gli chiese in italiano: «Non hai avuto paura?» E lui: «Sì, all’inizio sì, ma poi non ci ho pensato più dovevamo salvare i nostri amici». «Bon courage» esclamo Baldovino salutando quel partigiano della Brigata Maiella, finito a lavorare in una miniera fianco a fianco coi prigionieri tedeschi, che fino a pochi mesi prima aveva combattuto sulle montagne abruzzesi e poi via via fino a Bologna.(4)

Ripeto: non era una normale emigrazione, ma una forma di deportazione.

Ancora:

E come seppe che in Belgio cercavano uomini?
«Da un manifesto che misero in paese. Lì si diceva che chi veniva in Belgio avrebbe trovato un lavoro e sarebbe diventato ricco. Io avevo 20 anni. Mi sembrava un sogno. Leggendo il manifesto, che in verità non diceva proprio che saremmo diventati ricchi, mi feci l’idea che quella era la mia grande occasione: fare il minatore ed essere pagato ogni mese».

E cosa fece una volta letto il manifesto?
«Mi iscrissi nella lista di chi voleva andare a lavorare in Belgio. A Torricella in 38 fecero come me. Tutti giovanissimi. Mo’ sono tutti morti, chi nelle altre miniere e chi per gli acciacchi di quel lavoro da bestie che abbiamo fatto allora. Io ringrazio la madonna. Sono vivo. Ho una famiglia. Figli sistemati. La femmina, Anna Maria e il maschio Giuseppe che è diventato ingegnere. Lavora in Venezuela come rappresentate di macchinari di una grande fabbrica Belga. Io è mia moglie, si chiama Ida D’Amico, è di Torricella pure lei, viviamo qui con la pensione belga e una miseria che mi arriva dall’Italia».

Torniamo a quei giorni. A quel 1946. Come partì da Torricella?
«In paese ci vennero a prendere con un camion. Salimmo sul ribaltabile in 38. Il treno alla stazione di Chieti. Le visite mediche a Milano. Poi l’arrivo qui e subito la miniera».

Come vi accolsero i belgi, allora?
«Male. Anzi malissimo. Ci sputavano in faccia. Ci accusavano di essere fascisti. Ci accomunavano ai tedeschi, che durante la guerra qui in Belgio ne hanno combinate parecchie. Noi come loro dormivamo dentro un ex lager. La sola differenza tra noi e loro è che noi in teoria potevamo uscire dal campo. Eravamo persone libere, in teoria In pratica era impossibile. Quelle baracche erano sottilissime e l’inverno, che qui è lungo, passava di tutto. “Nu fredd!”».

Come si lavorava in miniera, cosa avevate?
«Una pala. Una piccozza. Un elmetto, tipo quello degli inglesi, con un lume. Non c’era nessuna maschera. E avevamo qualcosa addosso. La temperatura nei cunicoli era di 40-60 gradi. Si sudava come non si può neanche immaginare. Era faticoso pure a respirare. Si scavavano cunicoli alti poco più di mezzo metro, noi minatori ci entravamo a testa in giù. A volte non il sangue ti batteva dentro la testa da non poterne più. Poi una volta scavato un metro o i cunicoli li puntellavano. Così mano a mano che si avanzava. Poi c’erano le gallerie di collegamento ai cunicoli che erano più grandi. Lì ci passavano passavano i carrelli per trasportare il materiale scavato a mano. I primi anni che eravamo in Belgio per trainare quei carrelli sotto le gallerie si usavano i cavalli. Che vivevano così per tutta la loro vita la sotto bendati».

[...]

L’altro ricordo?
«Troviamo una porta di legno frangi fuoco chiusa(dopo l’incidente). Riusciamo ad aprirla e dentro troviamo un minatore, ma che dico minatore era un bambino di quindici anni che si era rifugiato tra le braccia di un suo collega adulto prima di morire con lui. In quel momento quel minatore è tornato quello che era davvero, un bambino. Quante volte ho sognato quel bambino-minatore. Quante volte».

