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Quelle persone buone, semplici e miti che mandano avanti il mondo

di Francesco Lamendola - 23/02/2010

 

L’altro giorno mi è tornata in mente la signora Alice.
Era già anziana quando io ero bambino; ed era già carica di acciacchi e di delusioni.
La ricordo così: piccola, tondetta, che si muoveva a fatica, e quasi cieca da tanto era miope; però sempre indaffarata, sempre al lavoro: e sempre con un sorriso.
Più tardi ho saputo che il suo cuore non era lieto; che i dispiaceri familiari le amareggiavano la vita; che, a volte, una lacrima le scorreva giù dalle guance, e allora si passava velocemente le dita sotto gli occhiali dalle lenti spessissime, simili a fondi di bottiglia, quasi vergognosa della propria momentanea debolezza.
Era una piccola donna eccezionale.
Credo fosse ignorantissima, nel senso corrente della parola; probabilmente non aveva neanche il diploma di quinta elementare e di certo non aveva letto né Virgilio, né Dante. Però molte cose aveva imparato dalla scuola della vita e dalla sua rude pedagogia; molti dolori aveva sopportato e molta solitudine; per non parlare delle strettezze economiche.
Vestiva in modo decoroso, ma modestissimo, infagottata in quei suoi cappotti sformati; portava in testa il suo fazzolettone nero, come usavano le donne friulane, e, non avendo i soldi per il dentista, si teneva i denti mezzi guasti. Parlava con voce un po’ rauca, asmatica, quasi a fatica. E stanca doveva esserlo perennemente, dato che faceva mille mestieri di fatica, nei locali pubblici e nelle case private, per guadagnarsi da vivere.
A casa nostra veniva per amicizia e, prima di andarsene, riceveva un sacco di pare duro per i suoi conigli e qualche ordinazione per dei lavori di cucito.
Una volta venne a trovare mia mamma, ma era turbata, quasi piangente: le lenti dei suoi occhiali erano rotte e lei non vedeva praticamente nulla. Disse che le erano caduti, ma vi era motivo di credere che le cose fossero andate altrimenti, che qualcuno glieli avesse rotti; troppo dignitosa per confessare fino a che punto la sua vita fosse intessuta di umiliazioni, non volle dire niente. Mia mamma le offrì del denaro per farsi rifare le lenti e lei se ne andò un po’ racconsolata, con quei suoi passetti corti e veloci e quella sua caratteristica camminata dondolante.
Non l’ho mai dimenticata.
Non ricordo episodi particolari legati alla sua figura, né gesti clamorosi, e nemmeno frasi memorabili. Era una piccola, curva, vecchia donna, che tirava avanti con fatica, in una casa ove si sentiva di troppo; ma non aveva i mezzi per andarsene e doveva, perciò, convivere con quotidiane mortificazioni.
Quando parlava e sorrideva, il suo viso si illuminava di bontà.
Era una persona semplice e mite: una delle tante, sconosciute persone semplici e miti che mandano avanti il mondo con la loro pazienza ed il loro coraggio, mentre gli altri - i ricchi, i sani, gli intelligenti, i colti, i giovani e i belli - si ingegnano in mille modi per mandarlo a rotoli, pur senza aver mai dovuto fare neanche la decima parte dei sacrifici di quelle.
Le sue amarezze non l’avevano amareggiata; le sue delusioni non l’avevano inaridita; le sue preoccupazioni non riuscirono mai a toglierle del tutto dal viso quel sorriso buono, quello sguardo mite e benevolo, di chi guarda al mondo con amore.
Anni e anni dopo che ci eravamo trasferiti in un’altra città, lei continuava a chiedere di mia mamma ogni volta che incontrava i nostri parenti. Era fedele nel ricordo e non perché si aspettasse qualche cosa in cambio, visto che ormai non saremmo più tornati.
