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Requisiti minimi di una civiltà*

di Vandana Shiva - 08/04/2006

Fonte: liberazione.it




L'ecocidio è un suicidio. La civiltà stessa è diventata un'arma di
autodistruzione di massa. Quando leggo queste affermazioni mi tornano alla
mente le parole pronunciate da Gandhi in una celebre intervista. Un
giornalista gli chiese: «Che cosa pensa della civiltà occidentale?» Dopo un
momento di riflessione, Gandhi rispose: «Potrebbe essere un'idea».
Perché una civiltà possa essere definita tale, deve possedere un minimo di
requisiti. In primo luogo la durata: non può definirsi civiltà un sistema
che sfrutti la Terra in maniera tale da esaurire le sue risorse in pochi
decenni. Sistemi che applicano il genocidio non possono definirsi una
civiltà. Sono mondi privi di una dote essenziale: la "perpetua saggezza".
Le religioni giocano un ruolo fondamentale nelle civiltà. Ma queste
religioni possono essere reinventate? Io credo che siano già state
reinventate. Dobbiamo ri-reinventarle un'altra volta. Vorrei farvi alcuni
esempi di reinvenzione delle religioni. Anni fa ebbi l'occasione di visitare
alcuni musei della Toscana. Un pensiero mi girava per la testa: non riuscivo
a capacitarmi che la Chiesa cristiana che io avevo conosciuto in India fosse
la stessa Chiesa che trionfava nell'Europa del XV secolo. Scoprii una
cultura religiosa affascinante: i dipinti che ne raccontavano le glorie
avevano al centro un immaginario straordinario. La Madonna aveva un ruolo
fondamentale. Ma era la natura ad avere un ruolo essenziale: nel
Rinascimento la biodiversità era il fulcro dell'universo.
Eppure in quegli anni venivano anche soffocate le libertà e stava nascendo
un meccanismo destinato a dominare mondi lontani dall'Europa.
Io mi stupisco sempre delle dotte discussioni attorno all'autorità del Papa.
Siamo tutti preoccupati delle scomuniche verso le politiche di controllo
delle nascite, ci allarmiamo per le opinioni della Chiesa sui preservativi,
ma raramente ricordiamo che fu un pezzetto di carta, una bolla pontificia
del 1492, ad autorizzare genocidi ed ecocidi. Quel documento papale
legittimò i primi passi del colonialismo.
Trasformò una violenza terribile in un dovere cristiano. Quando andiamo a
leggere i documenti che testimoniano le uccisioni dei nativi americani,
scopriamo che la ragione per cui dovevano essere sterminati era il loro
rifiuto del "progresso". Non volevano coltivare la terra per renderla merce
e si ostinavano a trattarla come una madre. Queste società vivevano un
equilibrio perfetto fra natura umana e non umana. Non commettevano un errore
che noi facciamo spesso: è sbagliato parlare di rapporti fra uomo e natura.
Gli essere umani fanno parte della natura, i guai sono cominciati quando gli
uomini, alcuni uomini, si sono considerati al di fuori della natura. Oggi è
essenziale radicarvisi nuovamente.
Ma per secoli e secoli, e spesso ancora oggi, il fatto che alcune società
fossero parte integrante della natura è stato considerato solo una prova
della loro arretratezza. Non aveva alcun valore che la filosofia,
l'economia, l'agricoltura e la cultura di queste società fossero in simbiosi
con la natura: dovevano essere sopraffatte ed eliminate perché inferiori.
Io porto il sari, sono cresciuta in una cultura in cui sei metri di stoffa
sono la mia casa e la mia libertà. Il sari dovrebbe essere consigliato a
tutti! E' un abito così fresco, ventilato: quando lo indossi non avverti mai
troppo caldo o troppo freddo. Ebbene, c'è stato chi è venuto a chiedermi:
come mai indossi il sari già da due giorni? Come ci fossero occasioni in cui
il sari potesse essere fuori posto.
La reinvenzione della religione ha fatto sparire la natura, ha cancellato il
ruolo della donna dalla società europea. Una scomparsa analoga si è prodotta
nel resto del mondo a causa dell'errore cartesiano che ha spinto a non
limitarsi a elaborare la scienza e la tecnologia, ma a plasmarle fino a
farle diventare l'immagine della società. La diversità è stata ripensata in
termini cartesiani.