Attenzione, pero’, perche’ qui ci stiamo focalizzando molto sull’incidente principale, che uccise 200 persone (non tutti italiani), ma il dato complessivo era di 900 italiani morti dentro quella miniera dal 1946 al 1956. Novanta ogni anno, uno ogni quattro giorni.

E ancora, dagli atti del processo : “All the defence’s engineer expert witnesses told the court that this was not known to be a danger when the accident happened, and the court uncritically accepted this claim. The ECSC experts took the same line. When questioned by the presiding judge, a prosecution witness said “It has been known for 55 years that split oil is ignited by a spark. The diesel engine is proof of that”. The presiding judge pressed on: “Yes, but was it known that oil burned before le Cazier?”. The witness’ reply was as scathing as it was unavailing: “Your Honour, I have just come back from Greece, where I saw oil lamps that were over 4000 years old!”. The trial court’s decision to acquit makes express mention of the mutual professional protectionism between the engineers, whom it places beyond criticism “having found that scientifically knowledgeable and skilled engineers would have acted as did the accused”.”(5)

La stagione migratoria del dopoguerra era stata aperta dall’accordo bilaterale del 1946, che prevedeva la «deportazione economica» verso il Belgio di centinaia di migliaia di italiani. La debolezza della cooperazione tra i due governi nella gestione del fenomeno migratorio fu evidente sin dall’entrata in vigore del trattato, che registrò da subito una percentuale di rimpatri molto alta tra i contingenti di emigranti, sebbene la quantità di partenze restasse altissima,come dimostrano i flussi dell’emigrazione italiana in Belgio. Che l’accordo bilaterale fosse composto da un insieme di provvedimenti squilibrati, a svantaggio del governo italiano e soprattutto dei lavoratori immigrati è cosa ampiamente dimostrata dalla storiografia(5) Già nei meccanismi e nelle pratiche del reclutamento erano infatti contenute le fondamenta della direzione belga dell’intero apparecchio migratorio. Ufficialmente, erano gli uffici di collocamento dei singoli comuni a doversi occupare della ricerca – di preferenza fra i disoccupati iscritti – dei candidati per l’emigrazione, la cui età massima era fissata tra 35 e 40 anni. Le offerte di impiego pervenivano loro dal Ministero del lavoro, che li riceveva direttamente dai datori di lavoro belgi. Nella pratica vedremo come le singole miniere avessero organizzato un sistema parallelo di reclutamento sul posto che permetteva loro di privilegiare candidati politicamente inoffensivi ed originari di regioni precise.
In entrambi i casi, i candidati prescelti venivano sottoposti ad una prima visita medica presso l’ufficio sanitario del comune di residenza. I futuri emigranti venivano poi inviati presso l’Ufficio provinciale del lavoro per un’ulteriore visita di controllo che certificasse l’adattabilità dei candidati ai lavori di fondo. I lavoratori la cui candidatura era ritenuta valida erano allora inviati al Centro per l’ emigrazione in Belgio di Milano, ubicato nei sotterranei della stazione centrale. Lì sostavano qualche giorno, in condizioni di totale promiscuità, in attesa dei convogli settimanali e prima di tutto della decisone finale che seguiva all’ulteriore visita della Mission belge d’immigration e al controllo incrociato della polizia belga e italiana. Teoricamente la Sûreté belge, che operava a Milano, non poteva operare apertamente nel senso di una selezione personale degli individui, ma nella realtà molti lavoratori agricoli che avevano partecipato all’occupazione delle terre vennero rinviati al Ministero Italiano del lavoro come «indesiderabili». Secondo Fédéchar la selezione dei lavoratori doveva infatti garantire che questi ultimi fossero, oltre che «elementi tecnicamente capaci» e fisicamente adatti al tipo di lavoro al quale erano destinati, anche adeguati all’ambiente in cui avrebbero dovuto vivere e confacenti a «rappresentare degnamente» i lavoratori italiani all’estero.
Anche per ovviare a questa selezione che veniva contestata dalle autorità italiane, gli intermediari delle miniere che operavano direttamente in Italia avevano optato, al fine di assicurarsi una manodopera calma e affidabile, per il reclutamento degli emigranti nei villaggi attraverso il filtro delle reti parrocchiali e delle raccomandazioni delle opere vaticane. Anche nel corso del viaggio verso i bacini industriali del Belgio, che poteva durare quasi 52 ore, gli immigrati erano scortati da agenti in incognita incaricati di individuare gli elementi agitatori. Al momento dell’arrivo in Belgio venivano poi scaricati sui binari riservati ai treni merce e convogliati nei diversi charbonnages su autocarri solitamente utilizzati per il trasporto del carbone. Qui erano sottoposti all’ultimo, definitivo, esame da parte del responsabile medico della miniera. Nel caso l’immigrato fosse dichiarato inadatto al lavoro sotterraneo poteva essere occupato in superficie o convogliato verso altri settori industriali, ma nella maggior parte dei casi era dapprima rinchiuso nella caserma del Petit-Chateau di Bruxelles, poi rimpatriato. Quando invece l’operaio era ritenuto adatto al lavoro di fondo, il permesso di lavoro B, della durata di un anno rinnovabile, e che vincolava il lavoratore a cinque anni di attività ininterrotta nel settore minerario – pena l’espulsione dal Belgio – entrava in vigore, e con esso tutta una serie di problemi inattesi.(5)