Se qualche volta mi torna alla memoria la signora Alice, o meglio, semplicemente Alice, come la chiamavamo affettuosamente (e non certo per mancanza di rispetto, dato che mi è stato sempre insegnato a guardare con eguale considerazione qualunque persona, indipendentemente dalla sua posizione sociale), è perché non finisco mai di stupirmi al pensiero di quanti bravi uomini e donne sconosciuti esistono al mondo e gli permettono di andare avanti, nonostante il trionfo apparente dell’egoismo e della stupidità, eretti a sistema di vita.
E non finisco mai di provare sdegno al pensiero di come gli intellettuali, tradendo la responsabilità che viene affidata loro, facciano di tutto per esaltare modelli di vita narcisisti e distruttivi, veicolando l’idea funesta che una persona colta e intelligente deve essere per forza scontenta e rabbiosa contro tutto e contro tutti, non deve credere a niente e deve farsi beffe della bontà, ogni volta che la incontra, per mostrare di che stoffa “superiore” sia fatta.
Così, partendo dal ricordo di Alice, passo in rassegna tutte le persone buone, semplici e miti che ho avuto modo di incontrare nella vita, e il mio cuore dà un balzo di orgoglio, perché mi rendo conto di essere stato fortunato.
Ripenso a tanti piccoli eroi anonimi, quasi tutti di estrazione sociale modesta, la cui presenza, e sia pure occasionale, ha riempito di calore lo sfondo della mia vita, aggiungendosi al calore della mia famiglia; e anche a quelli che ho conosciuto più tardi, per arrivare fino a quelli che ho l’onore di conoscere attualmente.
Mi sento un privilegiato; ma ho il sospetto che tutti dovremmo sentirci così, se solo sapessimo guardarci intorno un po’ meglio, e riconoscere le pietre preziose che incontriamo sul nostro cammino, in mezzo ai comuni ciottoli di fiume.
Ripenso, ad esempio, ad Angelo, il negoziante che aveva sempre un sorriso gentile ed un cioccolatino da offrire alle mie bambine, quando entravo nella sua piccola bottega di paese per fare la spesa. Un tumore se l’è portato via quasi da un giorno all’altro, ma il suo sorriso è rimasto nel ricordo di quanti l’hanno conosciuto.
Oppure ripenso a Regina, la nonnina che viveva sola, perfettamente lucida e dignitosa, a più di novant’anni d’età, nel suo appartamento, alle cui finestre splendevano sempre dei bellissimi vasi di gerani, e che sempre si mostrava sollecita del prossimo e si interessava ai problemi degli altri, trovando ogni volta una parola di fede e di incoraggiamento da donare. Era bravissima a lavorare all’uncinetto; ed erano dei piccoli gioielli quelli che uscivano dalle sue mani.
L’elenco sarebbe lungo, lunghissimo.
Se lo facessi tutto (ma certo chissà quante persone dimenticherei), alla fine una cosa apparirebbe evidente: che queste persone umili e nascoste, piene di bontà e di delicatezza, sono molto, ma molto più numerose delle persone egoiste e cattive che, pure, ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di incontrare nella propria vita.
Non è una scoperta da poco.
Significa che, nel mondo, la bontà è più diffusa della cattiveria; anche se bisogna aver sviluppato quel minimo di maturità per saperla riconoscere e per apprezzarla al suo giusto valore, per quanto possa vestire i più umili panni.
E anche quest’ultima constatazione non è cosa poco. Significa che per poter vedere la bontà che ci circonda, bisogna esserne degni: perché non si rivela a chiunque, non si rivela alle persone superficiali, distratte, egoiste.
Questo ci riconduce ad una ulteriore verità: che, nella vita, niente ci viene dato gratis; o meglio, che tutto ci viene offerto gratis, ma solo allorché noi abbiamo maturato la capacità di apprezzare ogni singola cosa.
Ed  giusto che sia così.
Il dono non può e non deve essere più grande della capacità di apprezzarlo da parte di colui che lo riceve.