In India tutto questo è evidente e terribile. La parola «indù» era
l'identità di una regione. L'identità di un luogo chiamato «terra oltre
l'Indo». Questo è stato vero nel XV secolo quando in questa terra arrivarono
i musulmani afgani. Furono sconfitti, nel 1526, nella battaglia di Panipat.
In quelle visite ai musei toscani, a un certo punto, mi sono ritrovata in
una stanza colma di carte geografiche. La mia India era indicata come la
terra del Gange: la nostra identità era data da questo fiume sacro. Il Gange
è stato la nostra cosmologia e la nostra geografia: era la nostra immagine
come veniva percepita dai cartografi di terre lontane da noi. Fino al
momento in cui siamo stati colonizzati, noi eravamo «la terra del Gange», la
nostra cultura poggiava sulle acque sacre di questo fiume. Furono i persiani
a cominciare a parlare di Indostan, del fiume Indo. Il suo nome originale
era Sindu: la terra che attraversava era conosciuta come Sindth. Per un
tragico errore cartesiano era destinata a essere divisa fra India e
Pakistan.
Quando Muhammad Babur, il fondatore Moghul, arrivò in India dalle steppe
dell'Asia centrale, rimase affascinato dall'Indostan: «Un Paese meraviglioso
dove c'è un primo, un secondo e un terzo clima» L'Indostan per il nuovo
imperatore era diverso da ogni altro Paese. Gli alberi, le terre coltivate,
gli animali, le piante, i linguaggi, le piogge, i venti: tutto era diverso.
Una volta che si oltrepassano le acque del Sindu, tutto è «alla maniera
dell'Indostan».
La maniera dell'Indostan era propria anche dei cristiani ortodossi
dell'India meridionale. Tuttora vi sono cristiani sidian che hanno origini
più antiche della Chiesa cattolica romana. Ma questa era anche la terra dei
sufi, arrivati in India ben prima dei moghul: qui affinarono una grande
spiritualità. Vi sono seimila tribù in India. Tutti noi eravamo indù.
Nel 1600 venne creata la Compagnia delle Indie Orientali. Nel 1757 questa
società corruppe un generale e si impadronì del Bengala: fu la prima colonia
inglese. Pochi anni dopo, la Compagnia corruppe anche l'ultimo moghul e gli
impose il primo trattato sul libero commercio. Fu così che il termine
«indù», che definiva un'identità ecologica, un'identità della terra, si
trasformò in un vocabolo religioso: che escludeva i musulmani. Tutto ciò è
annotato in un diario del governatore Warren Hastings, un funzionario
coloniale destinato, come tutti i direttori della Compagnia delle Indie
Orientali, a essere processato in Inghilterra per corruzione.
Hastings distrusse l'India dalle mille culture, la ridusse a una terra
divisa. Con due culture artificiali che si escludevano a vicenda. Creò la
struttura legale per una segregazione basata su una falsa identità
religiosa, che ancor oggi ci opprime. Disse: dobbiamo governare gli indiani
secondo le loro leggi. Però non ci consultò per sapere quali fossero le
nostre leggi e decretò: il Corano governerà i musulmani - a quel tempo
chiamati maomettani - mentre le leggi del Chasta, che significa «testo
scritto», decideranno le sorti dei gentus (Hastings non sapeva nemmeno
pronunciare la parola «indù»!) Ma l'India è così meravigliosamente caotica.
Non ha alcuna fiducia in un testo scritto: è sempre stata la tradizione
orale a essere sistema di governo. A seguito di quella finzione, la nostra
terra è stata oppressa da identità che non erano mai state nostre. Questo ci
divise, ci spezzò. Due milioni di persone vennero massacrate.
La mia musica preferita è il drupat, la più antica dell'India, la più antica
musica classica tradizionale. La famiglia che suona ancora questa musica è
di origine musulmana. Si chiama Dahgas. Ogni famoso musicista indiano, che
si tratti dell'Ostadt Bismelokhan che suona lo sheehnhai, o di Hahlowet
Inkah che ha composto Ravish Nikah Sitar, è devoto a Saraswati, dea
dell'apprendimento. I musicisti avevano in casa immagini di questa divinità.
Ma vennero tutte rimosse: a chi ci si poteva rivolgere per sapere quali
fossero le nuove leggi? A bramini e mullah corrotti, gente staccata dalla
società, dalle culture tradizionali. Non rappresentavano nessuno, ma le loro
leggi continuano ancor oggi a opprimerci.