 

Chi ha sostenuto che venissero trattati allo stesso modo dei belgi sta dicendo una fesseria inaudita:

Fino alla metà degli anni ’50 inoltre, il contratto tipo non prevedeva alcun periodo iniziale di formazione professionale, e i lavoratori italiani venivano spediti ad apprendere il mestiere direttamente al fondo, senza alcuna precauzione, né la conoscenza della lingua. Le conseguenze di questa inesperienza non erano solo psicologiche. A causa della loro scarsa qualificazione, i salari erano nettamente inferiori a quelli sperati: i minatori ricevevano infatti un salario composto da una parte fissa ed una parte proporzionale alla loro produzione, un sistema che, esortando gli operai all’aumento smisurato del rendimento, aumentava la pericolosità del mestiere di abatteur. Tra le altre principali delusioni erano le deprecabili condizioni in cui i minatori italiani in Belgio vennero inizialmente alloggiati. Raccolti nei campi di lavoro utilizzati per i prigionieri di guerra durante il conflitto, prostrati dalla durezza del lavoro e delusi dalle difficoltà nel pervenire ai guadagni promessi e sperati, molti immigrati non riuscirono a superare l’impatto con la miniera, venendo così segnalati alla polizia degli stranieri per rottura «ingiustificata» del contratto, mentre molti di quelli che riuscirono a superare il trauma dell’impatto iniziale si ritennero comprensibilmente «venduti» dall’Italia per qualche sacco di carbone.

A che cosa serve tutto questo post?

Serve a rappresentare la raccapricciante ipocrisia di chi si sottomette alle “nazioni piu’ avanzate” o a quelle che si ritengono “moralmente migliori”, o “piu’ dotate di principi civici”. I principi civici, cosi’ come l’essere “avanzati” non significano nulla di nulla. Il Belgio e’ la nazione che oggi (nonostante il generale che appoggio’ i massacri di Lumumba sia stato premiato con una medaglia) si atteggia a patria dei diritti umani (e relativo tribunale), in realta’ potrebbe essere soggetto ad un processo del medesimo tribunale; ma non succedera’ perche’ una certa “intellighenzia modaiola” ha deciso che alcuni popoli del mondo siano “ariani”, e che quando ci sputano in faccia fanno solo bene (dopotutto, se lo straniero fa bene a sputarci addosso oggi -come sostiene La Repubblica- perche’ abbiamo Berlusconi, beh, a maggior ragione poteva ridurre in schiavitu’ coloro che avevano avuto Mussolini) , finisce con il dare una patente di santita’ e un certificato di civilta’ assoluta a dei paesi che di fanno hanno costruito i loro campi di concentramento (no, a dire il vero: usavano quelli fatti dai tedeschi) e ci ficcavano dentro gli schiavi. E no, dopo Marcinelle successe che accordi analoghi vennero stipulati col Marocco, la Grecia ed altre nazioni; lo schiavismo in Belgio duro’ per un paio di decenni ancora.

