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La festa e finità?

di Serge Latouche - 09/12/2009

 

Perché dovrei preoccuparmi della posterità ? -diceva Marx (non Karl, ma Grouco)-
Forse la posterità si è preoccupata di me ? Effettivamente si può pensare che per
l'avvenire non valga la pena di tormentarsi per assicurarsi che ci sia e che sia meglio
dar fondo il prima possibile al petrolio e alle risorse naturali piuttosto che
avvelenarsi l'esistenza con il razionamento. Questo punto di vista è assai diffuso
nelle èlites, e si può comprenderlo, ma lo si trova anche implicitamente in un gran
numero di nostri contemporanei. Oppure, come scrive Nicholas Georgescu-Roegen:
<Forse il destino dell'uomo è di avere una vita breve ma febbrile, eccitante e
stravagante, piuttosto che un'esistenza lunga vegetativa e monotona> [Nicholas
Georgescu-Roegen, >La decroissance> edizioni Sang de la terre, 2006].
Certo bisognerebbe che la vita dei moderni super-consumatori sia veramente
eccitante e che, al contrario, la sobrietà sia incompatibile con la felicità e anche
con una certa esuberanza gioiosa. E poi anche...Come dice molto bene Richard
Heinberg: <Fu una festa formidabile. La maggior parte di noi, almeno quelli che hanno
vissuto nei paesi industrializzati e non hanno quindi conosciuto la fame, hanno
apprezzato l'acqua calda e fredda dal rubinetto, le auto a portata di mano che ci
permettono di spostarci rapidamente e praticamente senza fatica da un posto
all'altro, o ancora altre macchine per lavare i nostri vestiti, che ci divertono e ci
informano, e così via>. E allora? Oggi che abbiamo dilapidato la dote <dobbiamo
continuare a compiangerci fino alla triste fine, e coinvolgere il grosso del resto
del mondo nella caduta ? Oppure bisogna riconoscere che la festa è finita, fare
pulizia dietro di noi e preparare i luoghi per quelli che verranno dopo ?> [Richard
Henberg, <Pètrole la fètè est finie! Avenir des sociètès industrielles après le pic
pètrolier>, edizioni Demi Lune, Paris 2008]. Si può anche giustificare l'incuria
sul futuro con ogni tipo di ragioni, non necessariamente egoiste.
Se si pensa a come Schopenauer, che la vita è un affare in perdita, è quasi una forma di
altruismo, vuol dire risparmiare ai nostri figli il mal di vivere. La via della
decrescita si basa su un postulato inverso, condiviso dalla maggior parte delle
culture non occidentali: per misteriosa che sia, la vita è un dono meraviglioso. Ed è
vero che l'uomo ha la possibilità di trasformarla in un regalo avvelenato, e
l'avvento del capitalismo non si è privato di quest'opportunità. In queste
condizioni, la decrescita è una sfida una scommessa.
Una sfida alle credenze più radicate, dato che lo slogan costituisce un
insopportabile provocazione e una bestemmia per gli adoratori della crescita, Una
scommessa perché nulla è meno sicuro della necessaria realizzazione di una società
autonoma della sobrietà.Tuttavia la sfida merita di essere lanciata e la scommessa
di essere fatta. La via della decrescita è quella della resistenza, ma anche quella
della dissidenza, di fronte al rullo compressore dell'occidentalizzazione del
mondo e del totalitarismo aggressivo della società del consumo mondializzato. Se
gli obbiettori alla crescita si danno alla macchia ed insieme agli indigeni
d'America marciano sul sentiero di guerra, essi esplorano la costruzione di una
civilizzazione della sobrietà scelta alternativa all'empasse della società della
crescita, e oppongono al terrorismo della cosmocrazia e dell'oligarchia politica
ed economica dei mezzi pacifici: non violenza, disobbedienza civile,
boicottaggio, e naturalmente, le armi della critica.