Nella mia India, nel maggio del 2004, si è votato. La decisione di convocare
le elezioni fu comunicata, all'improvviso, a gennaio. Il governo che le
convocò era salito al potere sull'onda di una ideologia anti-islamica. I
suoi ministri dovevano aver letto le pagine di Samuel Huntington sullo
scontro di civiltà: sostenevano di sapere chi erano solo in quanto sapevano
chi odiavano! Io provengo invece da una civiltà che dice: «Tu sei me, io
sono te, quindi io sono - io esisto - grazie a te». La terra mi plasma, il
cosmo mi plasma. L'ideologia indù, invece, per affermare la sua identità, è
basata sull'odio verso il prossimo: essere indù significava «non essere
musulmano».
Il governo andato al potere in India nel 1992 era diventato così potente
solo grazie a un crimine: avevano fatto demolire la moschea di Babur, la
moschea Ayodhya, dichiarando di avere così salvato il luogo di nascita di
Rama. Uno dei punti di forza della politica di quel governo era una
religione esclusivista, fondata su una identità falsa e forzata. La sua
cultura era un nazionalismo culturale privo di profondità, ma, quasi come
paradosso, a suo agio con i dogmi della globalizzazione economica. Un
nazionalismo che esclude tutte le minoranze e le culture del proprio Paese
si fa alleato di una globalizzazione che dice: «Abbiamo bisogno di più auto,
di più autostrade, di cambiare il corso dei nostri fiumi, di mangiare da
McDonald's».
Per la campagna elettorale del 2004, il partito di governo assoldò, per
cento milioni di dollari, la Grey Global, una società pubblicitaria
americana. Ma qualunque indiano avrebbe potuto suggerire come raccogliere
voti: rispondere ai bisogni della gente, salvaguardare le risorse, porre
fine alla crisi idrica, nutrire gli affamati, dare lavoro ai disoccupati.
L'agenzia non suggerì niente di tutto questo. Ma si inventò due slogan:
«L'India che splende» e «Il fattore feel good». Quest'ultima espressione è
intraducibile in hindi, in tamil o in guggurati, così che quando Advani, il
ministro che aveva demolito la moschea, si recava nei villaggi, i contadini
gli rispondevano: «Conosciamo il gurd, fatto con la canna da zucchero: è il
nostro zucchero naturale. Ma quale pianta è il feel, con cui si fa
quest'altro zucchero?»
Contro il partito di governo si schierò un'italiana, Sonia Gandhi, indiana
per cittadinanza. Ha percorso 60.000 chilometri, ha incontrato la gente, ha
viaggiato nella polvere, ha affrontato il tema della disoccupazione, ha
parlato ai contadini. Non ha mai fatto cenno all'India shining, lo
«splendore dell'India». Ha domandato: «Che cosa vuole la gente comune?»
Sonia Gandhi ha posto sul tappeto il problema della vita quotidiana. Non è
stata una sorpresa che il suo partito abbia raccolto tanti consensi.
Tutte le riflessioni contorte su come una donna italiana potesse vincere le
elezioni non tenevano conto del fatto che gli indiani votavano per lei in
quanto indiana. La stessa Corte Suprema aveva approvato la sua candidatura
sostenendo che nessun cittadino può essere discriminato, né ritenuto
inidoneo a ricoprire qualsivoglia carica o ufficio, sulla base di motivi
religiosi, razziali o di luogo di nascita. La gente ha votato per Sonia
Gandhi. La Costituzione ne riconosceva i requisiti per essere eletta. Siamo
una cultura di appartenenza: e le elezioni del 2004, in India, sono state un
voto a favore di questa antica tradizione che non esclude, ma include. E'
stato un voto contro la globalizzazione, un voto per porre nuovamente
l'accento sulle questioni che veramente riguardano il popolo: l'acqua, il
cibo, i fiumi, le foreste, la terra.
Le capacità di un governo di reggere le sorti di un Paese con giustizia
restano, purtroppo, un'altra cosa: la globalizzazione è una macchina
potente, non esiste una democrazia economica, la gente non può decidere su
come gestire i sistemi idrici e nemmeno cosa mangiare. Non può decidere come
organizzare la produzione, come creare posti di lavoro, quali diritti
esercitare sulle risorse. E questo, a parer mio, è proprio il punto da cui
partire per ricomporre i legami con la natura. Dobbiamo muoverci verso una
nuova democrazia economica se vogliamo essere capaci di stabilire una vera
democrazia della Terra. Ed è necessario farlo, se vogliamo evitare
l'ecocidio-suicidio-genocidio.