Quei mentecatti che vanno in giro a dire che “l’Europa di critica per come trattiamo gli immigrati dovrebbero ricevere come risposta che LO SAPPIAMO BENE, invece, come li trattavano LORO”. Ed e’ proprio il fatto che NOI siamo un popolo di immigrati che di dovrebbe portare a NON accettare come giudici questi popoli che, a dire il vero, la levatura e l’autorevolezza per giudicare il trattamento agli immigrati NON SE LA SONO MAI GUADAGNATA SUL CAMPO.

Proprio il fatto che siamo stati un popolo di migranti, e nelle LORO nazioni, ci dovrebbe portare  a rispondere loro che NON ACCETTIAMO LEZIONI PROPRIO DA LORO!

Se dovessimo trattare gli immigrati come facevano i belgi, per dirne una, li avremmo rinchiusi in tanti campi di lavoro , gli avremmo INGIUNTO di fare solo alcuni lavori , e oggi non avreste 14.000 aziende di immigrati solo nel bolognese, come non ci potevano essere in Belgio, perche’ gli italiani NON POTEVANO che lavorare in miniera.

Questo vi puo’ spiegare molte cose dell’atteggiamento che hanno gli stranieri verso gli italiani: il fatto che il Belgio non appena persi i negri italiani si sia rivolto ad altre nazioni fa capire bene la gerarchia dei popoli che questa gente ha in mente. Faccio notare che dopo il fallimento dell#affaire Opel qui in Germania, questi signori si stanno beccando 9000 licenziamenti, mentre se avessero chiuso in fretta gli accordi con Fiat (anziche’ temporeggiare aspettando che Magna tirasse fuori la lira) , oggi di licenziamenti ne avrebbero molti di meno, cioe’ i 2700 previsti dal piano industriale.

Ma quel “no, agli italiani no” che ho letto sulla prima pagina del loro Bild, e’ ancora impresso nelle loro menti.  E’ logico: nella loro gerarchia dei popoli, la scaletta vede gli ariani nordeuropei sopra tutti, e sotto ci sono gli altri, che potranno anche svilupparsi a avere una lora industria, ma rimangono… italiani.Ma se questo dimostra un complesso di superiorita’ da parte degli altri paesi, esso mostra la miopia della nostra classe politica: essi ritengono che l’europa sia il posto della giustizia e dell’equita’, dimenticando che gli altri paesi, se potessero, ci infilerebbero tutti a morire nelle miniere.

I Belgi confinavano con una nazione distrutta dalla guerra, e avrebbero facilmente trovato lavoratori anche tra le macerie della Germania postbellica; ma la loro attenzione si rivolge prima all’Italia e poi a Grecia e Marocco. La gerarchia dei popoli che avevano in mente e’ chiara.

E voi, quando vi gettate tra le loro braccia amorevoli, non state facendo altro che confermarla.

 

(1)http://www.asei.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=140&Itemid=250#_ftn14

(2)http://www.economist.com/blogs/charlemagne/2009/11/immigration_europes_dark_past

(3)http://www.storicamente.org/07_dossier/emigrazione-italiana-in-belgio.htm

(4)http://www.torricellapeligna.com/News-16english-italian.htm

(5)http://www.storicamente.org/07_dossier/emigrazione-italiana-in-belgio.htm#_ftnref12