Non si deve regalare a un bambino un giocattolo più grande di lui; non si deve regalare a una persona un amore più grande di lei.
Devono esistere una proporzione e una corrispondenza ben precise fra l’entità del dono e l’anima del suo destinatario.
Se questo non avviene, allora il dono non viene capito e il suo destino è quello di essere gettato in un angolo e di restare inutilizzato o, peggio, di venire calpestato. Qualcuno disse in proposito: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le pestino coi loro piedi e, rivoltandosi, vi sbranino» (Matteo, 7, 6).
E si potrebbero citare molti esempi di persone che non solo non hanno saputo ricavare alcun giovamento da un dono troppo grande che era stato fatto loro, ma che, addirittura, ne hanno ricevuto un danno per la propria evoluzione spirituale.
È per questa ragione che una persona piccola e meschina non potrà mai comprendere il vero significato dell’amicizia o dell’amore: perché l’amicizia e l’amore sono doni grandi, per persone grandi.
Una formica non può capire se il sasso su cui si aggira è un sasso qualunque in mezzo a un campo oppure se è la cima della montagna più alta della Terra; perché la formica giudica ogni cosa secondo la propria prospettiva e secondo le proprie capacità.
Ciascuno di noi vede e giudica la realtà secondo la propria prospettiva e secondo le proprie capacità, ossia in base al livello della propria maturazione spirituale.
Rimanere a bocca aperta davanti a un bel corpo seducente, davanti alla giovinezza e alla ricchezza: queste cose non richiedono alcuna maturazione spirituale e chiunque ne rimanga conquistato, senza desiderare di spingere lo sguardo un po’ oltre, mostra in maniera evidente tutta la propria superficialità e tutta la propria piccolezza.
Infatti le più grandi qualità dell’anima, come abbiamo visto, non di rado si nascondo sotto umili apparenze: e saperle riconoscere e apprezzare richiede, se non un’anima grande, quanto meno una disposizione alla grandezza d’animo.
Esiste, a questo proposito, un grosso equivoco intorno al concetto di virilità.
Secondo l’opinione corrente, “virile” sarebbe, più o meno, sinonimo di duro, di brutale, di insensibile; oltre che, si capisce, di potente in senso sessuale.
Ma è un’opinione del tutto sbagliata. La vera virilità è sinonimo di forza calma e tranquilla, di noncuranza del superfluo e di capacità di puntare dritto all’essenziale.
La vera virilità, pertanto, è una caratteristica piuttosto rara; né si può dire che sia una qualità esclusivamente maschile. Al contrario, sono abbastanza rari gli uomini davvero virili, e questo specialmente al giorno d’oggi; mentre una donna può essere virile, senza perdere nulla della propria femminilità.
Una persona virile è, quindi, una persona grande: perché solo le persone grandi, o le persone capaci di aprirsi alla grandezza e accoglierla in sé, sanno riconoscere e apprezzare la grandezza di un’altra anima.
Le persone inconsapevoli non la vedono neppure, mentre quelle ottenebrate dal falso Ego si infiammano di invidia e di gelosia, perché intuiscono quanto uscirebbero umiliate dal confronto, e fanno di tutto per sminuirla.
Grandezza chiama grandezza, meschinità chiama meschinità: ciascuno è attratto o respinto secondo le leggi della propria natura.
La vecchia Alice, con le sue lenti che parevano fondi di bottiglia e il suo sorriso buono e mite (una persona buona può anche non essere mite), era una donna grande.
Ma perché dico: “era”?
Alice è qui, è viva: è viva nelle mille e mille persone come lei, piccole, umili, sconosciute. La televisione non parla mai di loro, né lo fanno i giornali. Ma sono loro a mandare avanti il mondo in cui viviamo e a renderlo respirabile, vivibile, col profumo del loro sorriso.
Guai se non ci fossero loro.
Potremmo fare a meno di Cesare o di Napoleone, ma non delle persone come la cara, vecchia Alice.