Si commettono molti errori quando si parla di cambiamenti climatici, di
riscaldamento globale, di sovrappopolazione. Non tollero che si dica che la
popolazione mondiale è responsabile dell'inquinamento da anidride carbonica,
da zolfo, da azoto: la gente comune, nel Sud del mondo, non vive certo in
un'economia fondata sui combustibili fossili.
I piccoli contadini dell'Africa o dell'India sopravvivono perché nelle loro
minuscole abitazioni producono rifiuti che vengono recuperati e bruciati, di
notte, nella stufa. Si nutrono di quanto ricavano dalla foresta e dalle loro
piccole coltivazioni. Questo tipo di economia biodiversificata non provoca
certamente emissioni in atmosfera di anidride carbonica.
Le emissioni di gas-serra da combustibili fossili provengono da quel sistema
che ha provocato gli «schiavi energetici». Se si vuole ridurre
l'inquinamento atmosferico, responsabile dei cambiamenti climatici, dobbiamo
ridurre il numero di questi schiavi dell'energia. Occorre diminuire il
consumo energetico, è necessario passare alle fonti rinnovabili.
Dobbiamo cominciare a rispettare quelle culture che non considerano la
combustione del legno come una forma primitiva di economia, che non
giudicano il concime naturale uno stadio di sottosviluppo, che non prendono
un vaso di terracotta per un simbolo primitivo. E' il frigorifero che sta
cominciando a essere un simbolo di arretratezza. La sfida che ci troviamo
davanti, a questo punto, sta nel reinventare la nostra umanità, reinventare
ciò che significa «essere umano evoluto». Io ritengo che un parametro sia
questo: più combustibili fossili usi, più sei arretrato e primitivo. Meno ne
usi, più sei evoluto. Non posso accettare che si suggerisca di eliminare la
popolazione del Sud del mondo, il più evoluto, a mio modo di vedere. Io sono
certa che i contadini indiani hanno da insegnare molto all'Occidente. E
anche se spazzassimo via cinque miliardi di abitanti del Terzo mondo, il
cambiamento climatico continuerebbe a prodursi. Non è tollerabile che,
ogniqualvolta si affronti il problema della sovrappopolazione, quasi si
suggeriscano come soluzioni possibili qualcosa di molto simile al genocidio.
Quando la Banca Mondiale scrisse il primo rapporto sull'Aids, in un
minuscolo paragrafo si leggeva che avremmo dovuto «accogliere favorevolmente
l'Aids, dato che serve per il controllo demografico». Qualcuno al summit di
Rio de Janeiro, durante la prima Conferenza mondiale sull'ambiente, nel
1992, non esitò a sostenere che avremmo dovuto ritirare tutti i
finanziamenti al Terzo mondo e lasciare morire i bambini: così si sarebbe
risolto il problema del sovrappopolamento. E, di conseguenza, quello
ambientale.
Quando suggeriamo «la scomparsa della maggioranza» ho l'impressione che una
logica di sterminio si sia consolidata anche nella trincea più illuminata
della società occidentale. Perché è solo così che un quinto della
popolazione mondiale potrà continuare a guidare auto sempre più veloci e a
utilizzare tecnologie inquinanti. Ma questo pianeta non appartiene a quel
quinto di umanità: appartiene ai sei miliardi di persone che lo abitano,
appartiene alle trecentomila specie che ci vivono. Ognuna di esse ha diritto
alla sua parte di risorse.
Ci sono due insegnamenti che io traggo dalla mia cultura. Il primo dice: se
consumi più di quanto hai bisogno, stai rubando la parte di risorse che
appartiene a qualcun altro. Sia che si tratti di atmosfera, di acqua, o di
biodiversità. Il secondo insegnamento è di Gandhi: «Questo pianeta ha
abbastanza risorse per tutti, ma non ne ha abbastanza per l'avidità di
pochi».

*Testo tratto dal Libro "Cambiare aria al mondo. La sfida dei mutamenti
climatici" di Claudio Martini edito da Baldini e Castoldi